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pubblicità su Netflix

In arrivo la pubblicità su Netflix: prezzi in calo e catalogo ridotto

Prepariamoci per l’arrivo della pubblicità su Netflix. Secondo un report di Bloomberg pubblicato nel fine settimana, l’abbonamento di Netflix con contenuti pubblicitari potrebbe costare da 7 a 9 dollari al mese. Per fare un confronto, negli Stati Uniti il servizio di streaming offre un piano base a schermo singolo per 9,99 dollari al mese, mentre il piano più venduto, che offre lo streaming full HD su due schermi, costa 15,99 dollari al mese.

Come sarà la pubblicità su Netflix

Il rapporto di Bloomberg ha sottolineato che Netflix prevede di mostrare circa quattro minuti di pubblicità per  ogni ora di programmazione, una quantità comunque pari o inferiore a quella dei suoi concorrenti. Il rapporto afferma inoltre che la società potrebbe mostrare annunci pubblicitari prima e durante uno spettacolo, ma non mostrerà nulla dopo la fine di un episodio.

Ad aprile, il gigante dello streaming aveva dichiarato di prevedere l’uscita dell’abbonamento ad-supported nel 2023. Da allora, diverse fonti hanno sottolineato che l’azienda potrebbe lanciare questo piano entro la fine dell’anno in almeno una mezza dozzina di mercati nell’ultimo trimestre del 2022.

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Pubblicità su Netflix: cosa cambia con il piano ad-fueled

Durante la recente conferenza stampa sugli utili, Netflix ha confermato che gli utenti che si abboneranno al piano ad-supported non avranno inizialmente accesso a tutto il catalogo, cosa che potrebbe dipendere dai suoi accordi di licenza con diversi studios. Recenti informazioni hanno anche rivelato che Netflix potrebbe consentire la visione offline del contenuti anche in questo nuovo tipo di piano.

Bloomberg ha anche suggerito che Netflix potrebbe non inserire pubblicità nei contenuti dedicati ai bambini, anche nel piano ad-supported e nella sua programmazione cinematografica originale.

Il gigante dello streaming sta cercando di raccogliere più utenti sperimentando piani più economici, come quelli per soli cellulari disponibili in India, Malesia, Nigeria, Kenya e Sudafrica.

Tuttavia, il piano ad-supported potrebbe diventare disponibile a livello globale dopo il lancio. Le stime indicano che gli annunci pubblicitari su Netflix genereranno entrate per 8,5 miliardi di dollari entro il 2027. Uno studio pubblicato a maggio da Digital TV Research suggerisce che il mercato globale dei video on demand supportati da pubblicità (AVOD) crescerà fino a 70 miliardi di dollari entro il 2027, con gli Stati Uniti che genereranno 31 miliardi di dollari.

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Anche Disney+ e Warner Bros. puntano sulla pubblicità

Netflix non è l’unico servizio di streaming che intende affidarsi a un piano di supporto pubblicitario per espandere la propria base di utenti. A marzo, Disney+ ha confermato l’intenzione di introdurre un sistema simile entro la fine dell’anno.

Durante la presentazione degli utili per il secondo trimestre del 2022, anche Warner Bros. Discovery ha dichiarato che sta esplorando un piano di supporto pubblicitario per il nuovo servizio creato dalla fusione di HBO Max e Discovery+ il cui lancio è previsto per il 2023.

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Messy Middle Model: il nuovo modello che descrive processo di acquisto dei clienti

Il processo di acquisto è da sempre oggetto di studio e analisi da parte di coloro che sono impegnati nella funzione del marketing, alla ricerca di un modello che possa descrivere questo processo al fine di codificarlo per il proprio business di riferimento.
La teoria ha formulato negli anni tanti modelli ultimo dei quali il “Messy Middle Model”, che descrive le varie fasi del percorso d’acquisto, spesso molto confuse, che avvengono tra il primo trigger e l’acquisto effettivo e che rappresentano oggi la grande sfida di chiunque sia impegnato nel digital marketing.

Tutti sappiamo che il covid ha dato un forte impulso alle vendite online e gli stessi analisti di Google hanno stilato vari modelli preposti ad aggiornare la prospettiva sul processo decisionale dei consumatori ricorrendo ad esperti nel campo delle scienze comportamentali, “The Behavioural Architects”.

Il lavoro svolto da questi professionisti ha delineato un percorso per decifrare il modo in cui i consumatori decidono cosa acquistare, portando a comprendere il modo in cui i consumatori prendono decisioni in un ambiente online con innumerevoli opzioni e infinite informazioni a disposizione.

