Il mondo del Digital Advertising ti affascina, confessa. Leggi continuamente articoli su AdAge. Hai tra le pagine preferite quella del sito dello IAB e su Linkedin tieni d’occhio ogni giorno gli annunci di lavoro delle più prestigiose agenzie di comunicazione. Vuoi davvero intraprendere una carriera in questo settore? Mettiti alla prova e stupiscimi.
Se di queste 12 buzzword conosci il significato di sole 3 parole, andiamo maluccio, ma confido nella tua buona volontà di apprenderle tutte. Se di queste ne hai già sentite almeno 8, sei bravino, ma devi applicarti. Se le sai tutte, dico, proprio tutte, chapeau, sei un mago!
Un articolo apparso su Business Insider ci spiega quali sono i termini più in voga del settore, per stare in campana e farsi capire dagli addetti ai lavori.
Native Advertising
Spesso viene utilizzata in maniera impropria, eppure native advertising ha un significato ben preciso. Se vogliamo essere pignoli, un native ad è un contenuto editoriale a pagamento, il cui contesto creato ad hoc serve da pretesto (gioco di parole voluto) per promuovere un brand, all'interno di un paid media. E' esattamente quello che fa Buzzfeed per sponsorizzare Dunkin' Donuts per intenderci. La proprietà e l'uso di una native ad restano nelle mani di chi ha investito in questa forma pubblicitaria, che si integra col contenuto della piattaforma "ospitante".
Una curiosità. Il polverone sollevato da un articolo di Erik Wemple apparso il 20 Novembre 2013, sul Washington Post in cui si accusava il collega Mike Allen, (giornalista del Politico), di ricorrere palesemente al native advertising all'interno della sua newsletter, ha reso celebre questa nuova forma di fare pubblicità e ha gettato le basi per il dibattito di natura etica sulla questione contenuti editoriali che fanno informazione versus contenuti editoriali che fanno promozione, minando quindi l'autorevolezza delle testate giornalistiche.
Da non confondere con: sponsered content. Un annuncio sponsorizzato nel tuo newsfeed su FB non è native advertising, perché manca quella precisione, caratteristica del native advertising, sia a livello di contestualizzazione dei contenuti che di targetizzazione del messaggio, come ci fa notare nativeadvertising.it, di IAB Italia. Di diverso avviso invece è Aaron Taube di Business Insider, secondo il quale il native advertising si manifesta in tutte le forme, per cui anche un #hashtag sponsorizzato che compare nei tuoi trend topic è da considerarsi tale.
Creative
E' la parola passe-partout che ti permette di avere accesso alle stanze segrete del Digital Advertising, ma va usata rigorosamente in inglese. Guai a mandare un cv in giro e menzionare la parola 'creativo'. Guai a spacciarti per 'creativo', non verresti preso sul serio. Senti come suona bene 'Junior Creative Art Director'. Ora che hai modificato la dicitura, sappi che questo è un cliché che va usato con parsimonia. Molta parsimonia. Se sei un creative, non hai bisogno di dirlo. Si deve percepire.
Media Agnostic
Un anglosassone lo pronuncerebbe così: miiidia ag-nostic. E anche un italiano dovrebbe farlo. Se qualcuno si è rivolto a te, appellandoti in questa maniera, sappi che non ti ha fatto un complimento.
Essere media agnostic significa non avere ben chiaro dove veicolare un messaggio pubblicitario e quando non si ha la sensibilità per capire quale canale sfruttare, allora si rischia di lanciare uno spot un po' ovunque, senza distinguere perché sia più efficace sfruttare ad esempio YouTube, anziché il mezzo televisivo o la carta stampata o il più recente Snapchat.
Da non confondere con: Media Agnostic USB
Deep linking
Non è il nome di uno sport estremo e nemmeno di una pratica sadomaso. Chi sta facendo deep linking, sta inserendo un hyperlink (collegamento ipertestuale) all'interno di una pagina web di un sito, rinviando l’utente ad un sito diverso. Attenzione però. Nell'ambito del digital advertising, chi parla di deep linking si sta riferendo all’azione che permette di collegare gli utenti che navigano sul web a un luogo ben preciso all'interno di una app, ad esempio quella di un e-commerce.
