...Nell'intero edificio vi erano migliaia, anzi decine di migliaia di feritoie simili [...]. Per chissà quale motivo le avevano soprannominate "buchi della memoria". Quando qualcuno sapeva che un certo documento doveva essere distrutto, [...] automaticamente sollevava il coperchio del buco della memoria più vicino e ve lo lasciava cadere dentro, dove un vortice di aria calda l'avrebbe trasportato fin nelle enormi fornaci nascoste da qualche parte nei recessi del fabbricato.
George Orwell, 1984
Il revisionismo storico è un po' come gli avanzamenti tecnologici e le scoperte scientifiche: non devono far paura, bisogna prestare coscienza e attenzione ad usarli. Se, da un lato, la storia può modificare alcune prospettive grazie a nuovi elementi, dall'altro c'è solo una linea sottile - quasi impalpabile - che la separa dal negazionismo e dalla costruzione propagandistica.
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Così il revisionismo storico colpisce anche i brand
Dopo i tragici accadimenti di Charlottesville, quando in agosto una macchina si è lanciata contro una folla di manifestanti antirazzisti scesi in piazza per contrastare una protesta dei suprematisti bianchi, la questione del revisionismo storico è tornata prepotentemente in auge: negli U.S.A. c'è chi vuole che ogni "simbolo del passato razzista del Paese" venga rimosso, ogni statua, targa o effige dei soldati confederati sudisti, chi invece promulga l'ortodossia della storia e i predicatori dell'estrema destra che si fregiano proprio di quel passato.
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Ma quello del revisionismo storico non è un fenomeno nuovo: sono diversi i casi i cui i cambiamenti radicali della società hanno spinto intere popolazioni a seppellire un passato scomodo, spesso atroce e sanguinario, con l'intenzione di dimenticarlo.
Potere dello storytelling
Ma è davvero l'oblio l'unica soluzione? Nel suo "piccolo" mondo anche la pubblicità è colpevole di aprire solo minuscole finestre sulla storia di un brand, storytelling che mutano in base ai desideri dell'audience presentando solo alcuni aspetti della marca, in un modo che una volta si sarebbe potuto definire come "strategia per colpire il target".
Ma nell'epoca dei social, dei brand "umani" o "umanizzati", è necessario trattare ed esaminare i marchi proprio come le persone: raramente ci sono persone completamente buone e altre completamente cattive.
Tesco, Lidl, Burger King, Findus sono solo quelli dell'Horse Gate del 2013? E il nuovo profumo o la nuova collezione firmata Hugo Boss sono meno apprezzabili sapendo che il fondatore, Hugo Ferdinand Boss, non solo appoggiò il partito nazista ma riuscì a risollevare la sua impresa vestendo le camicie brune del Reich?
E i brand in che modo potrebbero riconoscere i lati bui della loro storia senza esserne ostaggi?
La scomoda verità sulla griffe tedesca è emersa solo qualche anno fa grazie al libro Hugo Boss, 1924-45, scritto dallo storico Roman Koester e commissionato dalla stessa casa di moda.
Viva la trasparenza
In un'epoca che aspira alla completa autenticità, alla condivisione, al dialogo diretto tra i brand e i consumatori, che non sono più target ma prosumer, riconoscere, metabolizzare e affrontare ogni parte della propria storia non è più trascurabile. I brand (e i pubblicitari) che ormai da qualche anno ci ubriacano con la parola storytelling, dovrebbero cercare di aggiungere la loro storia al discorso culturale, non di toglierla.
Alla fine del Raj Britannico, l'impero anglo-indiano, i nuovi governanti non distrussero le statue dei vecchi padroni coloniali, le rimossero e le collocarono in un parco, dove è ancora possibile visitarle, sapere dove e perché furono erette e perché rimosse.