La prima cosa presa in considerazione è stata che le persone sfruttano i bias cognitivi, o distorsioni cognitive, radicati a fondo nella propria mente per affrontare e gestire i concetti complessi e su larga scala. Questi bias non sono una novità, esistono da molto prima di Internet, ed influiscono sulle decisioni di acquisto delle persone.

La ricerca condotta da Google, ha alla fine portato ad un aggiornamento del modello decisionale del consumatore, dove al centro regna il caos, uno spazio complesso tra il primo trigger e l’acquisto finale, in cui i consumatori sono sopraffatti e confusi, il Messy Middle.

Le persone cercano informazioni su prodotti e brand di una categoria e poi valutano tutte le opzioni a loro disposizione. Questo si riflette in due schemi mentali diversi che prendono forma nel Messy Middle del percorso di acquisto

  • esplorazione, un’attività espansiva; 
  • valutazione, un’attività riduttiva. 

Qualsiasi cosa stia facendo una persona, in un’ampia varietà di fonti online, come motori di ricerca, social media, aggregatori e siti web di recensioni, può essere classificata in una di queste due mentalità.

Percorso di acquisto dei consumatori

Fin qui è chiaro il fine o meglio l’essenza del “Messy Middle model” come nuovo modello di marketing per decodificare il processo di acquisto di un cliente, ma in che modo questi si antepone ai precedenti modelli ? 

Questo framework prevede che la fase awareness non va interpretata semplicemente come la fase top del customer journey, infatti un potenziale cliente va esposto continuamente al messaggio comunicativo. 

Altra aspetto di rottura rispetto ai precedenti modelli è dato dal processo di valutazione, attivato dal cliente prima dell’acquisto. Un tempo era interpretato come un momento  statico, oggi va visto come un loop continuo e per questo motivo le nostre opzioni di acquisto devono essere sempre presenti nei momenti più rilevanti. Nello svolgimento di questo step è fondamentale disporre di strumenti di machine learning.

Dai due punti appena esposti va da sé che l’esperienza d’acquisto deve essere semplice e veloce per finalizzare il risultato.

Chiunque abbia affrontato un esame di marketing strategico all’università oppure abbia seguito un corso di specializzazione si sarà imbattuto in un modello che da oltre un secolo descrive il funzionamento della pubblicità, il modello AIDA (Attention o Awareness, Interest, Desire, Action) introdotto da Lewis, rivisto da Strong e in ultimo da Kotler.

Il confronto del Messy Middle Model con AIDA

Dal modello AIDA deriva il funnel Awareness-Consideration-Conversion che raggruppa due fasi così da potersi adattare meglio agli strumenti di misurazione digitale per via delle difficoltà che avremmo nella valutazione tramite KPI “l’interesse” ed il “desiderio”.

Che relazione c’è tra il “Messy Middle Model” e il modello AIDA ? semplice è una sua moderna e più dettagliata rivisitazione alla luce dell’introduzione della multicanalità e dei canali digitali che bombardano il cliente di informazioni. 

AIDA vs Messy middle model

Con il “MMM” viene abbandonando il concetto di fasi sequenziali ad imbuto per una rappresentazione ricorsiva e circolare, aspetto che coloro che analizzano i percorsi di conversione su Google Analytics possono confermare quando vedono i lunghissimi conversion path:

Google Analytics convertion path

Google Analytics convertion path

Confrontando il modello AIDA con il MMM possiamo ben vedere che non ha molto senso interpretare la fase di awareness come uno specifico momento al top del modello, ma ha più senso vederla come una fase ricorsiva che va presentata più volte al potenziale cliente durante il suo “viaggio”. 

Infatti affinché un prodotto o un brand restino impressi nella mente del consumatore è necessario che il messaggio venga riproposto di continuo. 

Una domanda che ci poniamo a questo punto è, in un modello ricorsivo quando inizia la fase che innesta il processo di acquisto?

Tale processo inizia con uno o più trigger, dove in informatica un trigger è una condizione che scatena un evento. Se ad esempio mi invitano ad una festa e ho bisogno di un jeans, questa condizione scatena il trigger della ricerca del  prodotto, se il costo della bolletta telefonica è altro inizierò a cercare una compagnia più economica.

Analizzando queste situazioni risulta palese che il processo di acquisto non inizia con la fase dell’ awareness e che le condizioni sopra descritte si presentino prima della fase di “esplorazione” e “valutazione”.

Riprendendo il lunghissimo conversion path di cui sopra è curioso vedere quante volte quel potenziale cliente sia stata ingaggiato dalla campagna di brand e da quante altre campagne a differenti livelli del funnel prima di convertire. Quanti ripensamenti prima di procedere alla conversione! Ed è evidente che vi sono tantissimi touchpoint e di conseguenza dati da analizzare che possono essere elaborati solo da una macchina e da un algoritmo di machine learning. 

