Manca ormai pochissimo a N-Conference, il primo grande evento Ninja dedicato al Business del futuro.
Grazie alla piattaforma Umans™, N-Conference vivrà in digitale e sarà possibile seguire gli interventi degli speaker, visitare i Virtual Stand dei Partner, fare Networking nella Lounge digitale, interagire con ospiti e partecipanti e personalizzare la propria esperienza di fruizione dell’evento.
Oltre 30 gli speaker tra esperti e professionisti del panorama economico digitale internazionale.
N-Conference, il Business Visionary Event di Ninja in programma il 27 e il 28 maggio 2021 in Digital Edition, in collaborazione con i main partner TIM, AW LAB e Banca Sella, premierà simbolicamente talenti, professionisti e aziende che hanno saputo trasmettere alla collettività la filosofia Ninja.
E sarà il pubblico a decretare i vincitori tra coloro che si sono contraddistinti nella Digital Industry per tecnologia, approccio e valori: durante N-Conference 2021 si potrà votare in diretta le aziende, le persone e i progetti più meritevoli per ciascuna categoria.
Un riconoscimento dedicato al personaggio pubblico che è stato capace di utilizzare il marketing e la comunicazione per creare autorevolezza e riconoscibilità promuovendo idee e approcci innovativi.
The Jackal
Estetista Cinica
The Ferragnez
Matteo Flora
Ninja Talent
Un riconoscimento dedicato al professionista che si è distinto, soprattutto nella Community Ninja, attraverso il proprio talento e la propria passione, creando un impatto concreto con le attività svolte.
Domenico Romano
Felicia Mammone
Filippo Giotto
Alberto Maestri
Ninja Marketer
Un riconoscimento dedicato al Marketing Manager e al suo team che in azienda è riuscito a creare un progetto o un’attività volta a generare valore per il brand attraverso un approccio e una comunicazione distintivi.
Carlo Colpo – Lavazza Brand Home Director
Paolo Lorenzoni – Country Director of Marketing – NETFLIX
Gianluca Di Tondo – Group Chief Marketing Officer di Barilla
Julia Schwoerer – Vice President Marketing Mulino Bianco
Ninja HR
Un riconoscimento dedicato all’HR Manager e all’azienda che nella gestione delle risorse umane si sono distinti per attività di people management e per una cultura aziendale innovativa.
Vittorio Maria Carparelli – Amex
Gianfranco Chimirri – Unilever Foods Solutions
Amelia Parente – Roche
Clemente Perrone – Sirti
Ninja Company
Un riconoscimento dedicato all’azienda che è riuscita a distinguersi per innovazione, approccio e valori, diventando un punto di riferimento nel proprio settore.
Weroad
Pastificio Rummo
Ammagamma
Ninja Culture
Un riconoscimento dedicato alla personalità e alle idee che sono diventate di ispirazione e che portano avanti l’evoluzione sociale e spirituale della società
Michelangelo Tagliaferri – Accademia di Comunicazione
Bernard Cova – Kedge Business School
Guido Stratta – Direttore People & Organisation Gruppo Enel
Ninja Leader
Un riconoscimento all’imprenditore che ha saputo creare una filosofia innovativa nella propria azienda valorizzando le risorse umane e un approccio innovativo al business.
Renzo Rosso – Presidente di OTB
Brunello Cucinelli – Fondatore di Brunello Cucinelli
Niccolò Branca – Presidente e Amministratore Delegato della Holding del Gruppo Branca International S.p.A
Norma Rossetti – General Manager MySecretCase
Ninja Media
Un riconoscimento alla realtà editoriale che è riuscita a creare una trasformazione concreta e positiva in ambito media e intrattenimento digitale.
Will Media
Freeda
The Post Internazionale
Ninja Agency
Un riconoscimento all’agenzia più innovativa che è riuscita a integrare nel suo DNA la creatività con una forte componente tecnologica per supportare il business dei propri clienti.
Dude
Caffeina
Connexia
Ninja Benefit
Un riconoscimento all’organizzazione no profit (o alla società benefit) che è riuscita a creare un impatto significativo dedicandosi alla salvaguardia dell’ambiente o all’inclusione sociale.
Fondazione Mediolanum
Lifegate
Little Genius
Come votare i tuoi preferiti
Sono dieci le categorie per l’assegnazione dei premi: Ninja Marketer, Ninja Company, Ninja Celebrity, Ninja Benefit, Ninja HR, Ninja Media, Ninja Agency, Ninja Talent e Ninja Leader.
Le aziende, i talenti e le persone incluse nelle nomination per i Ninja Awards sono stai selezionati grazie alla community: sono infatti quelli che hanno ricevuto più segnalazioni e preferenze durante la fase di candidatura. Ora “si sfideranno virtualmente” durante l’evento per aggiudicarsi il titolo di “Unbreakable del business”.
Technology, per scoprire insieme le nuove opportunità dell’AI e del Machine Learning per il business, il Martech e l’Automazione dei processi di vendita e customer support e familiarizzare con parole chiave del futuro presente come Blockchain, Cryptocurrency, AR & VR, powered by TIM.
Culture,per esplorare come la tecnologia sta plasmando generazioni sempre più connesse e digitali, attente ai valori e alla sostenibilità e critiche verso le tradizionali regole del lavoro e modalità di consumo, powered by AW LAB.
