Henry Jenkins nel bellissimo libro Cultura Convergente, dedica un intero capitolo a Star Wars e alla fan fiction che fin dagli anni settanta ha appassionato milioni di fan di tutto il mondo. Leggiamo come all’inizio LucasFilm abbia apertamente incoraggiato la fan fiction (tanto da creare nel 1977 un ufficio che rivedeva il materiale prodotto dai fan per evitare l’infrazione del copyright), negli anni ottanta abbia cominciato a porre i primi limiti alle scene girate dai fan (soprattutto quelle con contenuti sessuali espliciti), per giungere negli anni novanta (con il boom di Internet e di tecnologie a basso prezzo che permettevano la realizzazione di effetti speciali di altissimo livello) ad un rigido controllo dei contenuti creati dai fan.
Ultima tappa di questa evoluzione (o involuzione) si è avuta nel 2000 quando LucasFilm ha offerto ai fan un sito ufficiale con una seziona dedicata ai fan movies e una con contenuti esclusivi per la realizzazione delle loro creazioni; creazioni però che non devono in nessun modo utilizzare musica, immagini e scene protetti da copyright, non devono ampliare l’universo narrativo di Star Wars e, piccolo particolare, diventano proprietà intellettuale dell’azienda. Ovviamente continuano a spopolare in rete video che non rispettano queste condizioni, ma per numerosi contenuti non riconosciuti dall’azienda ce ne sono migliaia che rispettano le restrizioni e celebrano la saga con la benedizione di Lucas e soci, perché loro amano i propri fan!
Uno di questi ultimi è Star Wars: Uncut, progetto che intende realizzare il remake collettivo di Star Wars Episode IV: a New Hope. Il film è stato praticamente spezzato in clip di 15’’, chiunque ha potuto scegliere il proprio e rifarlo come ha sempre sognato… i singoli clip verranno poi rimontati per dare vita ad un unico film creato da centinaia di fan… inutile sottolineare il successo che il progetto ha riscontrato fra le comunità della rete!
Progetto per certi aspetti molto simile a Star Wars: Uncut, anche se non dura 121 minuti e non prende spunto da un film che ha fatto la storia del cinema mondiale vincendo ben sei premi Oscar, è Live Music. Questo cortometraggio, premiato dalla Sony, è stato infatti realizzato, così come il primo, da un team di persone che non si è mai parlata né incontrata prima. Anche in questo caso grandissimo successo, in 17.000 si sono candidati per il progetto lanciato da Mass Animation attraverso Facebook.
La parola d’ordine per entrambi i progetti è sicuramente Crowdsourcing. Il termine, neologismo coniato da Jeff Howe, giornalista di Wired, nel 2006, è la sintesi di crowd-folla e outsourcing-attività di affidare al di fuori della propria impresa alcuni compiti; ed è forse la realizzazione di quella che Lévy ha definito intelligenza collettiva. Afferma il filosofo francese, “nessuno di noi sa tutto, ognuno di noi sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell’umanità”. Intelligenza collettiva intesa quindi come capacità delle comunità virtuali di far leva sulla competenza combinata dei loro membri, e che ci permette di fare collettivamente ciò che non siamo in grado di fare o sapere da soli.
E cos’è il crowdsourcing se non questo? Sempre più spesso le comunità virtuali, questo caso definite community di risolutori che possono essere professionisti o semplici appassionati e volontari, vengono interpellate per la risoluzione di problemi, per la ricerca di idee o per la creazione di contenuti. Oltre la possibilità di problem solving infatti, il crowdsourcing rappresenta anche un’enorme possibilità per le imprese di comunicare con i propri clienti catalizzando la creatività collettiva, attraverso progetti di open innovation, pensiamo ad esempio a “Nel Mulino che Vorrei”. Le attività di crowdsourcing, come possiamo leggere nel libro Crowdsourcing di Howe o sul suo blog interamente dedicato all’argomento, possono avere sia finalità economiche sia finalità etiche e divulgative o di pubblica utilità, in questo caso pragmatico l’esempio Wikipedia, progetto crowdsourcing per eccellenza.
