In queste ore si sta facendo un gran parlare del suicidio della giovane Tiziana Cantone, finita nelle cronache dello scorso anno per la diffusione di un video pornografico che la vedeva protagonista, e che era diventato cult per le frasi che la giovane pronunciava nella clip.
L'attenzione suscitata dal breve video aveva reso celebre la ragazza, che era ovviamente finita per diventare il centro di discussioni in gruppi, pagine e spazi digitali e simili - di cui ovviamente molti votati all'insulto e alla presa in giro - e che aveva così subito il ritorno di una fama non richiesta, ma lesiva per il suo equilibrio, tanto che le era stato accordato quest'anno il cambio di nome da parte dell'autorità giudiziaria di Napoli: processo per altro svolto con criterio di urgenza, proprio perché certificato il grave stato di salute della vittima.
Nonostante in queste ore il dibattito sia montato, alcuni hanno proposto una teoria, secondo la quale Tiziana Cantone non sia stata una "vittima" in senso stretto, in quanto sarebbe stata lei stessa - secondo alcune voci - a condividere attraverso dei sistemi di messaggistica istantanea la clip incriminata.
Questa è la cronaca: ciò che resta di questa storia, oltre al dramma di una vita che si chiude in circostanze tragiche, è però un lascito che può servire per comprendere l'esistente, e orientare il domani.
La Viralità, nel genoma
Tutti gli utenti che hanno uno o più account attivi su un canale social sono potenzialmente un hub informativo: ognuno può immettere o veicolare informazioni più o meno veritiere, alimentando così un flusso che può essere di conoscenza, o di disinformazione. Il gesto della condivisione digitale, supportata da device sempre più performanti e veloci, ha di fatto reso endemica nell'essere umano la capacità di comunicare e influenzare i propri simili, trasformandolo in un media a tutti gli effetti.
Ognuno di noi, infatti, è in grado di trasmettere un'informazione, veicolandone il senso con una, seppur parziale, trasfigurazione: dico ciò che vedo, e lo dico a modo mio, comunicando quindi indirettamente se l'informazione che dò sia ammissibile a livello sociale, oppure no.
Non è importante la risorsa: studi ormai ampiamente confermati hanno più volte sottolineato come l'utente medio di un canale social media condivida ma non legga ciò che propone: uno di questi, effettuato dalla Columbia University insieme al French National Institute , e riportata dal Chicago Tribune, indica questa percentuale nel 59% dei link condivisi.
Science Post ha nel giugno scorso fatto in questo senso un test: ha proposto un articolo dal titolo "Study: 70% of Facebook users only read the headline of science stories before commenting", scritto però in pagina interamente con testo Lorem Ipsum (link originale qui): ebbene, circa il 70% lo hanno condiviso convintamente, senza esitazioni, quasi parlando di un serio studio accademico.
Questo perché avviene? Forse è lì il segreto del meccanismo che ha portato (e chissà quante altre volte porterà) a leggere fatti di cronaca come quello di Tiziana Cantone.
La condivisione come arma di distruzione di massa
Condividiamo il più delle volte non tanto per il contenuto che leggiamo e che vogliamo "condividere" in senso stretto con gli amici della nostra rete sociale, quanto per affermarci con status che quel contenuto garantisce.
Parliamo di politica? Lo facciamo a volte sentendoci obbligati a esprimere il pensiero mainstream, pena l'esclusione (o peggio, il pubblico ludibrio) dalla sfera sociale stessa. Come novelli radical chic (che la Treccani definisce: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali») tendiamo ad accorpare le nostre opinioni a un pensiero unico e dominante, di fatto assumendo quest'atteggiamento nelle espressioni, nei comportamenti, nei giudizi.
Attenzione: non parliamo di mode. Parliamo proprio di una trasformazione nel modo di essere, che sempre più è influenzato e influenzabile. Sostanzialmente, il rischio che ogni utente dei social media corre è quello di perdere autonomia, credendo di essere libero di esprimere la propria opinione.
Questo cosa comporta? Il non rendersi conto che veicolando informazioni si può nuovere gravemente alle persone intorno a noi.
Un esempio? La ragazza violentata nei bagni di una discoteca, a soli 17 anni, e filmata dalle "amiche" (perdonateci le virgolette), le quali hanno poi condiviso su WhatsApp il video. Fortunatamente, gli inquirenti sono riusciti a fermare la diffusione del filmato, cosa che non è sfortunatamente accaduta in un caso simile, capitato qualche mese fa a Torino.