Messy Middle Model

I vari ripensamenti appena accennati scaturiscono dai bias cognitivi che vedremo tra poco.

Le fasi del Messy Middle Model

Passiamo adesso a descrivere le varie fasi del MMM:

Esposizione, prima che inizi il processo di acquisto del consumatore è necessario essere già presenti nella sua mente per far parte di quell’insieme di brand tra i quali effettuerà la scelta. Questo richiederebbe, da un punto di vista strategico, l’utilizzo di una campagna ADV always-on oppure attivare campagne ADV in determinati micro momenti.

Esplorazione e Valutazione sono due fasi che camminano di pari passo. Il cliente mentre esplora effettua delle valutazione e durante queste fasi dobbiamo essere presenti tramite campagne basate sul machine learning, “smart” utilizzando una terminologia cara a Google.

Queste campagne si basano sull’intento di ricerca del cliente e non sul modello classico legato alle keyword. Anche Facebook utilizza campagne adatte a questo scopo basate sull’utilizzo del lookAlike. 

Durante questa fase assumono un ruolo importantissimo i “bias cognitivi” perché non solo modellano il comportamento di acquisto dei clienti, ma  influiscono sui motivi che li spingono a scegliere un prodotto rispetto a un altro.

I bias cognitivi rappresentano il modo con cui il nostro cervello distorce di fatto la realtà, sono dei pregiudizi.

I bias cognitivi nel percorso d’acquisto

Di seguito l’elenco dei bias individuati da Google a seguito di una serie di esperimenti:

Euristica di categoria: brevi descrizioni di informazioni chiave del prodotto possono semplificare le decisioni di acquisto.

Potere dell’immediatezza: più tempo bisogna aspettare per usufruire di un prodotto e minore diventa l’intenzione di acquistarlo.

Prova sociale: consigli e recensioni da altre persone possono rivelarsi molto efficaci.

Bias di scarsità: un prodotto diventa più desiderabile se la sua disponibilità diminuisce

Bias di autorità: l’opinione di un esperto o di una fonte attendibile è particolarmente influente.

Potere della gratuità: un regalo incluso con un acquisto, anche se non correlato al prodotto acquistato, può essere un ottimo incentivo.

Ritornando alle fasi del MMM abbiamo:

Esperienza, il riferimento è all’esperienza di acquisto online che, inutile dirlo, effettuata attraverso un mezzo digitale deve essere semplice e immediata. Questa fase va piantonata tramite campagne di search brand e retargeting.

Acquisto, il processo è terminato e si innescano altri processi legati al delivery, al post vendita, customer service, fidelizzazione, ecc. .

Resta quindi assolutamente consigliabile tenere sempre presente questi elementi, cercare di intuirne il loro funzionamento e la loro correlazione in modo da costruire delle esperienze che sempre più si avvicinano al reale comportamento del cliente.

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Basta Greenwashing: perché il tuo business deve essere davvero sostenibile

Negli anni 70’, il biologico era appannaggio di pochi visionari, spesso derisi dai “padroni del cibo” – così vengono definite le multinazionali che determinano l’andamento del mercato alimentare globale, influenzando le nostre abitudini.

Oggi, quelle che all’inizio sembravano api solitarie in un alveare di vespe, si sono riunite in sciami, sempre più grandi e rumorosi. La pandemia da COVID-19, infatti, ha accelerato una tendenza già in atto: la “conversione” di un numero crescente di persone al biologico.

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Solo nel 2021, secondo i dati elaborati dall’Osservatorio SANA, il mercato italiano del biologico ha raggiunto un valore di 4,6 miliardi di euro, pari al +5% rispetto all’anno precedente.

E fra le motivazioni che avrebbero spinto il 54% delle famiglie italiane ad acquistare prodotti a certificazione biologica in modo ricorrente – anche più volte alla settimana – ci sarebbero: le garanzie sulla qualità, i benefici per la salute e la sostenibilità ambientale.

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Il biologico, dunque, racchiude in sé un insieme di valori etici che hanno una grande capacità attrattiva sul consumatore finale: molte persone acquistano “bio” anche perché si sentono moralmente appagate.

Consapevoli che l’emozione gioca un ruolo importante nel processo decisionale d’acquisto e attratti dalle allettanti prospettive di guadagno, i “Big” dell’Industria Alimentare hanno escogitato un sistema per favorire le vendite dei propri alimenti convenzionali, senza modificarne l’asset produttivo.

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Colore “verde” e claim allusivi alla sostenibilità: così alcune aziende ingannano i consumatori

Come? Cambiando semplicemente il packaging. Passeggiando tra le corsie del supermercato non è difficile accorgersi che, sugli scaffali, il verde è diventato il colore predominante.