Industry,per studiare le aziende e le industrie che guidano il cambiamento del mercato valorizzando il capitale umano, integrando le tecnologie e puntando a risolvere i problemi della società in modo innovativo, powered by Banca Sella.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/ninja-awards-v3.jpg8131448Ninja Academyhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Academy2021-05-24 12:24:132021-05-28 09:58:11Ninja Awards di N-Conference: ecco le nomination per il Business Visionary Event
American Express, leader globale nei servizi e nelle soluzioni di pagamento, dopo il successo della prima edizione, lancia per il secondo anno la Campagna Shop Small in Italia, un progetto con cui l’azienda rinnova il sostegno alle piccole attività commerciali con la missione di rilanciare il commercio e i consumi.
L’iniziativa di American Express vuole valorizzare i quartieri e il loro ruolo nel rilancio del dinamismo socio-economico, come confermato dall’indagine commissionata a Nielsen, secondo cui i driver della ripresa saranno proprio le nuove abitudini di consumo vissute nei quartieri e l’impegno dei negozianti nel rendere ancora più di qualità la propria offerta e la relazione con i clienti.
Campagna Shop Small
Nel contesto attuale caratterizzato da un forte desiderio di ripartenza e rilancio, sia tra i consumatori che nel commercio, alcuni driver si rivelano più rilevanti e strategici per sostenere il dinamismo e contribuire ad alimentare il livello di soddisfazione verso la qualità della propria vita. Uno scenario che è confermato dall’Indagine condotta da American Express con Nielsen “Abitudini e tendenze di quartiere dal punto di vista di commercianti e consumatori”, secondo cui l’85% dei consumatori desidera condividere esperienze e vivere le proprie abitudini come frequentare il quartiere in libertà (81%), entrando nei locali, negozi e strutture (78%) e facendo i propri acquisti nei negozi vicino a casa (72%).
Il budget dedicato agli acquisti nelle piccole attività pesa il 50% sulle spese settimanali, un dato che conferma l’investimento della spesa nei negozi di prossimità, incentivato dalla possibilità di usufruire di offerte speciali (85%), di acquistare prodotti locali (75%), dall’opportunità di supportare le piccole realtà e le comunità locali (rispettivamente 76% e 74%) e dall’integrazione di canali digitali ed e-commerce (59%).
La tendenza a vivere il quartiere si sta trasformando in un’abitudine consolidata e riconosciuta dal 64% dei consumatori, soprattutto da chi vive nelle zone centrali (73%) e dai Millennials più partecipativi al dinamismo (75%), e dall’87% che continuerà a fare acquisti di prossimità. I consumatori dichiarano infatti un incremento del 30% della frequentazione presso i piccoliesercenti rispetto ai dati registrati prima di marzo 2020, trainati da fattori quali lo smart working (42%), la comodità (41%) e l’alto livello di soddisfazione verso gli esercizi attivi nella propria zona.
Un’altra tendenza consolidata nell’ultimo anno è il crescente utilizzo di pagamenti elettronici con un incremento del 60% dei pagamenti tramite POS, 58% della modalità contactless e 36% dello smartphone. Dall’indagine emerge che i pagamenti elettronici per importi tra i 10 e i 20 euro sono ormai utilizzati da quasi il 90% dei consumatori e che circa 1 consumatore su 3 li utilizza anche per importi inferiori ai 5 euro con maggiore frequenza.
I consumatori hanno inoltre scoperto nuovi benefici correlati alle carte di pagamento in grado di garantire vantaggi e valore attraverso promozioni (84%), in particolare per la generazione MZ (88%), seguite da programmi fedeltà (74%) e programmi di cashback (70%). In particolare, quest’ultimo ha avuto un impatto sulle scelte di consumo e acquisto per oltre il 60% della generazione MZ.
La fotografia dei consumatori trova conferma anche lato commercianti che si dichiarano entusiasti di tornare alla normalità e di dare il bentornato ai propri clienti, garantendo loro il massimo della sicurezza (68%). Il 24% dei commercianti dichiara che negli ultimi 12 mesi ha registrato un aumento dell’affluenza (valore che raggiunge il 37% nelle zone centrali). Questo trend positivo è legato alla relazione umana con il negoziante (69%), al rapporto di fiducia (58%), alla qualità dell’offerta (58%), motivazioni che continueranno a guidare questa tendenza.
In prospettiva, i negozianti si dimostrano ottimisti, il 23% è fiducioso nel recuperare nei prossimi mesi, il 55% è già riuscito a tornare ai livelli di fatturato del 2019 e per la chiusura 2021, il 57% prevede di tornare ai livelli dell’anno scorso e il 23% di aumentare il business.
Hanno avuto un impatto positivo sul fatturato le promozioni (47%), il cashback e i programmi fedeltà (66%), in particolare nei negozi di quartiere (57%), l’utilizzo dei Social Network (1 su 3) e di whatsapp (28%) per dialogare con i clienti, ma anche il digitale (39%) che ha permesso di riuscire a lavorare grazie a servizi di delivery attivati negli ultimi 12 mesi (27%) e canali di vendita online (37%). Chi ha saputo integrare al punto vendita fisico il canale online ha infatti registrato un fatturato invariato (49%) o cresciuto (25%).
La situazione ha spinto infatti i piccoli negozianti verso una maggiore digitalizzazione e integrazione di strumenti di pagamento innovativi, come carte tramite POS (il 23% lo ha attivato nell’ultimo anno), contactless (28%) e smartphone (36%).
