Non sarà certo la prima volta che sentirete parlare di una possibile morte imminente di Facebook, il social network che ha rivoluzionato per sempre le nostre vite, a livello personale e di business. Tuttavia, quello che è nato per essere un avveniristico Eden che ha dato vita a "un mondo più aperto e connesso - citando Zuckerberg - un mondo migliore, che porta ad una economia più forte con più opportunità e una società più forte che riflette i valori di tutti”, oggi pare aver perso di vista proprio quello che è stato il segreto del suo successo: gli utenti.
Nella corsa alla conquista degli inserzionisti, Zuckerberg ha reso il suo Facebook una piattaforma sempre più raffazzonata: come un moderno Dottor Frankenstein, ha voluto cucire addosso alla sua creatura features non sempre coerenti e adatte allo spirito del social. Se da una parte Facebook registra una costante crescita dei propri profitti, dall’altra si sta registrando un tasso di abbandono sempre più alto da parte di quello che è stato per molti anni il suo target di riferimento: i Millennials.
Su Facebook è un paese per vecchi
Ormai è un dato di fatto: gli utenti più giovani (Millennials e Generazione Z) sono sempre meno attivi su Facebook, troppo generalista, scegliendo di migrare verso piattaforme più “targettizzate” sulla base di interessi specifici, come fotografia e video (Instagram, Snapchat) e musica (Spotify). Se la fascia d’età tra i 18 anni e i 30 è sempre meno attiva su Facebook, quella tra i 30 e i 55 anni è in continua crescita.
Ma perché? In primis per una scarsa offerta di contenuti interessanti e un continuo riciclo di iniziative già trite e ritrite, come i ricordi, l’anniversario dell’amicizia e i video di riepilogo dell’anno che è stato. Altre due problematiche che riducono notevolmente l'attrattiva della comunicazione su Facebook sono: la scarsa possibilità di personalizzazione e l’impossibilità di amplificare i propri contenuti se non a pagamento. Per questo, quando pubblichiamo su Facebook abbiamo la sensazione di alimentare una piattaforma che ormai è poco più ampia del nostro pianerottolo di casa. Una di quelle case in cui abitano i genitori al piano di sopra, i nonni al piano di sotto, gli zii nel condominio di fronte, e così via.
Se Facebook è il paese, Instagram è la metropoli.
Quello che facciamo su Internet è costruire e alimentare una nuova versione di noi, più evoluta, in cui il nostro io e il nostro super io convivono. Per questo il mi piace di chi già ci conosce (e spesso conosce molto poco quel noi che vogliamo esibire sui social) è inquinato dall’immagine di noi che questa persona si è creata in un mondo parecchio meno interessante di quello virtuale - il mondo reale, dove mostriamo solo in parte ciò che siamo davvero e per nulla ciò che vorremmo essere
Facebook è la storia di un romanzo, il proprio. È la nostra esistenza raccontata da noi stessi, che difetta d’imparzialità. È la vita ideale che intendiamo esibire, celando il peggio e mostrando trofei per i posteri. [...] Facebook è un’inutilità necessaria. - Enrico Mattioli
Del resto lo scopo di Facebook è sempre stato questo, “tenerci in contatto con le persone della nostra vita”. Oggi, però, questo ai più giovani non basta. Per molti i social network sono diventati lo strumento per darsi una chance di diventare famosi (celeb), o quantomeno popolari (influencer). Nessuno vuole più rinunciare a quel “quarto d’ora di celebrità” di cui parlava profeticamente Andy Warhol, a maggior ragione ora che si hanno a disposizione tutti i mezzi necessari per diventare influenti e di conseguenza, diciamocelo, a fare dei soldi facili. Su Instagram e Musical.ly è più facile, Facebook purtroppo, anche da questo punto di vista, rimane un mondo senza sbocchi.
Solo il 40% degli utenti segue i brand su Facebook
La comunicazione dei brand sui social diventa, giorno dopo giorno, sempre più di plastica. Il community management - che dovrebbe essere il risultato di strategie di comunicazione, obiettivi di brand, tone of voice ed estro creativo - non è altro che un’attività meccanica e quotidiana, in cui lo spirito del brand, la sua heritage e i suoi valori spesso rientrano in modo molto marginale. La maggior parte degli utenti (in particolare i Millennials) sanno che dietro la fortuna o la sfortuna, l’epic win o l'epic fail della comunicazione social di un brand, c’è solo un social media manager più o meno capace. Per fare un esempio molto attuale, basti pensare al caso Unicef che, a seguito del mancato appoggio allo Ius soli, ha scelto di esporsi sui social riportando il risentimento del suo portavoce, Andrea Iacomini. E fin qui tutto bene, peccato che poi qualche utente si è mostrato dissidente e il social media manager, a quel punto, ha iniziato a tirare in ballo termini sconvenienti, quali #idiot e #fascist. Questo ha scatenato l’indignazione di molti ma anche l’approvazione di qualcuno.
La mia solidarietà a @UNICEF_Italia. Perché di fronte all’arroganza e all’ignoranza, non se ne può più della finta diplomazia da social media manager.