Secondo gli psicologi, che ne studiano gli effetti sulla mente umana, ogni colore provoca un’emozione e il verde rimanda a quella pace e tranquillità che solo la natura riesce a trasmettere.

Involontariamente, quindi, alle tonalità del verde tendiamo ad associare un significato particolarmente eco-friendly. Si tratta, a tutti gli effetti, di una manipolazione emotiva invisibile, spesso rafforzata da slogan vaghi e approssimativi, non supportati da un impegno concreto in materia di sostenibilità.

Frasi come “impatto zero”, “meno CO2 e gli stessi acronimi ECO e BIO, perdono di credibilità nel momento in cui non coinvolgono certificazioni specifiche.

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Greenwashing: comunicazione a scopo di lucro

Un fenomeno sempre più diffuso, che prende il nome di greenwashing, un neologismo indicante l’appropriazione indebita di virtù ambientaliste e salutiste da parte di alcune aziende – perlopiù multinazionali – che, dietro green claims, nascondono il reale impatto delle loro scelte/azioni produttive e commerciali.

Si tratta, quindi e a tutti gli effetti, di una strategia di marketing ingannevole: una truffa ai danni del consumatore, che mina la trasparenza della filiera alimentare – già fortemente compromessa.

Sul web è possibile trovare diversi esempi di aziende che sono state accusate di greenwashing. In particolare, sono tre i casi più sospetti e vicini a noi.

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Antitrust: 3 casi di greenwashing

Coca-Cola

Coca-Cola è uno dei brand più controversi dell’Industria Alimentare e, più volte, è stata al centro di accese polemiche per pratiche commerciali scorrette.

L’ultima accusa, in termini di tempo, è quella avanzata dalla Changing Market Foundation che, in un recente report, avrebbe inserito la Coca-Cola nella “lista nera” delle aziende che fanno greenwashing

Nel sito ufficiale di Coca-Cola Italia, sotto la voce “sostenibilità”, si legge di una nuova collaborazione con The Ocean Cleanup, una fondazione con sede a Rotterdam, nata per ripulire fiumi ed oceani dalla plastica, con un innovativo sistema di raccolta, che sfrutta le correnti marine.

Una partnership che, a prima vista, potrebbe sembrare virtuosa e sulla cui promozione l’Azienda di Atalanta ha speso milioni di dollari. In realtà, le bottiglie sarebbero costituite solo per il 25% da “plastica marina” riciclata, come afferma George Harding-Rolls, Campaign Manager della Changing Market Foundation.

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Una quota irrisoria che, di certo, non è sufficiente a porre rimedio agli ingenti danni ambientali di cui l’Azienda è colpevole. The Coca-Cola Company, infatti, è considerata una delle aziende più inquinanti al mondo in termini di rifiuti di plastica prodotti, come rivela l’inchiesta “Brand Audit 2021” pubblicata dall’organizzazione no-profit Break Free From Plastic.

I sospetti, quindi, che quello di Coca-Cola non sia un impegno concreto verso un futuro più sostenibile sono molteplici e all’orizzonte si fa strada l’ipotesi che si tratti di una strategia comunicativa a mero scopo di lucro, alla quale i media – spesso corrotti – fanno da megafono.

San Benedetto

Non serve necessariamente guardare oltre oceano per imbattersi in aziende che fanno greenwashing. Nel Gennaio del 2010, ad esempio, il Gruppo San Benedetto – leader nella produzione di acqua minerale e altre bevande analcoliche – è stato condannato a pagare una multa di 70.000 euro per aver presentato, nei messaggi pubblicitari, la propria bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente”.

I messaggi di San Benedetto, pubblicati tra il 2008 e il 2009 su diversi giornali nazionali, insistevano sull’eco-sostenibilità delle nuove bottiglie “prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente”, e sui contenitori classificati come eco-friendly che avrebbero permesso di “ridurre almeno del 30% la quantità di plastica impiegata e quindi di contenere il consumo di energia”.

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Negli stessi anni, per rafforzare la propria immagine green, la società di Scorzé (VE) arrivò addirittura a stringere un accordo con il Ministero dell’Ambiente – all’epoca presieduto dall’Avv. Alfonso Pecoraro Scanio – assumendo una serie di impegni in accordo con il Protocollo di Kyoto, tanto da essere stata premiata nel progetto Coop for Kyoto, come una delle aziende più virtuose nel risparmio delle emissioni di CO2.

In realtà, come segnalato dall’Antitrust, all’epoca l’effettivo risparmio di energia e anidride carbonica non era stato calcolato: pertanto, risultava difficile quantificare i benefici per l’ambiente.

