I casi emersi di abusi e violenze sessuali nel mondo del cinema, da Weinstein a Brizzi, hanno portato a reazioni disparate, soprattutto se si considera il caso italiano. I social media sono uno specchio che abbiamo a disposizione per monitorare queste reazioni.
Tenendo in considerazione che l’opinione espressa sui social risente di alcuni fattori come l’immediatezza, ossia la risposta a caldo, senza filtro; la mancanza di un interlocutore diretto, e quindi non un contraddittorio immediato, ma successivo alla pubblicazione del pensiero; la forma scritta, che talvolta non premia chi non la domina nel migliore dei modi. Settate queste criticità, però, resta il fatto che sui social si esprimono opinioni che poi restano e sono sotto gli occhi di tutti. Queste opinioni ci dicono molte cose di una società e non solo attraverso il contenuto, ma anche attraverso il linguaggio.
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Dire una cosa giusta con le parole sbagliate
Ecco perché iniziamo a parlare del fenomeno Weinstein partendo da Don Guidotti, il prete che su Facebook ha accusato una ragazza vittima di stupro di "essersela cercata". Un lungo commento, un rimprovero verso la vittima ma, specifica il parroco, un monito verso la comunità.
Il tono del commento che passa da "Ti ubriachi da far schifo! Ma perché?" a "dopo la cavolata di ubriacarti con chi ti allontani? Con un magrebino?" per arrivare a "a questo punto svegliarti semi-nuda è il minimo che ti possa accadere", non solo colpevolizza la vittima implicando che una violenza sessuale sia una decisione presa a due.
Questo caso ci interessa perché le parole espresse dal parroco online hanno avuto un forte impatto sia sulla comunità, che si è sentita in diritto (o in dovere?) di colpevolizzare la vittima, sia lontano dalla parrocchia bolognese, come tra i tweet di Salvini e le dichiarazioni di Giovanardi. Proprio quest'ultimo sottolinea un punto centrale, dicendo "avrà pure usato una frase infelice don Lorenzo Guidotti, della quale ha fatto bene a scusarsi, ma nella sostanza ha perfettamente ragione nel denunciare la cultura dello sballo". Esatto: le parole, sbagliate. E la loro accettazione in quanto il media utilizzato, ovvero il commento Facebook, ne autorizza in qualche modo la possibilità di essere ritrattate in quanto troppo spontanee. Ma al tredicesimo anno di vita del social network non ci si può più nascondere tra le piaghe dell'emotività. Le parole restano, almeno fino a che non si disattiva l'account, cosa che ha fatto Don Guidotti.
La mia totale solidarietà alla ragazza aggredita, la violenza non è MAI giustificabile, per il verme galera e castrazione chimica.
Ma quando il parroco invita a stare sempre attenti a quello che si fa e a chi si frequenta, non posso dargli torto. https://t.co/NTLH9shVRe— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) November 9, 2017
#MeToo
È il caso di dirlo: il mondo social anglosassone ha risposto in maniera rilevante al caso Weinstein. Uno tra tutti il #MeToo e tutte le sue evoluzioni. Nato da Alyssa Milano come un hashtag per condividere le esperienze di molestia di tutti e dare un'idea dell'entità della situazione attraverso gli status sui social media, #MeToo è subito diventato virale, portando con se "l'opportunità di togliere l'attenzione dal predatore e riportarla sulle vittime". Inoltre l'immediatezza del #MeToo non obbliga nessuno a condividere esperienze morbose, dettagliate, che magari non si è pronti a condividere, ma mette in rete tutte le vittime, dando loro forza mediatica, oltre che psicologica.
If you’ve been sexually harassed or assaulted write ‘me too’ as a reply to this tweet. pic.twitter.com/k2oeCiUf9n
— Alyssa Milano (@Alyssa_Milano) October 15, 2017
Certo non sono mancate le critiche al #MeToo, per alcuni considerato in qualche modo colpevolizzante. Ecco quindi che si è evoluto in #hetoo per porre l'accento sull'azione, nell'inquietante #itwasme per condividere violenze compiute, in #IWill per spingere gli uomini a fare meglio in futuro e infine nella campagna Unicef USA #Hertoo.