Il crowdsourcing che si colloca nell’era dell’Enterprise 2.0, ovviamente resa possibile dagli strumenti del Web 2.0, è orientato alla collaborazione di massa, alla condivisione della conoscenza e allo sviluppo e alla valorizzazione delle reti sociali. Valorizzazione che però non sempre avviene, anzi molte volte, come leggiamo in questo interessantissimo articolo di Diva Marketing Blog, le aziende chiedono aiuto agli utenti e alle community per risolvere problemi, migliorare prodotti o avere nuove idee, sfruttando le reti sociali poichè si appropriano di idee e soluzioni senza neanche riconoscere i meriti e/o ringraziare gli utenti.
Sta di fatto, che inserito in un processo più generale di co-creazione, ovvero un rapporto di scambio fra aziende e clienti che prevede vantaggi per entrambe le parti, il crowdsourcing fa della collaborazione il presupposto più importante. L’argomento è trattato in maniera esemplare da Don Tapscott e Anthony D. Williams nel loro libro: Wikinomics 2.0. Gli autori provano a spiegarci come la “collaborazione di massa stia cambiando ogni cosa” e che il futuro appartiene a quelle aziende che non saranno un’organizzazione chiusa, ma decideranno di far parte di un meccanismo aperto cercando il modo di incorporare l’intelligenza collettiva nel loro business, seguendo i principi di apertura, peering, condivisione e azione globale.
Ma ciò che davvero fa del crowdsourcing un processo tanto importante e potente è la possibilità di utilizzarlo per diverse attività ed in diversi settori. Abbiamo già parlato del progetto crowdsourcing per eccellenza, ovvero Wikipedia, e di progetti crowdsourcing cinematografici, ma la lista è lunghissima. Innanzitutto partiamo da Zooppa, che come si legge nel suo manifesto ricorda a tutti che il mondo della pubblicità fino ad ora era diviso in due: le grandi agenzie da una parte, i grandi marchi dall'altra. Oggi invece c'è un terzo attore, gli utenti! Come dimenticare poi i due concorsi lanciati da Fiat 500, il primo per il lancio della nuova autovettura, 500 WANTS YOUR ADV. You, a creative, il secondo per la creazione della nuova mascotte, 500 WANTS a MASCOTTE.
Ma pensiamo anche a iStockphoto, che raccoglie oltre dieci milioni di foto di repertorio scattate da amatori con tariffario che varia da 1 a 5 dollari, contro i 100-150 che richiederebbe in media un professionista. O pensiamo a Threadless e a John Fluevog Shoes che realizzano rispettivamente le proprie t-shirt e le proprie scarpe utilizzando i disegni creati dagli utenti. Oppure pensiamo all’ultima iniziativa de The Guardian, che ha messo a disposizione dei propri lettori un database contenente i 700.000 documenti resi pubblici dal parlamento dopo lo scandalo per le spese gonfiate dai parlamentati britannici, al fine di far partecipare all’inchiesta il più alto numero di persone, in modo da poter davvero spulciare ogni singolo documento, una vera inchiesta collettiva. Oppure Bon Bon Kakku che realizza i tessuti progettati dagli utenti. Oppure pensiamo a InnoCentive che raccoglie i dati di circa 90 mila ricercatori e dove imprese del calibro di Boeing e Eli Lilly, pongono quesiti tecnici molto complessi prevedendo ricompensi più o meno alti per chi li risolve. O ancora Take a Coder un online marketplace dove le aziende incontrano programmatori software o al caso italiano di Itasa, di cui abbiamo già parlato in un recente post, team che si occupa di sottotitolare serie tv, film ecc…
Infine il progetto Lego che da anni sul sito invita a proporre nuovi giochi, realizzando i migliori progetti… ma per chiudere il cerchio, da non perdere la sezione del sito Lego interamente dedicata a Star Wars e in particolare l’area in cui è possibile vedere movie di Star Wars realizzati con i toys danesi!
Ma di certo ci sono altri progetti non menzionati che molti di voi invece conosceranno… allora in stile crowdsourcing collaboriamo e segnalateceli ;)