Amadori

Nel vortice impietoso del greenwashing è caduta anche una delle più celebri aziende agroalimentari d’Italia: Amadori. L’azienda di San Vittore (FC) è stata costretta dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) a modificare la comunicazione relativa ai propri allevamenti di pollame, ritenuta ingannevole.

Sul proprio portale, Amadori pubblicizzava – con particolare enfasi – l’impegno della cooperativa nell’assicurare il benessere animale in ogni fase della filiera, suggerendo che tali condizioni erano riferibili a tutti i polli allevati.

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Invece, tali riguardi, sono riservati esclusivamente a due linee di prodotto premium: Pollo Campese e Pollo 10+. Per altro, anche nel caso dei Polli 10+, non sono mancate le critiche verso un claim promozionale che recitava “maggiore spazio in allevamento rispetto ai limiti di legge: le indagini, infatti, hanno dimostrato come l’azienda si limitasse a garantire la soglia massima di densità, pari a 33Kg/mq.

Tuttavia, dopo le segnalazioni ricevute, Amadori si è impegnata a correggere le informazioni false riportate sul proprio sito, accusando le associazioni dei diritti animali – L’ENPA , in particolare – di aver strumentalizzato la vicenda.

Come difendersi dal rischio di greenwashing

Di casi analoghi, ce ne sono innumerevoli e riferibili a più settori – dall’agroalimentare, alla moda, fino all’elettronica. In Italia, per contestare un green claim – e contribuire alla tutela dei consumatori – è possibile: fare denuncia all’autorità competente (AGCM), instaurare un giudizio civile o segnalare il caso all’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP).

Mentre per non cadere in “trappola” è raccomandabile osservare la corrispondenza tra diciture green e certificazioni riportate in etichetta, andando oltre il semplice colore del packaging.

Il greenwashing resta, ad oggi, una problematica seria e spesso impunita, che gioca a svantaggio di quelle aziende realmente impegnate sul fronte della sostenibilità, per limpide convinzioni etiche e non torbidi interessi economici.

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Perché il Brand Purpose non è un semplice badge da appuntarsi

Il Brand Purpose è la ragione per cui un brand esiste oltre che per il semplice scopo di fare soldi.

L’umanizzazione dei rapporti fra brand e consumatori sempre più consapevoli ha segnato un passaggio di stato nel modo di concepire il ruolo delle aziende. E il “perché” queste agiscono nel mercato.

Perché parliamo di Brand Purpose

Sempre più persone percepiscono il Brand Purpose come un fattore decisivo quando si tratta di acquistare un prodotto o servizio.

L’Earned Brand Study 2017 condotto da Edelman ha rilevato che il 50% delle persone in tutto il mondo afferma di farsi guidare dai valori del brand per le proprie scelte di consumo.

Il 67% afferma di acquistare i prodotti o i servizi di un brand perché è d’accordo con la sua posizione in merito a un argomento specifico.

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Perché è importante per noi

Se le aziende di tutto il mondo continuano a lottare per differenziarsi in settori sempre più sovraffollati, un brand orientato al purpose riesce a guadagnarsi la fiducia dei propri clienti.

Un forte Brand Purpose consolida il posizionamento di un’azienda nel mercato e ne condiziona il suo successo economico.

I tempi in cui le organizzazioni puntavano su fattori come prodotto, servizi e visibilità per collocarsi nel mercato, sono finiti. Sebbene continui ad essere importante, la Unique Selling Proposition non è più il l’ago della bilancia che fa breccia sulle scelte delle persone.

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Cosa c’è da sapere

Investire per creare una forte connessione diretta con il pubblico e dare loro uno scopo fondamentale per cui entrare in connessione con il brand è imprescindibile.

I valori insiti nel brand definiscono l’anima dell’organizzazione. Ciò genera coinvolgimento emotivo sul pubblico di riferimento grazie alla condivisione di convinzioni, tematiche rilevanti, soluzioni e risposte ad argomenti etici.

Il Brand Purpose convince le persone a fidarsi e relazionarsi con l’azienda e garantisce che i fan perdonino le sue debolezze, trasformandosi in veri e propri Ambassador.

Ninja Upshot

Il Brand Purpose non è semplicemente un badge di cui le aziende possono fregiarsi per avere un aspetto migliore agli occhi delle persone.

Deve piuttosto essere una naturale e autentica manifestazione dei principi fondamentali dell’organizzazione che coincide con quanto il pubblico di destinazione ricerca in un marchio.

