La perdita di una persona amata, come la morte di un caro, sono eventi funesti che, purtroppo, possono entrare a far parte della vita di ognuno di noi.
Il noto modello delle cinque fasi dell’elaborazione del lutto elaborato nel 1970 da Elisabeth Kubler Ross prevede cinque momenti che possono alternarsi, cambiare di intensità e ritornare nel corso del tempo, magari anche sovrapponendosi: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione si susseguono senza soluzione di continuità, nel lungo e doloroso cammino che permette di superare le perdite.
Quello nel lutto è un viaggio profondamente intimo e personale, che al giorno d’oggi non può che misurarsi con quell’infinito serbatoio di ricordi e momenti di vita che sono i social network. Non solo: luoghi di interazione come Facebook e Twitter diventano anche spazi di “condivisione del dolore”, inteso come ambienti in cui si può vivere il lutto insieme ad altri parenti e amici, o vedere altri provare le proprie stesse emozioni.
Non è un’esagerazione. Secondo alcuni studiosi, Facebook nel 2098 potrebbe diventare il più grande cimitero del mondo, con milioni di utenti oggi presenti passati a miglior vita. Una distesa di account di persone che furono ma oggi non più. Identità digitali che non spariscono facilmente.
Le policy e l’etica di Facebook in caso di morte
Non esiste infatti una maniera univoca con cui Facebook tratta gli account di utenti deceduti. Alcuni di questi possono diventare dei “Memorialized Account”. Sono caratterizzati da un suffisso apposito accanto al nome del defunto e, a seconda della privacy preesistente, è possibile per altri postare o meno contenuti sulla suddetta bacheca.
Non compaiono tra i suggerimenti di amicizie o tra i compleanni dei contatti e non possono subire cambiamenti se non esiste un Legacy Contact predestinato, ma si può chiedere, quando si è ancora in vita, di far cancellare il proprio account in caso di morte per non trasformarlo in un “Memorialized”. Si aprono così due domande. La prima, più semplice, è cosa sia un Legacy Contact. Con questo nome si intende un utente Facebook al quale si intende, in via preventiva, di affidare il proprio account in caso di morte.
L’utente in questione ha la possibilità di inserire un post “pinnato”, una sorta di ultimo saluto, modificare foto profilo e immagine di copertina o gestire le richieste di amicizia sul profilo dell’amico deceduto.
L’interrogativo etico che si accompagna a questo particolarissimo lascito testamentario, che dovrebbe indurci a riflettere non solo su quanto le identità digitali siano sempre più importanti ma di come queste rimangono dopo la scomparsa del possessore, si accompagna alla seconda delle due domande di cui sopra.
Come fa Facebook a capire che un suo utente non è più in vita? Esiste un apposito form in cui fare la segnalazione; c’è pure quello per richiedere la cancellazione di un account “Memorialized”, con Facebook che però esige elementi per verificare l’effettiva parentela e prossimità del richiedente. Premure necessarie, che possono apparire fredda burocrazia (come la richiesta di un certificato di morte nel primo caso), ma che appaiono necessarie in un Internet sempre più pieno di potenziali teste bacate che si divertirebbero segnalando finte dipartite. Un processo di verifica che è comunque non breve, che può durare anche sei mesi.
Luoghi virtuali, dolori reali
Mesi, settimane, giorni in cui quella persona può sembrare ancora viva, nonostante non lo sia più. E anche quando l’account è “Memorialized” si finisce, sovente, per dare un’occhiata al profilo del caro deceduto. C’è chi, subito dopo l’evento tragico, trova ad esempio conforto postando sulla bacheca dello scomparso o manda messaggi via Messenger.
Per altri invece la NewsFeed può essere un luogo di dolore, magari portando a conoscenza proprio il nefasto accadimento a chi ne era ignaro. O per rivivere ricordi al tempo stesso dolci e amari, scorrendo tra gli album fotografici dello scomparso. Non mancano poi casi molto tristi, come chi scorre i messagi privati o i post in bacheca di chi non ce l’ha fatta più e si è tolto la vita, cercando qualcosa che poteva essere intuito e forse evitato l’accaduto.
Speranze fondate o vane, poco conta. Quel che fa riflettere è come, ancora una volta, Facebook e i social network sono luoghi dove si vivono e riflettono sensazioni ed esperienze realissime, nonostante qualcuno ancora si ostini a distinguere digitale e “real live” come se fossero compartimenti stagni.
Riprendendo la solita metafora della piazza virtuale, Facebook può essere luogo dove ritrovarsi con amici e ricordare un congiunto comune scomparso o, invece, luogo per distrarsi da una perdita dolorosa. O ancora, è persino possibile evitare l’argomento, nascondendo dalla timeline il profilo del deceduto o, in extremis, sospendendo il proprio account. Ma certamente Facebook è anche un luogo di memorie, dove le nostre azioni, anche le più effimere, possono diventare epitaffio di una lapide virtuale che, però, scatena sensazioni realissime.
Elaborazione solitaria o partecipata?
Perché, come dice la dottoressa Sheri Jacobson sulle pagine di Mashable, vivere il lutto online può portare a conflitti interiori piuttosto forti che, se non approcciati correttamente, possono potenzialmente rallentare quel processo che conduce al cosiddetto “andare avanti”. Essendo un cammino decisamente personale, infatti, il vedere come gli altri invece vivono la nostra stessa scomparsa può provocare rabbia, frustrazione o una generale irritazione. Perché, come ben sapete anche voi Ninja, Facebook può dare fiato anche a trombe sgradite o sgradevoli, come per esempio persone marginali alla vita del compianto che cercano una buona occasione per mostrarsi con vanesia.
In quei casi, la soluzione migliore potrebbe essere quella di allontanarsi un po’ da Facebook e social network. Quello del lutto, come già ripetuto, è un cammino molto personale e, se incrociare quello altrui provoca ancor più dolore, è meglio ritirarsi per qualche giorno e cucire le proprie ferite in solitudine.
Le tecnologie digitali infatti, riportando un pensiero del sociologo James Baudillard, possono costringerci a ricordarci i morti, anche se non lo vogliamo, al punto di diventare una presenza ossessiva. Non c’è nulla di male nel voler sfogliare l’album dei ricordi di Facebook per rivivere un vecchio avvenimento ma, al solito, la virtù sta sempre nel non diventare schiavi di qualcosa che non riusciamo più a controllare. E non c’è niente di più pericoloso che essere dipendenti dal dolore e dal lutto, magari senza rendersene conto. Non lo vorrebbe nessuno, nemmeno, probabilmente, i nostri cari che non ci sono più.