Nell’epoca della condivisione facile, della perenne connessione ed esposizione delle nostre vite sui social network pensiamo di essere gli unici detentori della nostra privacy e indirizzarla nella direzione delle nostre impostazioni, ma é davvero così?
Siamo abituati ad accettare condizioni sulla privacy che spesso non leggiamo pur di andare avanti nell'acquisto di un prodotto o di poter provare una nuova app che ci hanno consigliato. Il peso dei nostri dati personali, delle nostre preferenze da consumer, dei nostri velocissimi like ha un valore economico, anche se non ce ne rendiamo ancora conto.
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Ogni smartphone è un preziosissimo bottino di informazioni ed ogni scelta che facciamo nell’utilizzo delle applicazioni diventa un’automatica pubblicità di network marketing per cui non veniamo retribuiti. E se la situazione si capovolgesse?
"Data Dollar", pagare con una foto o una conversazione WhatsApp
L'azienda di sicurezza informatica Kaspersky, ad esempio, ha lanciato un’interessantissima sfida cercando di farci aprire gli occhi sulle nostre abitudini: il Data Dollar Store, un pop-up shop ideato e allestito lo scorso settembre, per soli due giorni, all'interno della stazione della metropolitana Old Street di Londra e mettendo in "vendita" merchandising dello street artist Ben Eine.
L’unico metodo di pagamento accettato all'interno dello store i dati personali, ovvero una foto, una conversazione su WhatsApp, un video di famiglia. Il Data Dollar, moneta inesistente e invenzione fittizia dei promotori.
I clienti sono rimasti sbalorditi e qualcuno ha inizialmente storto il naso, ma poi hanno tutti acconsentito.
Il supermercato che denuncia i dipendenti per la perdita di dati
In Inghilterra nel 2014, Andrew Skelton, contabile senior presso la sede centrale della catena di supermercati Morrisons ha pubblicato online ed inviato ad alcuni giornali i dati personali di quasi 10.000 dipendenti (documenti, informazioni circa le assicurazioni sanitarie, gli stipendi e i conti bancari) esponendoli a grossi rischi.
Il motivo? Ha affermato che serbava rancore nei confronti di un suo superiore che l’aveva rimproverato poiché faceva acquisti su Ebay durante l’orario di lavoro (ci scappa un sorriso e si riduce il suo ruolo senior in un lampo...).
Ne è scaturita una battaglia legale poiché i dipendenti hanno chiesto un risarcimento danni ma Morrisons nega ogni responsabilità per l’operato di Skelton che intanto è stato giudicato colpevole e condannato ad otto anni di carcere.
Jonathan Barnes, avvocato di 5.518 dipendenti (ex e attuali) di Morrisons, ha asserito che la società aveva già ricevuto un risarcimento danni di £ 170.000 contro Skelton. Avete letto bene: 170.000 mila sterline è stato il valore dei dati personali non autorizzati alla diffusione. Peccato che di questa cifra neanche una sterlina sia stata data ai dipendenti, reali vittime dell’accaduto che non hanno ricevuto alcun indennizzo per la loro sofferenza: la loro unica “colpa” è essersi fidati della società per cui lavorano fornendo i propri documenti e dati personali come avviene in tutte le aziende.
I dipendenti sostengono che la diffusione dei dati li abbia esposti al rischio di furto di identità e potenziali perdite finanziarie e Morrisons sia responsabile delle violazioni della legge sulla privacy, la fiducia e la protezione dei dati ma per il momento la causa è ancora in corso.
Il braccialetto spione
Ce l’hai anche tu il braccialetto che ti conta i passi, i km, le calorie che bruci, che è comodamente collegato al tuo telefono, che magari ti sa dire anche quante ore dormi e se hai riposato abbastanza? Bene, ma non benissimo.
Ad Edimburgo alcuni ricercatori hanno condotto uno studio sui braccialetti Fitbit e hanno scoperto che potrebbero essere delle facili porte d’accesso verso i nostri dati personali. Pare che la vulnerabilità di accesso dei dispositivi possa rappresentare una minaccia alla privacy e alla sicurezza dei dati registrati.
Durante uno studio approfondito sulla sicurezza i ricercatori sono riusciti a tracciare i messaggi trasmessi tra due utilizzatori di Fitbit e i loro server cloud, sembra incredibile ma è realtà.
Per ora Fitbit afferma che stanno cercando la soluzione per rafforzare la sicurezza dei dispositivi ma guarderai con occhi diversi il tuo braccialetto (o già non lo indossi più?).
Il caso dell'utente Tinder che ha chiesto indietro suoi dati (e le hanno spedito 800 pagine!)
Insomma... Facebook, Instagram, Tinder, Snapchat, Whatsapp: quanto c’è di noi in ognuna di queste applicazioni? Quante emozioni, quanti segreti, quanta vita condivisa? Se potessimo avere un archivio di tutto questo dove lo custodiremmo?
Qualcuno ci ha pensato: nel 2013 un utente di Tinder, con l’aiuto dell’attivista sulla privacy di dati personali Paul-Oliver Dehaye e l’avvocato per i diritti umani Ravi Naik, ha inviato una mail a Tinder chiedendo i suoi dati personali condivisi e le è arrivato molto di più di quanto aspettasse: 800 pagine di vita scaturite da 920 utilizzi dell’applicazione e 870 amici.
La quantità di dati è quasi spaventosa e siamo noi a diffonderli: luoghi che frequentiamo, interessi, gusti musicali, immagini, cosa ci piace mangiare, dove sognamo di andare in vacanza, dove pranziamo a Natale, quanto andiamo in palestra, e l’elenco potrebbe essere ancora molto lungo.
Ogni cittadino europeo è autorizzato a fare questa richiesta in base alla legislazione comunitaria sulla protezione dei dati, ma in pochi lo fanno.
Il sociologo Luke Stark sostiene che stiamo attratti dal divulgare tutte queste informazioni: è un fenomeno emozionale e non possiamo sentire il peso dei dati finchè non li vediamo materialmente in una pila di 800 pagine.
Tinder (così come altri Social) sa molto più di te di quanto tu non ti renda conto. I dati personali sono il carburante dell’economia. I dati dei consumatori vengono negoziati per la pubblicità. La politica di privacy di Tinder indica chiaramente che i tuoi dati possono essere usati per fornire "pubblicità mirata" e potrebbero non essere sempre al sicuro.
Ma cosa potrebbe accadere se questo tesoro di dati fosse violato o reso pubblico o acquistato da un’altra società? Se prima di inviarti quelle 800 pagine qualcuno le avesse spulciate? (ti è mancato il respiro per un attimo, vero?)
Nel mese di maggio 2016 un gruppo di ricercatori danesi ha pubblicato un set di dati (tuttora online) di circa 70.000 utenti della piattaforma di dating OkCupid (di cui Tinder è tra i proprietari) e quando gli è stato chiesto come mai l’avessero fatto, la risposta è stata semplice e chiara: i dati erano già pubblici.
Per un attimo ricordiamo quando si scrivevano le lettere e si spedivano: un foglio e una busta: uniche copie al mondo e il contenuto arrivava solo al destinatario e il destinatario lo conosceva solo il postino, forse era quella l’unica forma reale di privacy.
Siamo davvero consapevoli del valore effettivo dei dati personali? In quale direzione stiamo andando? Lo scopriremo solo vivendo.