Ad Aprile è uscito Nessun Segreto, edito da Mimesis per la collana "Il caffè dei filosofi".
Il saggio ricostruisce gli eventi salienti della biografia di Julian Assange e il contenuto dei "cable" pubblicati finora, fino ad arrivare alla questione più spinosa e dibattuta: che cosa vuole ottenere Julian Assange?
Rimandiamo la risposta alla lettura del libro.
A Fabio Chiusi abbiamo invece voluto chiedere qualche dettaglio in più sulla figura di Assange e su cosa ne sarà di WikiLeaks.
Che fine ha fatto Julian Assange?
Assange è ai domiciliari in una residenza nel Norfolk, nell'est dell'Inghilterra. Qui attende di conoscere l'esito dell'appello, presentato dal suo avvocato, alla sentenza di estradizione in Svezia pronunciata dalla corte di Belmarsh per le accuse a sfondo sessuale che lo vedono coinvolto nel Paese scandinavo. L'udienza è fissata per il 12 luglio.
Quali fonti ha utilizzato per il suo libro e con quale il criterio le ha selezionate?
Ho utilizzato principalmente le testimonianze di prima mano contenute in alcuni libri, come quelli dell'ex numero due di Assange, Daniel Domscheit-Berg e dei giornalisti del Guardian, David Leigh e Luke Harding, che hanno lavorato a stretto contatto con Julian. Per la sua biografia mi sono servito del racconto, anch'esso preso in prima persona, di Raffi Khatchadourian per il New Yorker, oltre agli scritti dello stesso Assange e ai racconti fatti in svariate interviste. Quando possibile, ho sempre cercato di risalire ai documenti originali. Per la parte più «filosofica», invece, il lavoro è stato principalmente di ricostruzione del dibattito apparso in rete su siti e blog più o meno conosciuti. Ma ho anche intervistato due «guru» del settore, Micah Sifry, ideatore del Personal Democracy Forum, e Gabriella Coleman, forse la maggiore esperta di antropologia hacker. Un lavoro non semplice, dato che su molti aspetti del suo «pensiero», Assange è criptico, frammentario o, più semplicemente, non ha mai scritto o detto nulla. E che parlare direttamente con Assange, come è facile immaginare, mi è stato impossibile. Quanto al criterio di scelta, ho dato la priorità alla solidità delle argomentazioni.
Cultura hacker, metodo giornalistico, filosofia cyberpunk, ideologia anarchica. In che modo tutto questo si fonde nella figura di Julian Assange?
Si fonde grazie alla sua biografia. E grazie alla tecnologia attuale, che permette di mettere in discussione molte barriere un tempo ritenute inscalfibili. Che differenza c'è, infatti, tra il giornalismo tradizionale d'inchiesta e l'idea, hacker, di usare l'ingegno e la creatività per promuovere e tutelare la libertà di espressione e la conoscenza? Allo stesso tempo, in che modo gli strumenti concettuali adottati da Assange sono diversi da quelli di un attivista per i diritti umani? E ancora: cosa impedisce a un sito come WikiLeaks di pubblicare rivelazioni che, sia questo o meno il fine esplicito dell'organizzazione, rischiano di alterare profondamente le istituzioni per come le conosciamo, oltre al rapporto tra cittadini e autorità? Per ora WikiLeaks ha prodotto tanto buon giornalismo, e in pochissimo tempo, ma non ha portato alla luce fatti gravi al punto da suscitare cambiamenti profondi nell'atteggiamento dell'opinione pubblica o nei comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei governi. Tuttavia ha mostrato che esiste un metodo per farlo, e in modo sicuro. Questo può avere conseguenze davvero devastanti.
Bruce Sterling, padre della letteratura cyber-punk, considera Assange “uno su un milione”, perché?
Perché a suo dire è espressione di un mondo che non ha mai saputo esercitare un'influenza così plateale, mediatica, globale. E tuttavia lo rappresenta profondamente. È il mondo che abita il sottobosco della rete, se così si può dire, e che fin dai primi anni 90 si spende, per esempio, per l'utilizzo della crittografia al fine di tutelare la privacy degli individui e la libertà di espressione. Assange, tuttavia, ci ha messo la faccia in un modo inedito, unico, trasformando azioni individuali e movimenti sotterranei in una sfida al sistema politico internazionale e in una mobilitazione che ha coinvolto milioni di persone.