In un contesto che si rivela pronto per ripartire sia sul fronte dei consumatori che degli esercizi commerciali, American Express Italia vuole essere in prima linea nell’abilitare questi trend attraverso azioni e programmi concreti in grado di incentivare, facilitare e guidare il cambiamento in atto. Ed è in questa direzione che si inserisce l’iniziativa Shop Small, che offre la possibilità ai Titolari di Carta di ottenere fino a 25€ di sconto in estratto conto (5€ di sconto per un massimo di 5 volte, spendendo almeno 20€ presso 5 diversi piccoli esercizi commerciali aderenti all’iniziativa Shop Small dal 18 maggio 2021 fino al 18 luglio 2021). I negozi aderenti sono segnalati e valorizzati sulla Mappa Amex con il logo Shop Small consultabile su Amex Map
American Express ha sempre avuto l’obiettivo di contribuire all’evoluzione e alla crescita degli esercizi commerciali e delle aziende italiane ed allo stesso tempo di aiutare i consumatori a soddisfare i loro bisogni e le loro passioni, restituendo loro valore. Un impegno che si è rafforzato nell’ultimo anno, in cui abbiamo supportato i commercianti che hanno dovuto affrontare momenti difficili ad evolvere il loro modello di business e dato ai nostri Titolari di Carta un aiuto nelle spese di tutti i giorni tramite iniziative di cashback, sconti e promozioni allineate alle loro necessità. E’ da qui che parte la nuova edizione di Shop Small e oggi ancora di più, nella fase della ripartenza, vogliamo essere vicini alle comunità locali, che mostrano un nuovo dinamismo e dove si sono consolidate le interazioni tra commercianti e abitanti locali.
Ha commentato Melissa Ferretti Peretti, Amministratore Delegato American Express Italia.
Abbiamo voglia di riprendere le nostre abitudini e le relazioni nel nostro quartiere, e allo stesso modo i negozianti sono entusiasti di riaccogliere i propri clienti e di qualificare al meglio la propria offerta per soddisfarne le aspettative. La nostra volontà è quella di contribuire a ispirare questi comportamenti e di valorizzare questo rinnovato slancio con le nostre iniziative, perché se le comunità locali, dove risiedono le eccellenze del Made in Italy, hanno successo, non può che derivarne un beneficio per tutta la società e per la nostra economia.
L’impegno del Gruppo si traduce anche nel voler affiancare i consumatori nella scelta di dove effettuare i propri acquisti per poterli ispirare e incoraggiare a scoprire i quartieri, le realtà vicino a casa, i commercianti protagonisti del commercio di prossimità e i prodotti dell’eccellenza locale. Nelle prossime settimane American Express lancerà infatti un progetto volto a valorizzare il nuovo dinamismo delle comunità locali per far riscoprire soprattutto agli abitanti dei quartieri le meraviglie nascoste da un punto di vista artistico, storico, culturale, culinario e commerciale.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/1_company-2.jpg10801920Company Newshttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCompany News2021-05-21 16:00:142021-07-26 12:44:50Al via la seconda edizione di Shop Small in Italia per il rilancio del commercio
Il digitale, si sa, vede sempre più montare un approccio “user-centric”. Un assioma che possiamo trovare in moltissime slide degli eventi di settore e nei tanti framework che vengono raccontati nei libri: la persona, con tutti i suoi bisogni e desideri, è il centro di gravità permanente su cui sviluppare qualsiasi progetto, a maggior ragione se questo dovrà vedere come veicolo principale il web, una sorta di antropocentrismo nell’epoca moderna!
Eppure, ancora oggi questa “centralità” non viene effettivamente garantita, o per meglio dire, considerata.
Basti pensare a un valore: secondo una ricerca condotta da Zendesk, il 75% dei clienti è disposto ad acquistare di più da aziende che offrono un’esperienza clienti positiva, il cui giudizio, aggiungiamo, dipende per ovvie ragioni dalla capacità della stessa azienda di rendere protagonisti gli stessi utenti offrendo loro soluzioni sempre più custom e modulabili.
Tale proposito però non sempre viene scaricato a terra nella realtà, anzi: il percepito dell’utenza è decisamente contrario. Addirittura, si calcola che il 35% dei consumatori sia d’accordo nel dire che le aziende non siano veramente user-centriche.
Una forbice significativa che non si spiega solo con una definizione (quella, appunto, di “centralità dell’utente”) che forse ha ancora contorni sfumati e facilmente interpretabili. D’altronde, quand’è che l’utente deve effettivamente “entrare in campo” in un’esperienza di marca, soprattutto in ambito digitale?
C’è un confine? E quanto può influenzare la progettazione di tale esperienza?
C’è un fatto: ogni touchpoint digitale viene concepito senza uno scambio virtuoso fra chi materialmente lo realizza e chi lo utilizzerà.
Con chi dovrebbe avvenire tale scambio? Ma con l’utente, ovviamente. Il fatto è che, almeno oggi, non è diffusa l’abitudine di farlo accadere.
Questione di metodo: valorizzare gli utenti (anche) come tester
Prendiamo ad esempio un’app mobile: nella sua fase di sviluppo, sicuramente qualcosa potrebbe esser tralasciato, o non adeguatamente progettato. Perché?
Per il semplice fatto che a forza di lavorarci, ci si potrebbe convincere che (ad esempio) una call to action è adeguatamente posizionata, oppure che un flusso che dovrebbe condurre a una conversione sia ben progettato, quando in realtà questo non corrisponde al vero. Anche quando scappa un refuso che sfugge, a causa delle troppe ore di lavoro, o il bias di conferma.
Il tutto potrebbe avvenire perché, sempre in linea generale, uno sviluppatore o uno UX designer potrebbero non avere la stessa visione del mondo, proprio perchè queste figure non corrispondono all’utente finale.
Il rischio di formarsi delle convinzioni che distorcono la realtà, o di non avere dati oggettivi sui quali costruire la UX, frutto della troppa concentrazione su un’attività specifica, sta alla base di errori di valutazione sullo sviluppo di una User Experience di valore: e per l’app che abbiamo preso ad esempio, questo potrebbe significare una scarsa usabilità che la conduce, inevitabilmente, al lento abbandono da parte degli utenti.