In definitiva, dovrebbe dimostrare un desiderio genuino di impegno sociale connesso ai sui valori principali.

smart tv

Il gaming sulle smart tv rappresenta la nuova frontiera della pubblicità

Il gaming sulle smart tv rappresenta la nuova frontiera della pubblicità. A dirlo è un rapporto di Samsung dal titolo “Behind the screens: gaming trends report” che mostra chiaramente quanto stia crescendo il gaming delle CTV, i televisori connessi a Internet per la riproduzione di video e musica in streaming.

I gamer, definiti come i nuovi heavy streamer della tv intelligente, trascorrono davanti lo schermo il 45% in più di tempo rispetto a chi non gioca.

“Il valore crescente del gaming e il continuo engagement dell’audience post pandemia rivelano come il gioco sia diventata una vera e propria abitudine quotidiana degli utenti dei televisori Samsung. E la nostra posizione unica e privilegiata nel settore del gaming ci permette di comprenderne i fruitori sia dal punto di vista dell’hardware che da quello del comportamento”, ha commentato Alex Hole, vicepresidente di Samsung Ads Europe.

Dai numeri dell’azienda emergono dati positivi per gli investitori e per il mercato pubblicitario che si sta muovendo in tal senso. Per i brand è importante capire dove i consumatori fruiscono i contenuti, per entrare direttamente in contatto con loro.

Essere attenti all’evoluzione dei comportamenti degli utenti è l’elemento chiave per essere presenti, aumentare la copertura e non perdere terreno rispetto ai concorrenti.

L’aumento delle vendite delle CTV apre quindi nuovi possibili scenari. Vediamoli nel dettaglio analizzando qualche dato.

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La crescita delle CTV

I dati del rapporto Samsung Ads parlano chiaro: nel primo trimestre 2022 le smart tv utilizzate per giocare hanno mostrato un aumento del 12% annuo rispetto al primo trimestre dell’anno precedente, registrando di fatto un passaggio da 4,8 milioni di utenti a 5,4 milioni.

In particolare, in Italia si registra un +10%, equivalente esattamente a 786.000 tv Samsung utilizzate per il gioco.

Un valore che sta crescendo anche in Europa. In particolare, nell’EU5 (Francia, UK, Germania, Spagna, Italia), le ore passate a giocare con una smart tv sono aumentate del 9%, passando da 530 milioni di ore nel primo trimestre 2021 a 576 milioni di ore nello stesso trimestre del 2022. Aumenta del 2% anche il tempo medio delle singole sessioni di gioco.

Gamer batte streamer

I numeri rendono il mercato dei gamer sempre più attraente: dal rapporto emerge che i giocatori trascorrono il 45% in più di tempo di fronte allo schermo rispetto ai non giocatori; per il 51% del loro tempo sono presenti in ambienti streaming, per il 32% in ambienti lineari, con fruizione di contenuti video in diretta con abbonamento via cavo/satellite/antenna, come la tv tradizionale.

I soggetti che giocano ai videogiochi su smart tv infatti raggiungono in media 195 ore di streaming a trimestre, rispetto ai non gamer, con 101 ore di fruizione lineare.

Nel nostro Paese, il 25% risulta essere un giocatore “heavy streamer”, cioè molto forte in considerazione del tempo dedicato all’attività, e viceversa il 44% degli heavy streamer italiani è un giocatore.

I gamer sono “sul pezzo”

Non solo heavy streamer, i gamer risultano essere anche heavy adopter, pronti ad adottare con repentinità nuove tecnologie.
Tra i giocatori con tv connesse Samsung risulta che la maggioranza utilizza ancora console di prima generazione (PS4, Switch, Xbox One), parliamo del 79% della totalità delle console nei territori EU5, ma il numero è destinato a cambiare in fretta. Le console di nuova generazione (PS5, Xbox Series X e S), lanciate nel novembre 2020, si stanno facendo largo con prepotenza nel mercato. In Italia, Samsung ha registrato una crescita del 150% nel primo trimestre 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021.

Quest’ultimo non è un dato da sottovalutare, considerando che il gioco con le nuove console ha infatti portato ad un aumento del tempo trascorso davanti allo schermo: nei primi tre mesi di quest’anno, il tempo medio giornaliero di gioco con una smart tv Samsung è salito ad 1 ora e 36 minuti, rispetto ai 38 minuti dell’anno scorso.

L’atteggiamento dei consumatori di fronte ad un nuovo prodotto dipende dalle proprie inclinazioni. Generalmente gli innovatori, disposti ad assumersi il rischio, oscilla intorno al 2%, secondo il libro “Marketing, Il Management orientato al mercato”, Pastore, Mattiacci.