L'autenticità del brand di fronte al nuovo consumatore
Con i numerosi rilanci e riscritture non sorprende che la narrazione di marca venga via via diluita, un problema che si aggrava con i tempi dei media digitali, e la tendenza a espellere tutte le campagne precedenti dall'archivio della marca (da YouTube, ad esempio). Con l'avvicendarsi dei Chief Marketing Officer, non è raro che le agenzie incontrino clienti senza una vera conoscenza storica dei brand per i quali lavorano, con il risultato che le campagne risultano sempre meno veritiere agli occhi dei (famosi) consumatori.
L'autenticità richiede la comprensione delle origini, del percorso e della direzione che sta seguendo il brand. A meno che i marketer non si sentano a disagio nei nuovi contesti culturali, rischiando di ripetere errori già commessi.
Sbagliare si può, ammetterlo è meglio
Consideriamo i brand con gli stessi standard che utilizziamo con le persone, lasciamo che riconoscano i propri errori e se ne assumano la responsabilità, non che optino per l'insabbiamento. Le marche più di successo hanno già capito che la brand loyalty e l'amore dei consumatori non nasce dalla loro infallibilità ma dalla loro volontà di migliorarsi.
Dopo l'Horse Gate, il gruppo di distribuzione Tesco ha prima rilasciato delle scuse pubbliche, poi ha riconquistato i consumatori affrontando il tema della trasparenza nella supply chain e dell'approvvigionamento sostenibile.
Allo stesso modo McDonald's, dopo i vari scandali che hanno colpito il brand, ad oggi può vantare i più rigorosi standard alimentari del settore.
La crisi dell'olio di palma di Nutella
Ma un esempio da manuale di crisis management arriva dall'italianissima Nutella. Ricorderai sicuramente lo scandalo dell'olio di palma: chi denunciava diritti umani calpestati, chi gridava al cancro, chi accusava i produttori di deforestazione. Alcune accuse assolutamente verificabili, altre frutto della potenza degli j'accuse social. In tutto questo, la crema alle nocciole più famosa al mondo composta in gran parte proprio dall'ingrediente maledetto, sarebbe potuta perire sotto i colpi dei servizi, degli speciali, e dell'indignazione.
Ma non è stato così. Nutella ha risposto con una campagna concentrata sulla qualità del suo olio di palma, risollevando la percezione del brand e dando una lezione di comunicazione (e anche un po' d'orgoglio).
L'ultimo epic fail di Dove
Solo un paio di giorni fa abbiamo invece assistito allo scivolone social di Dove che, in una campagna studiata per Facebook di un suo bagnoschiuma, ha mostrato solo l'immagine - un frame di un video evidentemente più esteso - in cui una ragazza nera togliendosi la sua maglietta scura si trasforma in una ragazza bianca. Il web si è scatenato e Dove è corsa ai ripari, come? Con un tweet. "Un’immagine da noi postata di recente su Facebook ha fallito il suo obiettivo, non rappresentando nel modo più corretto le donne nere. Siamo profondamente rammaricati per l’offesa che può aver causato", hanno scritto dall'account ufficiale.
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Ma il web è quell'organismo strano, che in un attimo regala notorietà infinita o virtuale crocifissione, in cui tutto nasce, cresce e muore nell'arco di poche ore. È anche vero però che la sua memoria è infinita e non ha titubato un attimo a ricordare altri epic fail del brand Unilever considerati razzisti nella sua comunicazione, come questo.
Sarebbe stato lo stesso se Dove avesse fatto tesoro e ricordato la sua storia, anche nei particolari meno gloriosi?
L'importanza della storia di marca
George Orwell, tramite il suo impiegato al Ministero della Verità Winston Smith, postulava che:
Colui che controlla il presente, controlla il passato. Colui che controlla il passato controlla il futuro.
I brand dovrebbero capire che l'autenticità è la somma di successi e fallimenti, o di azioni suscettibili di interpretazioni errate estrapolate dal contesto. Ma la storia di una marca non deve far paura bensì essere elaborata e presentata in tutte le sue sfaccettature: quelle del passato, del presente e del futuro.