Questo vale per ogni app, sito, tool digital, perché se la User Experience non è ben progettata, un’azienda perde fatturato: McKinsey ha dimostrato come servizi con un’alta qualità di User Experience conducano a un miglioramento delle performance rispetto a chi invece sceglie di non potenziarne lo studio, attraverso ad esempio investimenti mirati.
Sempre McKinsey ci dice poi che solo il 22% delle aziende è soddisfatta dei tassi di conversione generati dai propri touchpoint digitali: non è un caso che i bug rilevati nei propri software vengano definiti conversion killer.
Ecco allora che il puntare su modalità di test distribuite, che non si riducano ai team di lavoro ma si allargano agli utenti reali, può portare a una rilevazione non solo più precisa, ma anche in grado di garantire sul lungo periodo performance più efficienti.
Una metodologia che dalla centralità di un gruppo di lavoro vede nella distribuzione delle fasi di controllo il vero punto di forza: qualcosa che riesce a garantire anche un bel coinvolgimento degli utenti (che non è male) ma anche un approccio che conduce, inevitabilmente, al tanto agognato risultato di avere un risultato realmente user-centric.
Design condiviso e Crowdtesting: le nuove strade per capire se una UX funziona
Un obiettivo ambizioso quello di coinvolgere gli utenti nel processo di sviluppo di un touchpoint digitale, certo si può ottimizzare la UX anche dopo la release. Chiaramente non è il processo ottimale sistemare a posteriori, ma è assolutamente fattibile. È innegabile però che questo sia possibile solo se la fase di design (che diventa a questo punto un processo condiviso) sia svolta potendo contare su un gruppo in grado di portare valore in termini di punti di vista, comportamenti, capacità analitiche: possiamo dire una community, che sappia essere variegata, numerosa, ricca di diversità.
Iniettare in gruppi di questo genere il proprio tool chiedendo di testarlo significa valorizzare l’esperienza del singolo e metterla a sistema per generare intelligenza collettiva, secondo una logica nativamente digitale.
L’utilizzo della community (o di una folla, da lì il termine “Crowdtesting”) di tester è una di quelle metodologie che a tendere potrebbe portare molte aziende a guadagnare in termini di tempo, risorse ed efficacia.
Di tempo e risorse perché coinvolgere una base utenti reali significa liberare ore/uomo nel proprio team: d’altronde, equivale a dare in outsourcing una componente considerevole di attività ripetitive. D’efficacia perché a uno sguardo fresco qualsiasi tipo di interazione può generare una reazione autentica, formando così un giudizio puntuale. Il grosso punto di forza è che sono utenti reali del prodotto, ad esempio i veri correntisti di una banca o chi ha una sim con un operatore e usa l’app. Questo permette di valutare l’esperienza dei veri utilizzatori finali!
L’approccio alla progettazione condivisa non è inedito: in Italia progetti di questo tipo sono gestiti da aziende come AppQuality, che supporta le aziende proprio a collaudare i propri touchpoint con una metodologia di UX research & testing e altamente competitiva.
Bending Spoon ad esempio ha lavorato con quest’approccio per lo sviluppo dell’app 30 Day Fitness, disponibile per il mercato statunitense, ottenendo risultati importanti non solo dal punto di vista del risultato finale, ma anche del risparmio di risorse interne che non hanno subito un sovraccarico di attività per la fase di test.
Stessa cosa ha fatto De Longhi per testare il nuovo eCommerce di Braun Household, il marchio di piccoli elettrodomestici la cui release è stata anticipata da un’importante fase di valutazione, che ha individuato 133 potenziali problemi.
Casi che coinvolgono grandi marchi ma che conducono veramente a un risultato efficace in termini di usabilità, che collocano -come dicevamo in incipit- veramente al centro l’utente: non solo perché il risultato finale è definito sulle basi delle sensazioni di chi dovrà poi materialmente usare quel tool, ma anche perché in quel coinvolgimento si verifica la vera brand experience.
Rich Gardner VP, Global Strategic Partnerships presso Klaviyo ha dichiarato: ”Il coinvolgimento dei clienti non può riguardare sempre e solo le nuove vendite. Il modo migliore per coinvolgere i tuoi clienti è sviluppare un’esperienza online basata sull’empatia.”.
Un’azienda che sceglie di coinvolgere gli utenti per testare la propria dimensione digital costruisce un’esperienza allargata ricca di valore, anche emozionale: è da scelte come queste che si comincia a mettere, concretamente, l’utente al centro.
Un passaggio fondamentale, in un mondo sempre più digitalizzato anche nel modo di pensare.
Un annuncio a sorpresa ai dipendenti in cui Zhang Yiming dichiara che entro l’anno lascerà la carica di CEO di ByteDance, società di proprietà di TikTok. “I’m not very social”, scrive nella lunga lettera, evidenziando il suo non essere predisposto all’essere social come una delle motivazioni determinanti per la sua decisione.
Una spiegazione che non reggerebbe, secondo gli analisti degli scenari geopolitici. Perché Zhang Yiming, fondatore del colosso cinese della Big economy, valutata in 300 miliardi di dollari nelle ultime contrattazioni e con un patrimonio personale di circa 44,5 miliardi di dollari, avrebbe deciso di lasciare il suo incarico?