Il fenomeno, nelle caso delle console, è probabilmente dovuto alla curiosità per la novità, ma non solo:

“La superiorità del tempo trascorso dai gamer davanti alle nostre TV non può, però, essere attribuita solo al gaming. È più probabile che accedano ad una serie di opzioni Smart TV, dalla TV lineare alle piattaforme di streaming on-demand. Ed è così che per i gamer, le Smart TV diventano il fulcro della casa”, ha specificato il Vicepresidente Hole.

Il valore del gaming per la pubblicità

Il 34% delle ore di streaming sulle tv dei giocatori è rappresentato dalla fruizione di contenuti in ambienti AVOD (ad-supported video on demand), piattaforme di streaming a cui gli utenti accedono gratuitamente grazie al supporto della pubblicità. Il tempo che vi passano i giocatori registra il 41% in più rispetto ai non giocatori.

L’approccio degli utenti verso tali piattaforme appare positivo, dimostrando di accettare di buon grado i messaggi pubblicitari. YouTube è ancora la regina indiscussa del settore, ma altre piattaforme, come Samsung Tv Plus, Pluto e Rakuten, vedono aumentare l’apprezzamento nei loro confronti in Europa.

Nell’EU5, i giocatori hanno il 10% di probabilità in più di guardare Samsung Tv Plus (il servizio streaming di proprietà Samsung, supportato proprio dalla pubblicità). Per quanto riguarda la tipologia di contenuti, i preferiti sulla piattaforma dell’azienda, nel primo trimestre dell’anno in corso, sono stati l’intrattenimento, le news e l’istruzione.

Con la raccolta dei dati relativi al rapporto emesso il 19 luglio, provenienti da circa 30 milioni di Samsung Smart Tv, l’azienda ha presentato una visione olistica dei comportamenti dei telespettatori, senza dubbio di grande utilità per gli inserzionisti pubblicitari dell’Advanced Tv.

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coca cola campagne estive

IKEA, Coca-Cola e McDonald’s: 5 campagne estive per lasciarti ispirare

Le campagne estive sono un modo utile ed efficace per i marchi per rendersi visibili alle persone, potenziali clienti e affezionati, e attirare l’attenzione del pubblico in modi nuovi ed entusiasmanti.

Per questo spesso sono caratterizzate da un approccio creativo che permette loro di diventare memorabili.

Eccone alcune tra le più interessanti degli ultimi anni, raccolte qui per trovare l’ispirazione anche quando il conto alla rovescia verso il digital detox è già iniziato.

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Campagne estive: Coca-Cola Open for Summer

Nel 2021, Coca-Cola ha incoraggiato il pubblico, attraverso l’uso della poesia, a dare il benvenuto agli amati passatempi estivi.

campagne estive

Le bottiglie di Coca-Cola e di Coca-Cola Zero Sugar presentavano brevi poesie che evocavano il senso di riunirsi per godersi l’estate. Questa campagna di marketing estiva è stata l’occasione per molte persone che avevano bisogno di alleggerirsi un po’, visto che l’anno precedente la possibilità di godersi l’estate insieme era stata resa impossibile a causa della Covid-19.

Le 24 poesie di Cola-Cola facevano riferimento ad attività come le gite in spiaggia con la famiglia, le grigliate in giardino e le gite al cinema.

Ricordavano alle persone di vivere la vita con i propri cari per l’estate e di creare ricordi insieme partecipando ad attività semplici, ma preziose.

In occasione del lancio della campagna, Melissa Schwartz, direttore di Coke & Meals, aveva dichiarato: “L’anno passato ha privato tutti delle opportunità di stare insieme ai propri cari, quindi questa iniziativa sembra quasi una ri-celebrazione dell’umanità. L’estate è un momento di gioia e di unione, e questo sentimento si è intensificato nel 2021 più che in qualsiasi altro anno a memoria recente“.

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Le librerie IKEA sulla spiaggia

Memorabile campagna estiva “Books on the Beach” di IKEA del 2010.

La campagna si basava sulla celebrazione di una delle loro librerie simbolo, BILLY, che quell’anno compiva 30 anni. IKEA allestì la propria libreria all’aperto sulla famosa spiaggia di Bondi, in Australia, attirando centinaia di persone.

La biblioteca sulla spiaggia offriva una gamma di libri tra cui scegliere; l’iniziativa prevedeva che si potesse scegliere un libro per sé e scambiarlo con uno già in possesso, facendo una donazione. Tutti i proventi sono stati devoluti alla Australian Literacy and Numeracy Foundation.

L’iniziativa non solo incoraggiava le persone a leggere e a scambiarsi le storie, ma poteva contare anche su una buona causa.