Quali sono le ricadute del cablegate nell'attuale scenario politico internazionale?
È presto per dirlo. Solo una piccola percentuale dei circa 250 mila cablo in possesso di WikiLeaks e di alcuni suoi media partner, infatti, sono stati pubblicati. E non è trascorso abbastanza tempo per poter valutare con serenità e correttezza la loro influenza sullo scacchiere geopolitico. Eppure in Italia si è parlato di «tempesta sul mondo», «11 settembre della democrazia» o, al contrario, «gossip scadente». Il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha addirittura detto che Assange vuole «distruggere il mondo»: un obiettivo stravagante per chi continua a collezionare riconoscimenti per le sue battaglie in favore dei diritti umani. Stando a quanto pubblicato, comunque, si può dire che i cablo hanno avuto maggiore risonanza effettiva in India, Paraguay, dove hanno comportato sconvolgimenti politici, e in Tunisia, dove potrebbero avere aiutato a scatenare la miccia della rivolta popolare, che negli Stati Uniti.
WikiLeaks ha inaugurato un nuovo modo di fare giornalismo?
Non credo. Credo invece abbia ricordato a certi giornalisti come si fa il proprio mestiere. Certo, lo strumento utilizzato da WikiLeaks è sostanzialmente nuovo, ma ciò che consente di fare è tutto sommato giornalismo tradizionale: protezione della propria fonte, scrutinio della validità dei documenti, analisi del loro significato, contestualizzazione, traduzione in una storia comprensibile ai lettori. Con una differenza: WikiLeaks consente a chiunque ne abbia tempo, voglia e capacità di diventare a sua volta un buon giornalista d'inchiesta. Perché il materiale è lì, a disposizione di tutti.
Lei sostiene che c'è qualcosa Julian Assange potrebbe aver "appreso a sproposito", ci vuol spiegare cosa significa?
È quanto sostiene il suo ex numero due, Domscheit-Berg. Nel racconto della sua esperienza lavorativa, ma anche umana, con Assange, Domscheit-Berg accusa Julian di aver interiorizzato i difetti di alcune delle organizzazioni finite nel mirino di WikiLeaks. È un'accusa pesante, perché comporta che Assange sia diventato una sorta di «mostro finale» che racchiude in sé tutte le insidie rappresentate da quelli affrontati in precedenza. Difficile, naturalmente, provare una affermazione di questo tipo. Quel che è certo, tuttavia, è che il rapporto tra Assange e molti dei suoi più stretti collaboratori è stato problematico e si è interrotto proprio a causa del suo stile di leaderhip autoritario e della sua insofferenza alle critiche.
Julian Assange è WikiLeaks?
In un certo senso sì, senza dubbio. È lui l'ideatore, lui la mente, lui ad accentrare in sé il potere decisionale sulle pubblicazioni e sulle strategie di comunicazione. Tuttavia, in un altro senso non lo è. Prima di tutto perché Assange è di certo un genio tuttofare, ma non può addossarsi tutte le responsabilità derivanti dalla gestione di un'organizzazione nell'occhio del ciclone come WikiLeaks. In secondo luogo, perché l'idea e il modello WikiLeaks sopravviveranno, e si evolveranno, indipendentemente dalle sorti di Assange e perfino della sua organizzazione. Questo è forse il motivo di maggiore preoccupazione per i suoi detrattori: sradicate le radici, i rami non muoiono. Anzi.
Come giudica il modo in cui il caso wikileaks è stato trattato dalla stampa italiana?