Sullo sfondo le pressioni dell’Antitrust, l’autorità di regolamentazione cinese
All’origine potrebbe esserci l’autorità di regolamentazione cinese che negli ultimi mesi è intervenuta con multe fortissime per decentrare il potere delle grandi big tech, oltre ai rapporti tra Cina ed Usa e i dibattiti sulla privacy legata all’app Tik Tok che spopola tra i Millennial di tutto il mondo. La vicenda di Zhang Yiming presenta similitudini molti forti con Jack Ma, fondatore di Alibaba, entrato in dissenso con il governo e scomparso dalla vita pubblica cinese, decidendo all’apice della sua carriera di cambiare vita e di dedicarsi all’insegnamento.
Le sfide quotidiane di un CEO vengono rappresentate come un ostacolo alla ricerca e all’innovazione: “Sono più interessato ad analizzare i principi organizzativi e di mercato e sfruttare queste teorie per ridurre ulteriormente il lavoro di gestione, piuttosto che gestire effettivamente le persone” – scrive Zhang Yiming, che continuerà nel suo ruolo di presidente – “Non sono molto socievole, preferisco attività solitarie all’essere online, come leggere, ascoltare musica e contemplare ciò che può essere possibile”. Un ruolo, quello da CEO, che rappresenta “una grande sfida con molta pressione”, aggiunge, evidenziando che il cambiamento gli consentirà di “avere un impatto maggiore sulle iniziative a lungo termine”, spostandosi in una posizione “strategia chiave”.
A succedergli il suo compagno di stanza al college, Liang Rubo, attuale capo delle risorse umane di ByteDance, che avrà l’arduo compito di traghettare la società nel mare magnum dei regolamenti Big Tech, definito da Zhang “un partner inestimabile” con “punti di forza nella gestione, organizzazione e impegno sociale”.
ByteDance, che impiega oltre 100.000 persone in tutto il mondo, si stava preparando all’IPO molto attesa quest’anno, interrotta poi ad aprile.
“Penso che sia possibile che Zhang sia preoccupato perché, dopo l’IPO, vedrebbe aumentare la sua ricchezza e ricevere molta attenzione dai media. È difficile essere una persona ricca in Cina. Non si ottiene così tanto riconoscimento”, sottolinea l’analista tecnologico di Pechino Li Chengdong.
Nella lettera, infatti, Zhang ribadisce l’intenzione di devolvere parte dei profitti ad attività di beneficienza: “Credo che restituire alla società sia importante e abbiamo già fatto progressi, sperimentando nuove iniziative per l’educazione, nella ricerca sulle patologie cerebrali e digitalizzando libri antichi. Essendo coinvolto direttamente in alcuni di questi progetti, spero di poter contribuire ulteriormente con mie idee e aiutando a sviluppare nuove soluzioni”.
Tensioni Usa-Cina
Zhang è l’ultimo di un piccolo gruppo di fondatori di aziende tecnologiche cinesi ad abbandonare la gestione quotidiana. TikTok ha cercato di prendere le distanze da Pechino dopo che gli Stati Uniti hanno sollevato preoccupazioni per la sicurezza nazionale per i dati personali che gestisce.
L’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha cercato di costringere ByteDance a cedere il controllo dell’app TikTok. Un piano degli Stati Uniti per vendere le attività americane di TikTok a un consorzio che includeva Oracle Corp (ORCL.N) e Walmart Inc (WMT.N), fallito, dopo che ByteDance lanciò sfide legali di successo.
Il tentativo dell’Authority cinese per frenare il potere tecnocratico delle fintech
Una decisione inaspettata che arriva mentre le autorità di regolamentazione cinesi stanno aumentando il controllo delle più grandi aziende tecnologiche del paese. Ad aprile, hanno multato il gigante dell’e-commerce Alibaba Group Holding Ltd per 2,8 miliardi di dollari per pratiche anticoncorrenziali e lo scorso anno ha sospeso l’offerta pubblica iniziale (IPO) dell’affiliata fintech Ant Group.
Le autorità di regolamentazione antitrust hanno anche detto a Tencent Holdings Ltd che si stanno preparando a multare il gigante del gioco fino a 1,55 miliardi di dollari, secondo quanto riportato da Reuters il mese scorso.
ByteDance è la terza società tra le piattaforme di pagamento cinesi che tenta di dissolvere il duopolio Alibaba-Tencent, sulla spinta anche del governo cinese per ridurre lo strapotere di Ant financial di Alibaba e WeChat pay di Tencent. La big tech cinese dovrà però affrontare lo stesso piano di riforme previsto per Alibaba&co.
L’autorità cinese però ha imposto numerose riforme a cui adeguarsi, tra cui la revisione della forma giuridica, l’eliminazione dei prodotti finanziari dagli scaffali virtuali, l’adeguamento alla normativa antitrust che sta per entrare in vigore sui colossi tech. A ciò si aggiunge tutta la nuova sensibilità sulla privacy e la sua difficoltà di gestione che coinvolge tutto il mondo, ed in particolare l’App TikTok.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/Barbara_1-2.jpg10801920Barbara Landihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngBarbara Landi2021-05-21 12:04:232021-05-21 12:04:23ByteDance, perché Zhang Yiming si dimette da CEO?
Vantare uno spazio tra i cartelloni pubblicitari di San Siro o dell’Allianz Stadium di Torino, esiste qualcosa più cool? Sì, ideare una campagna di marketing per un torneo o un gruppo di eventi eSport!
Secondo una ricerca condotta da Newzoo, gli sport elettronici – o electronic sports – produrranno ricavi superiori al miliardo di dollari entro il 2022 nel mercato globale. Il tasso di crescita annuale composto (CAGR) tra il 2017 e il 2022 dovrebbe essere superiore al 22%. E la maggior parte di queste entrate sarà generata da sponsorizzazioni e spazi pubblicitari.