La campagna estiva di marketing ha avuto un enorme successo, anche perché le librerie BILLY di IKEA sono uno dei mobili moderni di maggior successo commerciale. Nel 2019 il Times ha riportato che sono state vendute più di 110 milioni di librerie Billy dal loro ingresso sul mercato e questa attività estiva ha incrementato notevolmente le vendite.

Walkers and Doritos: Only on holiday

campagna estiva doritos e walker

In questo caso parliamo di una collaborazione fra brand: la campagna di marketing estiva “Only On Holiday” è stata lanciata con il tour operator easyJet.

La campagna ci porta in viaggio in diverse destinazioni di vacanza in tutto il mondo, dove i vacanzieri sono incoraggiati a concedersi un po’ di svago mentre sono all’estero. Lo spot ricorda in modo giocoso il divertimento che può derivare dai viaggi.

Fernando Kahane, senior marketing director di Walkers, ha dichiarato: “Offrire ai britannici la possibilità di vincere un pacchetto vacanze ogni ora, per 90 giorni, è stata di gran lunga una delle nostre promozioni on-pack più grandi ed eccitanti di sempre“.

La campagna estiva è stata perfettamente in linea con i tempi, dato che il 2022 è in effetti il primo anno in cui i cittadini hanno potuto viaggiare liberamente all’estero. Lo spot celebra il ritorno delle vacanze. Ispirando le persone ad acquistare una confezione di Walkers e Doritos e a concedersi una vacanza tanto desiderata.

Campagne estive: una doccia Sprite human-size

Questa sì che è creatività.

Sprite ha davvero alzato l’asticella del livello delle campagne di marketing estive con l’idea di offrire ai frequentatori delle spiagge di Tel Aviv e Rio De Janeiro una doccia veloce nel distributore di bibite Sprite a grandezza umana.

sprite

Dopo aver fatto la doccia, alcuni ambassador di Sprite hanno anche regalato loro una bottiglia gratuita della bevanda. Come si può non avere fatto una buona impressione quando il brand ha soddisfatto tutte le esigenze dell’estate?

L’ombra di McDonald’s

campagne estive mcdonalds

Individuare un cantuccio all’ombra nel caldo del calore estivo può regalare sensazioni fantastiche. McDonald’s lo ha reso possibile creando cartelloni pubblicitari “unici” per le fermate degli autobus.

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Al Giffoni si parla di mobilità elettrica e sostenibilità con Stellantis

Lasciare alle future generazioni un mondo più pulito  grazie alla strategia di elettrificazione che faciliterà il passaggio progressivo alla mobilità elettrica. Questo il focus sulla sostenibilità della Impact di Stellantis e-Mobility e Ds Automobiles all’interno della rassegna Giffoni Next Generation di Giffoni Innovation Hub.

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Gli speaker di Stellantis, Gabriele Catacchio, Head of Global e-Mobility Communication, e Simona Magnarelli Lifestyle, Digital & Premium Brands Pr Manager Ds Automobiles, hanno coinvolto gli under 30 in un vero e proprio viaggio verso la sostenibilità.

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La strategia per la mobilità elettrica è sensibilizzare i più giovani

La partnership con Stellantis e la sua presenza al Giffoni Film Festival confermano l’interesse e l’impegno dell’ecosistema Giffoni sulle tematiche legate alla transizione ambientale e alla sostenibilità.

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Allo stesso tempo riconoscono all’e-Mobility Business Unit del Gruppo Stellantis il ruolo da protagonista in fatto di elettrificazione e di strategie pensate per dare un forte contributo al raggiungimento della Carbon Neutrality nel 2038. Tutto grazie alla promozione della mobilità elettrica tra i giovani che, durante la Impact, non sono stati semplici auditori, ma coprotagonisti di un dibattito incentrato sulle nuove frontiere di una mobilità più sostenibile.

A chiudere il cerchio è DS Automobiles, nota per la capacità di utilizzare le tecnologie più sofisticate e avere, in soli cinque anni, presentato una gamma interamente elettrificata.

Ancora troppo poche le auto elettriche in Italia

La sfida per l’elettrificazione e la mobilità elettrica è in corso: dal 2019, le vendite globali di auto elettriche sono praticamente raddoppiate di anno in anno. Tutto questo anche grazie alla presenza di eco-incentivi che, ora ripristinati in Italia, porteranno a un ulteriore incremento per il 2022.

Ma non è ancora abbastanza.  Basti pensare che in Italia la percentuale di auto elettriche rispetto al totale delle auto vendute non ha superato il 3,6% nel 2022.

Una sfida da vincere, dunque, il cui risultato finale dipenderà dalla capacità di sensibilizzare le nuove generazioni spingendole a ‘sposare’ per prime la mobilità sostenibile come stile di vita.