L'articolo è scritto da Cosimo Accoto, Partner e VP Innovation; Lecturer in Digital Analytics e Big Data alla IE University (Madrid); Autore ('Social Mobile Marketing', Egea SDA Bocconi; 'La Digital Business Disruption', Harvard Business Review) e Researcher (BIT - UCLA, USI Università di Lugano).
La digital disruption che mercati e organizzazioni fronteggiano, oggi, rappresenta un fenomeno più radicale e più dirompente di quanto imprese e manager riescano, oggi, ad immaginare. Una miopia che deriva, a mio avviso, dal non aver compreso l’attacco eversivo - come l’ha etichettato di recente lo scrittore di fantascienza William Gibson - che le tecnologie emergenti stanno portando ai concetti tradizionali di spazio, tempo e soggetto, concetti che hanno guidato, finora, i modelli di business, di marketing e di creazione del valore delle imprese.
Le analisi comuni relative alla disruption tecnologica risultano, a mio parere, deboli e di superficie: si tratta, nella gran parte dei casi, di discorsi legati a paradigmi e modelli di pensiero (e quindi di strategia) ancora pre-disruption. Per beneficiare pienamente, invece, delle opportunità delle tecnologie emergenti è, invece, necessario scavare più a fondo l’impatto dell’eversione ontologica che si sta producendo sui modelli e le pratiche di business correnti. Vediamo come.
I vettori della business innovation: spazio, tempo, soggetto (Accoto 2016)
Sul rapporto tra spazio e codice
In molti considerano ancora la relazione tra spazialità e digitalità come una relazione distruttiva (il digitale annulla lo spazio, la distanza, la fisicità, la corporeità). Si tratta di una prospettiva obsoleta. In questi ultimi anni (e l’ultimo CES ne è un’ulteriore conferma), urbanisti informatici e geografi digitali stanno ripensando totalmente il rapporto tra spazio e codice software, oggi sempre più incorporato dentro ambienti, indossato grazie a device e accessori, messo in mobilità e socializzato attraverso le app, virtualizzato attraverso realtà aumentata e virtuale (vedi l’ultimo saggio di Dodge e Kitchin, Code/Space).
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La relazione tra spazio e codice è, invece, una relazione generativa e di modulazione. È rilevante, oggi, cominciare a parlare di transduzione dello spazio operata dalle tecnologie computazionali, in cloud e in mobilità: il codice software recepisce e riconfigura l’ambiente in cui si trova. Lo spazio e con esso la fisicità, la corporeità, la posizione geografica, il movimento sono infatti, da un lato input dei processi di calcolo (ad esempio, gli stati fisiologici o la posizione corporea avviano l’attività informazionale circa il contesto del consumatore) e al contempo, però, lo spazio viene esponenzialmente rimodellato dalla presenza di codice software (ad esempio, passare vicino ad uno store che manda un coupon contestuale sullo smartphone modifica la mia relazione e il mio comportamento rispetto allo store e da ultimo la natura di quello spazio). Le tecnologie digitali, di rete e in cloud sensorizzate danno vita ad una spazialità infinitamente modulabile e costantemente in divenire in cui è possibile creare servizi a valore aggiunto (“space is spacing” – come dicono i due geografi).
Parlare solo di “omnicanalità” o di “online/offline” è riduttivo e inefficace se non si comprende questa nuova relazione tra spazialità e digitalità.
Come il tempo incontra la digitalità
Anche il nostro tradizionale concetto di tempo è fortemente messo in questione dalle architetture digitali e di rete emergenti. Non si tratta, tuttavia, come si ritiene di solito, del tempo dei flussi nelle reti o di un tempo schiacciato o annullato sul presente (il “real-time”).
I filosofi digitali più avanzati parlano, invece, di operazionalità del tempo digitale che genera, costantemente, regimi e opportunità temporali nuove (vedi il saggio recente di Hansen, Feed-Forward). Il tempo digitale ha caratteri precipui: è sottopercepito, distribuito, incorporato e anticipato. Rappresenta la possibilità, quindi, di costruire servizi basati su temporalità distribuite e imbricate (incorporate) negli oggetti e negli ambienti oppure basati su temporalità sottopercepite dall’umano, ma che agiscono sul presente operazionale del consumatore. Per fare un esempio, le tecnologie in-memory, superando i limiti temporali tradizionali del processamento dei dati (la cpu accede direttamente ai dati senza i layer intermedi) sono in grado di creare nuovi servizi valorizzando le temporalità digitali che agiscono a livello di microsecondi.