Con numeri come questi, l’eSport marketing è diventato una priorità per i brand non-endemici. E non solo.
eSport, un rapido riepilogo
Con eSport ci si riferisce ai tornei di videogames competitivi, giocati da player professionisti, che intrattengono una platea di spettatori.
Già, per chi non appartiene alla Generazione Z o non è un Millennial è difficile da capire: perché guardare qualcuno che gioca ai videogiochi? È quello che accadeva negli anni ‘90 / 2000 quando ci si trovava in due a giocare con la consolle ma con un solo joystick. Un po’ di sconforto e tanta pazienza che l’amico terminasse il suo turno.
Questa sensazione oggi è decisamente mainstream. Chi riesce a comprenderla probabilmente è ancora affezionato agli sport della vita reale. Ma il mondo sta cambiando. Il numero di fan degli eSport è cresciuto a dismisura.
Fino a poco tempo fa, brand come Red Bull e Intel erano gli unici player nel panorama dell’eSport marketing. Ora anche marchi non-endemici come Mercedes, McDonald’s, Mastercard, Movistar e Coca-Cola hanno fatto il loro ingresso nel mondo delle sponsorizzazioni legate ai tornei professionistici virtuali.
Si stima che le entrate globali del settore raggiungeranno 1,6 miliardi di dollari entro il 2024 con Louis Vuitton, Intel, ESPN, Taco Bell e altre corporate pronte a sgomitare sui campi da gioco virtuali per accaparrarsi seducenti spazi di eSport marketing per la promozione di prodotti e servizi.
Quali sono i motivi della crescita dell’eSport Marketing?
L’elevata interattività e la bassa concorrenza sono i driver principali di questa nuova tendenza.
Twitch è una delle principali piattaforme di streaming per gli eSport e, per ora, conta un basso volume di annunci pubblicitari. Questo, nonostante gli spazi sponsorizzati al suo interno generino un alto tasso di conversione rispetto alle piattaforme social tradizionali.
Perché?
I fan dello streaming sono completamente immersi nei contenuti che stanno guardando. Live chat e contest feature aumentano ulteriormente il livello di interattività. Senza dubbio il fattore generazionale è una delle leve essenziali. I giovani tra i 16 e 25 anni sono un gruppo di popolazione con caratteristiche comportamentali precise e questo obbliga i brand a rivedere le proprie strategie di marketing. Per arrivare a colpire questo target è necessario considerare che:
Il 61% dei Z Gen non guarda la televisione
Il 70% di questi trascorre più tempo a guardare gli eSport rispetto ad altri sport tradizionali
Quasi il 90% sa indicare almeno uno sponsor di eSport che non ha legami con il gaming
Oltre il 60% dei fan di eSport su Twitch interagisce quotidianamente con i player e quasi uno su tre ha visto almeno 5 ore di contenuti video di Fortnite in diretta su Twitch nell’ultimo anno.
Ma prima che un brand si precipiti a sviluppare una Strategia di eSport Marketing adeguata è bene conoscere qualcosa di più su questo particolare terreno di gioco. Senza possedere alcune conoscenze base dell’eSport marketing, è altamente probabile che un’azienda produca lo stesso effetto di un elefante che entra in una cristalleria. Tanti vetri infranti e un pugno di mosche tra le mani.
Quali elementi è necessario considerare? Come entrare in contatto con stakeholder e player del mercato? Quali tipi di campagne generano maggior interesse? Proviamo a dare una risposta.
Qual è il target ideale per una campagna di eSport Marketing?
È necessario conoscere il proprio target in modo da poter elaborare una strategia di eSport marketing mirata. Fin qui, niente di nuovo sul fronte occidentale.
Ma è bene fare attenzione. Proprio come gli sport tradizionali, gli eSport sono classificati in diversi generi e categorie. Così come accade per il marketing tradizionale, ciò che deve comprendere un’azienda è dove si trova il pubblico di destinazione affinché una campagna sponsorizzata sia davvero efficace.
Iniziamo dalle principali tipologie di tornei eSport:
Player contro player (PVP)
Real time strategy (RTS)
Sparatutto in prima persona (FPS)
Arena online per battaglie multiplayer (MOBA)
Giochi di ruolo online multiplayer di massa (MMORPG)
L’obiettivo è quello di conoscere il pubblico di destinazione (quali tornei frequentano, quali giochi apprezzano di più e quali player i influencer preferiscono) così da creare contenuti che li possa attirare.
Dopo aver identificato il pubblico, un brand deve esplorare le piattaforme virtuali in cui questo ama trascorrere la maggior parte del tempo. Sono informazioni fondamentali perché aiutano a capire dove pubblicare i contenuti di marketing per raggiungere efficacemente il target. I primi passi da compiere sono quelli di fare una ricerca sui principali siti di streaming di eSport.
Esistono diverse piattaforme dedicate:
Twitch
Hitbox
Azubu
YouTube Gaming
Bigo Live
Gosu Gamers
Facebook Gaming
Si può partire confrontando i piani di abbonamento e il conteggio degli utenti iscritti su queste piattaforme. Meglio scegliere quelle in cui il target desiderato è più attivo e dove i competitor non sono ancora arrivati. È inoltre necessario controllare le recensioni che gli utenti rilasciano su questi siti.
Poter controllare o stimare il conteggio degli utenti medi in live, i piani di abbonamento al canale e informarsi sull’opinione generale degli utenti, permette di determinare l’efficacia della piattaforma come strumento di marketing. Come detto, un occhio rivolto alla concorrenza non è mai troppo: scegliere come target le piattaforme in cui i competitor sono (o non sono) presenti può rivelarsi un’azione decisiva per le perfomance di una strategia di eSport Marketing.