Programmatic Buying
Oggi qualsiasi campagna pubblicitaria digital è automatizzata. Fine della poesia. Scordatevi il publisher (l’editore che offre i propri spazi sul web) che si presenta in carne ed ossa dall’advertiser (l’inserzionista) con la propria valigetta a discutere sull’inventory (inventario) da acquistare e sul prezzo da concordare.
Da ormai qualche tempo il Real Time Bidding, che consente la vendita all’asta degli spazi pubblicitari sul web a target altamente profilati, è la forma di programmatic buying più utilizzata. Se sei interessato al programmatic buying, ti ricordo che esiste anche il programmatic direct buying, modalità secondo cui gli advertiser acquistano un inventario di annunci ben definito ad un prezzo stabilito dal publisher.
Engagement
Quanto piace l’engagement, eh? Te ne sarai accorto che ormai non si fa altro che parlare dei modi per coinvolgere gli utenti a interagire coi brand sui social media e di come misurare i tassi di engagement. Ormai l’avrai capito anche tu che il numero dei like su una fanpage di Facebook non significa gran cosa. Per conquistare i potenziali consumatori, ci vuole ben altro, lasciamo perdere però i gattini.
Viewability
“L’avranno visto veramente i miei potenziali consumatori il nuovo e costosissimo spot che ho lanciato su Youtube?” Ecco, questa è la domanda che bisogna farsi quando ti parlano di viewability. Quasi la metà di tutto il display advertising non è posizionata dove gli utenti dovrebbero vederla. Può capitare ad esempio, che un banner sia collocato in basso, alla fine della pagina, dove solitamente chi naviga, non va mai. A meno che non sia particolarmente interessato alla sezione "Privacy" di un sito.
Big data
Dietro al concetto di big data sta una filosofia secondo la quale le azioni di marketing sono volte a raccogliere tutti i dati possibili sui consumatori. In realtà, chi utilizza questa espressione non sta facendo altro che tirare l’acqua al proprio mulino, incoraggiando gli scettici a spendere qualche soldo per quella tecnologia in grado di catturare qualsiasi tipo di movimento, abitudine, emozione, percezione di un utente. Da utilizzare con molta disinvoltura.
Click Fraud
Ti ricordi il concetto di viewability espresso poco fa? Ecco, il click fraud è il click fraudolento, quello messo in atto da alcuni software programmati per cliccare su un banner, per dare l’impressione che la campagna stia funzionando. Non sono solo le macchine però ad essere responsabili del click fraud, ma anche le persone vere, pagate apposta per fare click.
Rich Media
Il formato rich di un annuncio pubblicitario non si ferma ad un messaggio statico come quello di un banner, ma invita l’utente ad interagire, chiedendogli ad esempio di cliccare sul tasto play. Come deve essere quindi una pubblicità in formato rich? Immersiva, coinvolgente e a forte impatto. Facciamo un gioco e individua gli annunci in formato rich che trovi su Corriere della sera o su Repubblica.
Responsive Design
Un sito web dotato di un responsive design è un sito intelligente, perché capisce se l’utente sta leggendo un contenuto di una pagina web da un tablet o da uno smartphone, adattando le dimensioni e le caratteristiche della pagina a seconda del dispositivo usato. Non c’è trippa per gatti, il mobile è da due anni in forte crescita e il digital advertising non può rimanere indifferente a questa evoluzione.
The Internet of Things
E se un giorno il tuo frigorifero ti dicesse che hai terminato il latte, ma che potresti però acquistarlo in offerta proprio al supermercato dietro l’angolo di casa tua? Ecco che cos’è The Internet of Things. Pensavi si trattasse di un romanzo di Isaac Asimov e invece…
Allora, sei un vero Digital Advertising addicted?