Facebook, il social network con il più alto numero di iscritti al mondo (ben 130 milioni) già da un po’ di tempo è diventato un fenomeno sociale: fa pubblicare libri, orienta alcune strategie di comunicazione politica, richiama analisi di scrittori, esperti e giornalisti, facendo versare loro fiumi e fiumi di inchiostro.
È una delle forme aggregative di massa più importanti emerse in quest’ultimo periodo sulla rete, riuscendo ad attirare utenti anche alle prime armi con l’informatica. Considerato l’emblema di una nuova era della comunicazione, che verte sui concetti di socialità globale, interattività ed estrema visibilità, Facebook è però snobbato dagli inserzionisti della rete, sempre meno disposti a spendere in pubblicità.
Facebook, come tutti gli altri social network, soffre di un basso ritorno economico, derivante da un generalizzato disinteresse degli utenti alla pubblicità offerta nelle sue pagine. Ad attestare questa situazione di crisi e le difficoltà dell’advertising on-line a decollare definitivamente, sono i dati pubblicati di recente da eMarketer, una delle società più attente ed affidabili nel rilevare le dinamiche in atto nel cyberspazio, che nel corso del 2008 ha abbassato più volte le previsioni di spesa per la pubblicità su Facebook.
Stando alle ultime stime elaborate a dicembre, il social network ha raccolto 210 milioni di dollari rispetto ai 265 milioni ipotizzati a inizio anno, con un calo del 20,8%, e per il 2009 si prevede che il taglio del budget sarà ancora più netto. Anche MySpace, il social network di proprietà della News Corp naviga in cattive acque: ha chiuso il 2008 con 585 milioni di dollari di ricavi pubblicitari, contro i 755 previsti.
In tempi di recessione, pur essendo l’intero comparto della pubblicità on-line a patire, le reti sociali sono quelle più di tutte colpite dalla crisi perché non solo non hanno saputo garantire adeguati ritorni sugli investimenti, ma non hanno ancora trovato la strada giusta per sviluppare modelli di business adeguati, in grado di valorizzare a fini commerciali e trasformare in denaro gli enormi volumi di contenuti generati dagli utenti.
Per tentare di far fronte a questo problema, e sviluppare un modello di business redditizio, Facebook già nel novembre 2007 ha lanciato Facebook Ads, un sistema pubblicitario integrato con l’intero social network, che consente agli advertiser di inserire i loro annunci in modo mirato, targhettizzando il profilo dei suoi membri nonché le loro interrelazioni a scopi promozionali e di branding. Facebook Ads, tra le sue possibilità contempla anche quella di far creare alle aziende i loro profili nel social network (Facebook Pages), dei profili speciali attraverso i quali cercano di promuovere i loro brands, svolgendo tutte le attività che normalmente svolge un membro di Facebook.
Questo sistema di advertising mirato e forse troppo invasivo, dopo aver sollevato un mare di polemiche sulla possibile violazione della privacy, sembra non funzionare: è quanto è emerso da una ricerca che ha messo a confronto Facebook Ads e Google Adwords, dimostrando come quest’ultimo sistema riesca a raggiungere utenti più targhettizzati.
In questo caso l’errore più clamoroso è stato quello di voler valutare il mercato della pubblicità basandosi su modelli di dati tratti da siti completamente diversi dalla sua specifica realtà di community. "Infatti non bisogna dimenticare che Facebook, come ogni altro social network, non può contare sugli utenti che arrivano direttamente dai motori di ricerca i quali rappresentano proprio la fascia più interessata agli annunci pubblicitari, specialmente quando questi ultimi costituiscono un’informazione aggiuntiva alla loro ricerca", dichiara Giorgio Taverniti.
Credere di basare il suo ritorno economico su annunci testuali o banner da inserire nelle pagine di contenuto create dagli utenti, è stato un grosso sbaglio, poiché essere presente in un social network, per una società dovrebbe significare dare qualcosa ai propri clienti, e non limitarsi a mostrare loro un banner, a meno che quest’ultimo non sia solo l’inizio di una vera e propria conversazione cliente-prodotto-cliente.
Ted McConnel, Interactive Marketing General Manager di Procter&Gamble, recentemente in un articolo apparso sul New York Times, ha espresso i suoi dubbi sul potenziale di Facebook come strumento di marketing, specialmente dal punto di vista dell’advertising. Il manager di Procter&Gamble, dopo aver visto i risultati non buoni ricavati dalle campagne pianificate su Facebook per promuovere alcuni prodotti della società, ha affermato che le aziende non hanno una ragione sensata per essere su Facebook.
Il problema di fondo di Facebook e degli altri social network, è che la gente li frequenta per trascorrere del tempo con gli amici non con le aziende, e quindi appaiono poco propensi a subire pubblicità invasive in un luogo che percepiscono di loro proprietà e che viene usato per le relazioni personali. Cercare di infilarsi a tutti i costi in una conversazione tra persone è controproducente e le aziende, agendo in questo modo rischiano di essere percepite come degli intrusi che parlano fuori contesto.
L’eminente ed influente guru ritiene invece che ci sia molto più spazio per le applicazioni sul famoso social network: “Le società che fanno pubblicità su Facebook dovrebbero essere viste come portatrici di nuove funzioni, che arricchiscano l’esperienza dell’utente” puntando quindi ad una presenza attiva.
In conclusione, Facebook vedrà assicurato il suo futuro solo quando sarà in grado di sviluppare un nuovo modello di business e di convincere gli inserzionisti a creare campagne sinceramente coinvolgenti che partano dall’ascolto per cercare di capire cosa possano dare di veramente utile, interessante e divertente ai propri interlocutori.