Allinea il Content Marketing all’eSport Marketing
Content is king vale anche per l’eSport Marketing.
Una buona campagna prevede la creazione di contenuti a supporto della presenza del brand nelle arene virtuali. Appassionati e follower dovranno sapere che il brand ha deciso di esporsi e presidiare determinati tornei o eventi di gaming competitivo. Video promozionali di lancio dell’evento e contenuti ad hoc, aiuteranno a spingere la campagna ed ingaggiare anche quelle fasce di utenti indecisi o inconsapevoli.
Quando si progettano contenuti per l’eSport Marketing, è bene che siano relativi e pertinenti al contesto in cui dovranno essere condivisi. Il focus deve sempre essere rivolto al target finale: le persone a cui ci si rivolge devono essere veri appassionati che possono apprezzare, commentare e condividere i tuoi post o i tuoi video con il loro network.
In questo modo la visibilità del brand può ricevere un boost iniziale e un numero più elevato di utenti saranno consapevoli della campagna di marketing e dell’azienda che la supporta.
eSport Influencer: le nuove celebrità del marketing
Gli influencer possono senz’altro contribuire a migliorare la portata e la penetrazione delle attività sponsorizzate e delle campagne di eSport marketing di un’azienda. Una efficace collaborazione con un player professionista che lavora quotidianamente nel mondo degli eSport può migliorare la visibilità dei contenuti del brand.
L’azienda ha la possibilità di mostrare ai follower dell’influencer, annunci brandizzati, contenuti che raccontano il marchio e live chat in cui viene messo in risalto un prodotto o un servizio specifici. Lo scopo è quello di creare esperienze uniche, dedicate alla propria fanbase in collaborazione con un’azienda. Basta trovare l’influencer adatto, che riesce a coinvolgere lo stesso pubblico target a cui l’azienda è interessata.
Come cercare un influencer nel mondo degli eSport?
Esistono molti strumenti di influencer marketing che possono aiutare a restringere il campo di ricerca, identificando i player con le giuste caratteristiche di popolarità e seguito. Una prima perlustrazione delle piattaforme può dare l’idea di quali siano i profili che ricevono maggior seguito e si adattano meglio a determinate categorie merceologiche. In alcuni casi, è possibile rivolgersi ad agenzie specializzate nel recruiting e nel mettere in contatto player e stakeholder del mercato. In Italia, una di queste è l’Osservatorio Italiano eSport.
Le collaborazioni tra corporate e player professionisti è all’ordine del giorno.
Nel 2019 Tyler “Ninja” Blevins, lo streamer da 10 milioni di dollari di fatturato, ha sottoscritto un accordo di sponsorizzazione pluriennale con Adidas.
Michael Grzesiek, meglio conosciuto dalla community geek come Shroud, altro player professionista balzato agli onori della cronoca su Twitch e YouTube, ha collaborato con il fashion brand J!NX per promuovere una serie di capi d’abbigliamento per ragazzi personalizzato con grafiche e stili totalmente dedicati all’universo eSport.
Word on the street is that we have NEW @Shroud shirts available NOW. These will sell out, so get them while they last. Mix and match any 3 Shroud and J!NX Brand items and your order ships free. #shroud#jinxbrand#PUBG#getrekt
I player professionisti che popolano i tornei di eSport, spesso raccolgono sui loro profili social più fan di Chiara Ferragni, Cristiano Ronaldo e Ariana Grande.
Per raggiungere la massima copertura mediatica, un brand può sfruttare la popolarità degli streamer e dei tornei di eSport di alto profilo. Pensare di sponsorizzare un evento di gaming tournament non è un’ipotesi così remota da considerare. La sponsorizzazione di un evento eSport espone l’azienda alla visibilità di una fanbase considerevole e sicuramente interessata all’evento organizzato.
Ciò permette di costruire una certa credibilità sulla piattaforma, che farà guadagnare più spettatori e rafforzare la brand awareness.
Il consiglio è quello di iniziare da un piccolo evento se l’azienda non è ancora ben conosciuta nel mondo degli eSport, tanto per prendere dimestichezza con il pubblico e gli attori in gioco. Prendere contatti con realtà locali come pub e sale giochi, può essere un ottimo metodo per coinvolgere il pubblico offline e, allo stesso tempo, trovare brand e aziende interessate a co-sponsorizzare l’evento.
In genere questo è il primo passo per sviluppare relazioni durature con attori chiave del settore come streamer di videogiochi, importanti eSport team, organizzatori e altre aziende affini.
Se hai già deciso di puntare in alto, queste sono le leghe attualmente più importanti al mondo:
LEC, campionato europeo di League of Legends
LCS, campionato Nord Americano di League of Legends
LPL, il campionato professionistico cinese di League of Legends
Overwatch League, il campionato professionistico di Overwatch
KPL, il campionato professionistico cinese di Arena of Valor (Honor of Kings nel resto del mondo), un MOBA sviluppato da Tencent e disponibile su Android, iOS e Nintendo Switch.
Un team aziendale di eSport: meglio del calcetto del giovedì
Lancia il tuo brand nel mondo dei videogames con un vero tocco di stile: metti in piedi la tua squadra di eSport aziendale. A pensarci, è molto meno pericoloso del calcetto aziendale! Molti dipendenti eviteranno di andare al pronto soccorso a fine partita. Fondare un team di eSport non è poi così costoso come la maggior parte dei manager e dei responsabili aziendali pensa.