We have to protect children from violence, exploitation & abuse — and that means ensuring their safety online. Please tell your Senators to support #SESTA: https://t.co/ovPpnNBln1 #HerToo pic.twitter.com/tU5BQ8bP6E — UNICEF USA (@UNICEFUSA) November 12, 2017
Un dibattito sano, che gioca a spostare l'accento su fattori tutti importanti, su gradazioni del problema, ma che alzano una voce chiara e univoca che ammette l'esistenza di un problema e condanna la violenza. Ma in Italia i toni si fanno più violenti, le sfumature prendono pieghe non rilevanti. Vediamo dunque, cosa ci raccontano i nostri social.
Dal caso Asia Argento a Brizzi, gli effetti dello scandalo Weinstein in Italia
Il fatto che sia stata proprio Asia Argento a coperchiare il vaso di Pandora non ha reso le cose semplici al dibattito italano, ancora acerbo sul tema.
#AsiaArgento sei un insulto vivente a tutte le donne che sono state stuprate davvero @AsiaArgento #Weinstein pic.twitter.com/NjdeLwxIAs
— ART Villone (@arturovillone) November 9, 2017
Le accuse contro l'attrice sono cresciute di intensità in questo mese ma, provando ad analizzarle, si riconducono a semplicemente a poche premesse: il bisogno di rilanciare la carriera, il fastidio perché la denuncia si riferiva a un momento lontano nel tempo e l'argomentazione, sostenuta con vigore da esponenti come Rocco Siffredi, che così funziona. Tre argomentazioni molto facili da contrastare e che la stessa Alyssa Milano annulla nella premessa stessa del lancio del #MeToo. E perché invece in Italia questi commenti continuano e spesso prevalgono?
Per un serie di motivi, tutti legati alle parole.
Perché Dino Giarrusso, proprio all'interno del servizio delle Iene che dovrebbe dare forza alle vittime, aiutandole a sconfiggere un nemico comune, a prescindere dai particolari forti che mette chiaramente in evidenza per questioni di ascolto, fa domande come "E tu l’hai lasciato fare?" che, da sola riassume gran parte del problema.
Perché Neri Parenti può sentirsi libero di dire in radio quello che “una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film“: una neanche così velata minaccia, che nasce dall'impunità, ma si concretizza, di nuovo in una parola. Signorine. Stiamo parlando di donne, professioniste oltre che vittime di un reato, e quella parola "signorine" è peggio delle tante parole volgari utilizzare in altri casi.
Mentre in Francia si dibatte sulla possibilità di ri-modificare le regole grammaticali perché il linguaggio forma il nostro modo di pensare e, pertanto, se questo forma categorie mentali in cui il maschile prevale sul femminile, deve essere rivisto al fine di avere una società equilibrata, in Italia il dibattito pubblico stagna, le parole paiono non avere peso, mentre schiacciano non solo le vittime, ma tutta la società.
Quanto conta la narrazione
Al di là delle critiche nella conduzione dell'indagine giornalistica che segue un metodo impeccabile nel caso del New York Times e del New Yorker, mentre è chiaramente volta al sensazionalismo nel caso delle Iene, notiamo un pattern, cioè la necessità di avere un cattivo.
Quello che in molti commenti emerge come un fastidio espresso per l'accanimento verso una singola persona laddove tutta l'industria sembra essere marcia, è la risposta alla necessità di creare una narrazione che sia comprensibile. Dare un volto al nemico, lo rende facilmente identificabile, ma al contempo semplifica un fenomeno complesso, legandolo alla biografia del personaggio in questione.
Che il corriere si preoccupi del dimagrimento e della vita famigliare di Brizzi non stupisce, così come non stupisce che una parte di pubblico si senta in diritto di difenderlo. Il passo successivo però sta nel capire che ci si può preoccupare per la salute di questo personaggio e al contempo essere rigidi e fermi nel condannare e, soprattutto, nel perseguire questi comportamenti in modo trasversale nella società. Ancora, sono le parole che portano il discorso in una direzione anziché in un'altra.
E da persone che lavorano nell'ambito della comunicazione, dei media o che semplicemente sono attive sui social, ricordiamoci, che le parole sono davvero importanti.