Non è un caso che protagoniste del fatto siano delle giovani ragazze, inesperte probabilmente ma anche nel pieno dell'adolescenza, periodo in cui il desiderio di affermazione e accettazione è superiore a qualsiasi altra pulsione: il corpo viene usato per scopi sessuali, ritratto, per certi versi umiliato, e infine sfruttato da terzi per rendersi agli occhi degli altri giudici e carnefici.
La condivisione facilita questa meccanica, senza che gli stessi protagonisti dei contenuti si rendano conto delle conseguenze: il "qui" e "ora" dei social media non ha un occhio rivolto al domani, si misura in like e in commenti, e non chiede conto di ciò che potrebbe accadere. Per questo a essere vittime di comportamenti che conducono anche alla morte, sono spesso i più giovani, che spesso non si rendono conto di cosa possa capitare a "diventare media".
Tiziana Cantone è stata vittima inconsapevole di questo meccanismo? Chissà.
Se veramente è stata lei stessa a condividere il suo video, non ha considerato che il comune senso del limite, misto alla smania di apparire e un mai domo maschilismo che svilisce ancora il corpo della donna, avrebbe scatenato di fatto una tempesta sulla sua testa. Un errore di calcolo, nel caso, per una donna che, posta la legittimità delle sue preferenze sessuali, aveva il diritto di non pagare per uno sbaglio come poi, effettivamente, è capitato.
Il suo caso è però sintomatico: oggi in molti, condividendo contenuti che ne richiamavano l comportamenti, hanno contribuito a minarne la serenità, senza che questo abbia minimamente scalfito la spinta giudicante e sarcastica. In questi mesi, a tutti gli utenti dei social network è capitato di leggere da qualche parte "Bravoh", così come in moltissimi hanno visto il video: nessuno, però, si è fermato a chiedersi che cosa stesse capitando a quella donna.
A confermarlo non c'è un'ammissione: basta Google Trends, e leggere le parole cercate. Un trend che, superato il picco iniziale, ha visto un generale ridimensionamento ma che è rimasto comunque costante. Indicativo di quanto fosse stata sdoganata la storia e le espressioni che di essa facevano parte.
"Condividere", quindi, può diventare un'arma? Sì, se mentre lo facciamo non capiamo che quel gesto equivale a piantare un seme. Che porti frutto, o zizzania, questo dipende da ciò che condividiamo, ma visto la qualità di ciò che si legge online, purtroppo, quasi sempre stiamo parlando della seconda (ne è un esempio l'uomo che ha recentemente messo in vendita su Ebay la propria moglie..).
Secondo questa lettura, possiamo provocare: se condividiamo le cose sbagliate (si pensi alle diatribe sui vaccini) si rischia di minare le sicurezze altrui, creando non pochi problemi, facendo male alla massa di utenti che ci circonda.
Prendere coscienza del ruolo di ognuno
Quindi, come fare? Educarsi, certo, ma come?
Prendendo coscienza che quello che chiamiamo cyberbullismo, o con altre definizioni più o meno sofisticate, è parte di un sistema di pensiero articolato, ma fragile.
Selvaggia Lucarelli ha recentemente pubblicato questo post:
La storia di Louise, terribile tanto quanto quella di Tiziana Cantone e raccontata dal punto di vista asettico delle parole, rende meglio di qualsiasi spiegazione. Mostrare ciò che ha provato la ragazza, non descrivendone gli effetti, ma semplicemente mostrando gli strumenti che hanno causato il dolore: strumenti che sono digitali, e che avrebbero dovuto unire, e non dividere.
Una scelta coraggiosa, quella del padre di Louise, che pone al centro il ruolo di ogni utente come hub, che può alimentare o arrestare un flusso potenzialmente dannoso di informazioni e contenuti: in un ecosistema digitale dove il messaggio viene sempre più reso veloce ed etereo (si pensi a Snapchat e alla sua forma volutamente leggera e immediata), una trasformazione essenziale, e oggi indispensabile.
Basta mostrare la pochezza di tali comportamenti, per avere subito un risultto concreto: il non voler esser accumunati ad essi.
Solo con una corretta presa di coscienza verso gli strumenti digital (e in questo un grande lavoro lo sta compiendo la Polizia di Stato con la sua pagina Una vita da Social) sarà possibile trasformare i social media.
Un tentativo da compiere e che tutti gli operatori del digital dovrebbero sentire come propria responsabilità: perché utenti più consapevoli sui social media sono potenzialmente anche cittadini migliori.