Non è un caso che tra i trend emergenti nel service design ci sia proprio la progettazione di esperienze anticipatorie grazie alla potenza di calcolo delle macchine (di un IBM Watson o di un SAP Hana). Si può, anticipare, ad esempio, il comportamento dei consumatori potendo calcolare, congiuntamente e in frazioni millesime di secondo, abitudini d’acquisto, condizioni contestuali, proiezioni di preferenze con dynamic pricing come accade per Uber. Parlare di real-time del consumatore è banale e limitante, dunque, quando possiamo sviluppare servizi “feed-forward”, basati sul real-time delle macchine che sono in grado di processare informazione e servizi a livello di millisecondi.
Il soggetto (umano e non solo) in rete
Il terzo vettore della disruption tecnontologica è l’emergenza di soggettività (agenti nelle organizzazioni e nei mercati) che sono di natura o di dinamica algoritmica o distribuite dentro ecosistemi di attori molteplici e ambientali.
Designer di algoritmi progettano questi nuovi agenti/attori che emergono sia dalla codificazione dei soggetti umani in rete (le interazioni di consumatori, dipendenti e fornitori mediati da piattafome e applicazioni socializzate interne alle organizzazioni o esterne verso i mercati) sia dall’introduzione di algoritmi artificiali che hanno capacità di decisione e d’azione autonoma e autodiretta (su algoritmi, su comportamenti umani e sull’incrocio tra agenti umani, reti e algoritmi).
Il quantified self è un esempio di questa progressiva codificazione in rete della soggettività così come ne sono testimonianza le collettività collaborative emergenti attraverso le piattaforme di enterprise social collaboration (quantified organization). Ma nuovi “soggetti” sono anche gli algoritmi impiegati per le peer-recommendation o che i social media impiegano per creare social score e social ranking (per non parlare di social machine e robots). In questa prospettiva più ambientale, intelligenza collaborativa e intelligenza artificiale lavorano e si rinforzano congiuntamente per costruire nuove forme organizzative (come le organizzazioni esponenziali), nuovi mercati (l’on-demand service, l’api economy, il business dello sharing), nuovi modelli di generazione di valore (plug&play, dati, servizi), nuove forme di leadership e management (social leadership, self-management, trusted reputation). Per chi vuole addentrarsi in questi temi, consiglio 'Smart Technologies and the End(s) of Law' della Hildebrandt, un viaggio nelle nuove soggettività data-driven che animano organizzazioni e mercati.
La digital disruption oltre i big data
L’approccio tecnontologico che ho presentato ci consente anche di mettere in luce tutta la debolezza della definizione e dell’idea corrente di big data che semplifica in volume, velocità e varietà (le 3 V) gli elementi chiave della data revolution.
Dal mio punto di vista, invece, i big data non sono altro che un risultato, il più visibile ad oggi, dell’attacco che le tecnontologie portano alle categorie di spazio, tempo e soggetto.In questa prospettiva, la data revolution è il by-product di uno spazio sensorizzato ed esponenzialmente transdotto, di un tempo pervasivamente imbricato e anticipato e di un soggetto costantemente codificato, quantificato e distribuito.
I modelli operativi del digital business: valore, servizio, esperienza (Accoto 2016)
Queste tecnontologie, a partire dal ridisegno che operano di spazio, tempo e soggetto, stanno producendo trend trasformativi profondi che inevitabilmente impatteranno su forme organizzative e lavorative, modelli di business e di generazione del valore così come sulle strategie di marketing esperienziale, relazionale e di servizio.
Abbiamo bisogno di parole nuove
Se questa è la fase di innovazione e accelerazione che stiamo vivendo, è sempre più chiaro che dovremo cominciare a costruire anche un nuovo dizionario in grado di raccontare, con parole e concetti nuovi, le realtà disruptive che stanno emergendo.
Anticipo qui, in chiusura di questo pezzo, le prime quattro parole nuove, annunciando che avrò modo, nelle prossime puntate qui su Ninja Marketing, di dettagliarne il senso e gli usi potenziali: platfirm (le aziende come piattaforme), algorhythm (le vite algoritmiche/algoritmate), markething (il marketing dell’internet delle cose), leadershift (la leadership senza leader e boss). Ciascuna di queste rappresenterà il tentativo di raccontare il futuro a partire da una provocazione linguistica e concettuale, ma sempre con un occhio attento ai processi e alle pratiche di value innovation.