Marco Camisani Calzolari, docente di Comunicazione Aziendale e Linguaggi Digitali allo IULM, dopo le recenti anticipazioni in radio ha pubblicato venerdì una ricerca scientifica sui followers delle grandi aziende italiane su Twitter. Scopo della ricerca era di stabilire quanti fossero, in percentuale, i followers “fasulli”, cioè non umani, ma generati da sistemi automatici (bot).
La stampa nazionale ha riportato la cosa ponendo l’enfasi sulle cifre: alcune delle aziende analizzate avrebbero percentuali vicine al 45% di followers fasulli. Si è parlato subito di cifre non realistiche, dovute, secondo alcuni, a errori metodologici. Critiche alle quali Camisani Calzolari replica serenamente: “La mia ricerca è seria e ben argomentata, ma lungi da me il definirla non perfettibile. I criteri di distinzione tra umano e bot, ad esempio, sono arbitrari, ma molto conservativi".
Cifre a parte, comunque, la conclusione più immediata – che, ricordiamo doverosamente, è del tutto assente dalla ricerca - è che le aziende, o chi lavora per esse, comprano grandi numeri di followers non reali.
Ma è davvero possibile acquistare dei followers (o dei fan di Facebook) alla stregua di merce? Il fenomeno è da tempo noto agli esperti di comunicazione web (vi rimando a questo bel post di Katia D’Orta che analizza il fenomeno). Racconta la blogger Caterina Policaro: “basta fare una ricerca su Google "acquistare follower" e si apre un mondo. La pratica è in uso. A volte alcuni account hanno dei picchi inaspettati di crescita in pochi giorni. Camisani Calzolari ha solo avuto il coraggio di scoperchiare questa pentola della compravendita di follower. La sua ricerca andrebbe verificata su campioni più ampi”.
Il clamore suscitato tra il grande pubblico da queste cifre, e dalle loro possibili implicazioni, è comprensibile. L’idea che le aziende possano acquistare followers appare come una truffa nei confronti dei loro fan “reali”.
Ma cerchiamo di fare chiarezza. Innanzitutto, non è detto che un follower fasullo sia un follower acquistato. Molti di questi robot -o bot- seguono autonomamente, a scopi di marketing, profili ritenuti interessanti. Forse anche voi avete dei followers robotici e non lo sapete. “Il fenomeno dei bot su Twitter è diffuso da tempo” continua Caterina Policaro. “I bot hanno diverse funzioni e svolgono diverse operazioni, a volte collegati a qualche applicazione a cui fanno capo. Profili finti da una parte, profili pagati per fare qualcosa dall'altra.” E’ quindi ragionevole dire che anche le aziende con molti followers “naturali” abbiano attirato inconsapevolmente dei bot. E, in effetti, questa è stata la linea “difensiva” di alcune delle aziende nominate nella ricerca di Camisani Calzolari.
Non ci interessa qui fare il processo alla buona fede delle aziende, anche se percentuali di followers artificiali così alte dovrebbero, come minimo, metterle in guardia: “E’ proprio quello che mi auguro”, commenta Camisani Calzolari, “purtroppo questo è ciò che succede quando si delega la gestione dei propri profili sociali a impostori e falsi professionisti del web”. Né servirà in questa sede ricordare la totale inutilità di avere seguaci robotici, perché ovviamente, a parte far numero, sono inattivi e non costruiscono alcun dialogo.
Vogliamo piuttosto ragionare sulle radici del fenomeno e capire cosa spinge le aziende (ma anche le agenzie, e i personaggi famosi, vedi questo articolo di Antonio Lupetti) a tentare di far crescere, seppure così grossolanamente, i propri numeri sul web. A munirsi, insomma, di un’audience a pagamento.
Cominciamo col dire che il primo errore è ragionare sui social in termini di “audience”. Lo scopo delle piattaforme sociali è creare rapporti paritari e proficui tra le persone. O tra persone e aziende, umanizzando così queste ultime. Quindi, la prima cosa da fare quando si decide di avere un profilo sociale è quella di mettersi al livello degli altri. Questo implica una rinuncia totale al concetto di audience passiva, e una volontà forte di mettersi in gioco.
Guardiamo tuttavia la cosa dall’esterno, cioè dal punto di vista di una persona, un utente medio, che decide di diventare o meno fan della nostra pagina Facebook. E’ innegabile che la presenza di molti altri fan sia uno dei primi elementi che condizionano la nostra scelta. Analogamente, su Twitter, tutti siamo influenzati dal rapporto following/followers. Chi seguirebbe un profilo con 1000 following e 3 followers? I numeri sono importanti. Negarlo è sbagliato. Ma bisogna andare oltre al numero. Il punto è che diventare fan di una pagina, o seguire qualcuno su Twitter, è solo il primo passo.
Avere un fan o un follower non significa averlo conquistato per sempre. Né ci si puo’ aspettare che quel fan o followers sia un potenziale acquirente. Cio’ che ancora sembra sfuggire alle aziende è l’importanza dell’interazione, dell’engagement e il valore aggiunto che questo puo’ portare al loro brand, in termini di percezione, posizionamento e reputazione.
D’altro canto i social stessi, in particolare Facebook e Twitter, sono strutturati in modo da dare risalto alle cifre. Gira da tempo su Twitter una battuta: “Se il numero di followers non fosse tanto in bella vista, Twitter sarebbe un posto migliore”. Forse è il caso di capire se Twitter e Facebook non pongano troppa enfasi sulle quantità e, se sì, come potrebbero correggere il tiro. Sarebbe interessante, ad esempio, se gli indicatori dell’engagement (come il Page Engagement Index di Facebook) occupassero una posizione di evidenza sul profilo. Un utente, aprendo un profilo di Twitter, potrebbe così scegliere di seguire un’azienda con pochi followers, ma molto interattiva, e di non seguirne una con moltissimi followers ma praticamente inattiva.
Vincenzo Cosenza, autore del prezioso manuale “Social Media ROI” (qui trovate la sua intervista ai Ninja), è però poco ottimista al riguardo: “è normale che le piattaforme spingano ad utilizzare metriche che possono essere "pompate" dall'acquisto di pubblicità: vivono sulla vendita di pubblicità, quindi non mi aspetto grandi cambiamenti in futuro. Spero invece che cambi la sensibilità dei manager aziendali verso metriche che evidenzino aspetti qualitativi e dinamici del rapporto”.
Come uscire dall’empasse? In un mondo ideale, sarebbe un bellissimo segnale se qualche azienda ammettesse, pubblicamente, di avere gestito la propria crescita sui social media con troppa disinvoltura. Sarebbe un gesto apprezzabile e molto coraggioso, perchè dimostrerebbe la volontà di essere disponibile alle critiche, ai confronti e alla crescita comune: in una parola, a essere social.