— Selvaggia Lucarelli (@stanzaselvaggia) December 26, 2017
C’è da dire, comunque, che la pubblicità ha sempre funzionato così: se prima le aziende investivano fior fiori di soldi in patinati spot televisivi le cui promesse sono diventate, via via, sempre più dichiaratamente illusorie, ora investono molto meno denaro in inserzioni sui social mirate ad amplificare messaggi sempre meno coerenti con gli interessi degli utenti. Oggi la comunicazione dei brand su Facebook è stantia, piatta e per nulla di valore - fatta di piani editoriali in cui lo storytelling e la possibilità di creare un rapporto (oltre che una vuota interazione) con i propri clienti e i propri prospect, lascia sempre più spazio alla presenza ingombrante del prodotto fine a sé stesso. Questo vale anche per l’Influencer Marketing, sempre meno genuino e più costruito: che sia arrivato il momento anche per questa bolla di esplodere?
Certo, vendere - a prescindere dal media - rimane l’obiettivo principale di ogni azienda: i clienti spesso storcono il naso davanti alla proposta di campagne di comunicazione creative in cui il prodotto c’è ma non viene imposto all’utente come conditio sine qua non della relazione. L’utente deve essere libero di scegliere quali brand seguire e, questi, devono essere in grado di trasmettere fiducia e di dare ai propri follower qualcosa in cambio. Mettere il prodotto in primo piano in ogni contenuto lo disumanizza, lo rende meno emozionale e non interessante. Le tecniche di “shelf marketing” funzionano bene, ma nei supermercati, in rete gli utenti vogliono avere la sensazione di trovarsi in un territorio amico, costruito su misura per loro dove poter trovare annunci coerenti con i loro interessi e dove poter interagire con i brand e lasciarsi conquistare non solo dai prodotti e i servizi che vogliono che acquisti ma anche dalla loro comunicazione e capacità di entrare in contatto ad un livello più umano.
In questo momento, Zuckerberg sembra proprio non riuscire a trovare un equilibrio tra monetizzazione ed esigenze degli utenti, applicando a Facebook una visione troppo inserzionista-centrica (sua principale fonte di profitto), perdendo di vista l’importanza dell’audience. Se non c’è un pubblico disposto ad ascoltare, comunicare non ha più senso.
Gli effetti collaterali dell’era digitale: il lato oscuro dei social network
Il Cerchio non è solo un’azienda, è un modello di mondo, in cui la moneta da pagare per i servizi belli, gratuiti e avveniristici è il controllo totale di dati e informazioni che vanno messi in piazza in modo spontaneo e totale.
Infine, è interessante fare una digressione su quello che sta dietro a questa macchina da soldi.
Aziende come Facebook e Google competono quotidianamente per conquistare la maggior parte della giornata di un utente: il capo di Netflix ha affermato che il suo peggior nemico non è Amazon ma il sonno dei suoi spettatori. A questo fine, sono state create e perfezionate tecniche come il brain hacking, cioè la tecnologia che ti spinge a consultare in continuazione il cellulare, finendo per creare una vera e propria dipendenza, con tutte le conseguenze (anche gravi) del caso. Inoltre, di recente, il capo della ricerca Facebook ha ammesso che passare troppo tempo sui social network, se l’uso è passivo, è nocivo.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg: per intercettare in modo sempre più meticoloso i bisogni del singolo utente, questi colossi della comunicazione sfruttano la vulnerabilità psicologica umana e analizzano i nostri movimenti al fine di trasformarli in denaro: Antonio Garcia Martinez, ex Project Manager di Facebook, ha confessato
“Per due anni ho avuto l’incarico di trasformare i dati di Facebook in denaro, usando qualunque strumento legale. Se fate ricerche su Internet o comprate oggetti in un negozio e poi trovate su Facebook delle pubblicità legate alle vostre ricerche o ai vostri acquisti, prendetevela con me: ho partecipato alla creazione di questa tecnologia”.
Facebook nega di sfruttare lo stato emotivo degli utenti per dare in pasto agli inserzionisti audience composti dagli utenti che si sono dimostrati più suscettibili ad un determinato tipo di messaggio.
Si tratta di veri e propri campanelli d’allarme, che ci mettono in guardia da un sistema che sta intaccando in modo irreparabile al tessuto social. Del resto, parliamo di società che puntano soprattutto al profitto quindi, nonostante le rassicurazioni e le promesse, è difficile pensare che riescano (e vogliano) trasformare i social in prodotti dotati di una coscienza. E forse ormai è troppo tardi per fare questo tipo di riflessioni: parliamo di un meccanismo troppo radicato, in continua evoluzione, che penetra sempre di più nelle nostre vite - fittizie e reali.
L’invecchiamento del target, la plasticità della comunicazione dei brand sui social e il palesamento degli effetti collaterali dell’era digitale da parte di chi ne fa (o ne ha fatto) parte sono tutti elementi che fanno sempre più vacillare la posizione egemonica di Facebook.
Arrivati a questo punto, per sopravvivere, il social di Zuckerberg sarà costretto a cambiare il propri modello di business per riuscire a trovare un nuovo punto di contatto con il target più attivo sui social, l’unico disposto a interagire con i brand, l’unico in grado di sfruttare a pieno le potenzialità del mezzo, fruire i nuovi formati (es. contenuti Live): i nativi digitali, quelli che saranno gli over 35 di domani, i Millennials.