Pessimo. Ampia e urlatissima copertura per i «festini selvaggi» di Berlusconi di cui si parla nel Cablegate, e di cui sappiamo tutto; due colonne striminzite per i Guantanamo Files, che rivelano dettagli inediti e terribili, come l'incarcerazione di 150 innocenti, compresi vecchi e adolescenti, anche se mentalmente disagiati o a rischio suicidio. Per non parlare del silenzio quasi tombale sul caso Bradley Manning, l'analista dell'intelligence che avrebbe fornito centinaia di migliaia di documenti ad Assange, in carcere da un anno in assenza di un processo. Fino alle pure e semplici bugie raccontate, per esempio, dal Foglio qualche giorno fa. In un pezzo in cui il quotidiano di Giuliano Ferrara sosteneva che Assange e la sua superbia fossero la «causa» della morte di «molti» collaboratori afgani degli Stati Uniti. Circostanza addirittura smentita dalle stesse autorità statunitensi. Del resto, siamo nel Paese in cui, a Porta a Porta, a commentare il caso WikiLeaks è stata chiamata la conduttrice Mara Venier.
Ha provato a mettersi in contatto Assange?
Certo. Ma non mi è stato possibile raggiungere né lui né i suoi collaboratori.
Come giudica l'esperimento de L'Espresso di creare un canale di comunicazione con Assange?
Un'ottima idea. Non inedita, del resto: se non sbaglio lo stesso sta avvenendo con un totale di 70 media partner in tutto il mondo. È il modo migliore per pubblicare i cablo giusti al momento giusto, contestualizzarli al meglio, garantire l'obiettivo del «massimo impatto politico». Che è quanto Assange si prefigge.
Recentemente Assange ha dichiarato che Facebook è uno strumento in mano alle intelligence, si trova d’accordo con questa affermazione?
Non so di che informazioni disponga Assange per giustificare una simile affermazione. Di certo, io non ne possiedo. Quindi un conto è lamentare, giustamente, la scarsa trasparenza nella gestione del social network e in particolare nelle modalità di attuazione delle sue condizioni di utilizzo; un altro ipotizzare legami con l'intelligence. Onestamente penso che pensieri come questi riflettano più il carattere paranoico di Assange che un dato su cui riflettere. A meno che Julian sia a conoscenza di fatti che ignoro, o di documenti che, ribadisco, non possiedo.
Molti dicono che Barrett Brown, ex portavoce di Anonymous, sia il nuovo Assange, lei cosa ne pensa?
Già il fatto che si definisca portavoce di un movimento che, per sua natura, non ha un portavoce me lo fa dubitare. Quanto al suo legame concettuale, non mi sembra si tratti di soggetti comparabili: Brown afferma candidamente di voler violare server, per esempio quelli di Hb Gary, mentre Assange con WikiLeaks non ha alcun bisogno né alcuna intenzione di farlo. Forse il paragone è sorto perché entrambi, agli occhi dei media, possono sembrare soggetti in cerca di visibilità e disposti a giocare al limite delle regole. Ma io non credo ci sia bisogno per forza di un «nuovo Assange». La postfazione al mio libro, di Guido Scorza, lo spiega molto bene: potrebbe esserci, ma non avere un volto, e non agire dietro a un brand come WikiLeaks.
Sentiremo ancora parlare di WikiLeaks con lo stesso fragore dello scorso anno?
Possibile, dipende tutto dalle sue fonti. E dal ripristino della piena funzionalità del sito, il cui sistema di ricezione dei documenti, per quanto ne so, è ancora fuori uso. Bisogna poi considerare che se è vero quanto sostiene l'accusa su Bradley Manning, WikiLeaks ha vissuto un anno eccezionale nel senso proprio del termine. Non capita spesso di avere un'unica fonte che riesca a trafugare così tanti documenti, e così tanto importanti. In seconda battuta, dipende dalle vicende giudiziarie di Assange. Se dovesse essere estradato negli Stati Uniti e incriminato per spionaggio, le pubblicazioni potrebbero passare in secondo piano. Io credo che di WikiLeaks sentiremo ancora parlare, a ogni modo. Julian ha ripetutamente annunciato di essere in possesso di documenti scottanti «in grado di far crollare una banca», e pare si tratti di Bank of America. E poi c'è quel file da 1,4 gigabyte, insurance.aes, di cui nessuno conosce il contenuto. Chissà.