Per mettere in piedi un eSport Team da zero si può iniziare inscrivendosi a Twitch e selezionando, come farebbe un Commissario Tecnico, i dipendenti o i colleghi più in gamba quando si tratta di mettere mano al joystick. In alternativa, è possibile assoldare gameplayer professionisti come se fosse un’asta di calciomercato. Pubblicando una serie di annunci ben ideati sul sito web e sugli account social del brand, ci si mette alla ricerca di giovani promesse dell’eSport (oltre che attirare l’attenzione di Z Gen e Millennial sull’azienda).
Non è possibile trovare dei gamer professionisti che vogliono prendere parte al progetto? Valuta l’affiliazione a team di eSport che sono già alla ricerca di sponsorizzazioni.
Il vantaggio principale è che quando il team trasmette in streaming il proprio gameplay, il brand acquisisce in automatico posizionamento e visibilità nelle dirette live o nei video associati all’evento.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/04/joystick.jpg8081445Nicola Onidahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNicola Onida2021-05-20 15:50:092021-05-21 13:21:31eSport Marketing: 5 cose da sapere prima di iniziare
Le organizzazioni di tutto il mondo sono all’opera per limitare il consumo di fonti di energia non rinnovabili e ridurre le emissioni di carbonio nell’atmosfera.
L’Unione Europea, ad esempio, ha pianificato di ridurre le emissioni di almeno il 40% entro il 2030, come parte degli obiettivi stabiliti nell’accordo di Parigi.
Sono diverse le iniziative messe in atto per raggiungere questo non semplicissimo traguardo, come la revisione dei sistema di scambio di quote sulle emissioni dell’UE, ma sono previste anche normative più specifiche in materia di energie rinnovabili.
Naturalmente, alcune attività e servizi che consideriamo essenziali, vengono svolti in deroga a questo principio generale e alle normative, in nome della loro utilità all’interno della società. Pensiamo, ad esempio, ai trasporti sia di beni che di persone.
Per quanto il settore sia spinto da una ventata di rinnovamento verso una transizione energetica più oculata, sembra ancora difficile immaginare grandi aerei di linea ed enormi navi porta container alimentati da combustibile di natura non fossile.
Quando però si parla di Bitcoin, ma di criptovalute in generale, la percezione tende a cambiare. Man mano che le monete digitali sono cresciute per importanza e diffusione, il consumo di energia legato al mining e alle transazioni è diventato un argomento centrale della discussione.
Secondo il Cambridge Center for Alternative Finance (CCAF), Bitcoin attualmente consuma circa 110 Terawattora all’anno, circa lo 0,55% della produzione globale di elettricità, o più o meno equivalente al consumo annuale di energia di piccoli paesi come la Malesia o la Svezia.
Si tratta, sicuramente, di un sacco di energia e nasce spontaneo chiedersi: a che quantità ammonta la “giusta energia” da dedicare a un sistema monetario di questo tipo che, nonostante la crescente importanza e l’attenzione che anche la finanza tradizionale sta dedicando al fenomeno, non è, in termini pratici, vitale per la sopravvivenza umana?
La risposta dipende in gran parte dalla considerazione che abbiamo di Bitcoin e da quanto siamo informati sul funzionamento di tale sistema: se siamo convinti che le cripto valute non siano di alcuna utilità e servano solo al funzionare come un gigantesco schema Ponzi o fungano da escamotage per il riciclaggio di denaro e altre operazioni poco lecite, risulta chiaro che qualsiasi quantità di energia adoperata dal sistema sia uno spreco evitabile.
Se però, come altre decine di milioni di persone in tutto il mondo, riteniamo la finanza decentralizzata un modo per sfuggire alla repressione monetaria, all’inflazione e al controllo dei capitali, molto probabilmente siamo convinti che le risorse energetiche impiegata siano estremamente ben spese.
Quello che è certo è che, per formarci un’opinione corretta e arrivare a una conclusione imparziale, dovremmo capire esattamente come Bitcoin consuma energia, fare alcune precisazioni e sfatare alcuni luoghi comuni.
Il consumo di energia non è equivalente alle emissioni di carbonio
Partiamo con una precisazione importante: consumo di energia non è sinonimo di inquinamento. C’è un’importante distinzione tra quanta energia consuma un sistema e quanto inquina.
Infatti, mentre determinare il consumo di energia è relativamente semplice, non è possibile estrapolare un dato sulle emissioni di carbonio associate senza conoscere il preciso mix energetico, cioè la composizione delle diverse fonti di energia utilizzate dai computer che estraggono Bitcoin. Per fare un esempio abbastanza immediato, un’unità di energia idroelettrica avrà molto meno impatto ambientale della stessa unità di energia alimentata a carbone.
Il consumo di energia di Bitcoin è relativamente facile da stimare: si può semplicemente considerare il suo hashrate (cioè la potenza di calcolo totale combinata usata per estrarre Bitcoin e processare le transazioni) e fare qualche ipotesi sui requisiti energetici dell’hardware che i miner usano. Ma le emissioni di carbonio sono molto più difficili da accertare, per diversi motivi: il mining è un business intensamente competitivo, e i minatori tendono a non essere particolarmente disponibili sui dettagli delle loro operazioni.
Le migliori stime in merito provengono dal Cambridge Center for Alternative Finance, che ha lavorato con i principali pool minerari per mettere insieme un set di dati anonimizzato delle sedi dei miners.
Sulla base di questi dati, il CCAF può presumere quali siano le fonti di energia che i minatori usano per Paese, e in alcuni casi, per provincia. Il loro set di dati, però, non include tutti i pool di miners, né è puntualmente aggiornato, lasciandoci ancora all’oscuro dell’effettivo mix energetico di Bitcoin.
Inoltre, molte analisi di alto profilo generalizzano il mix energetico a livello di Paese, portando a un ritratto impreciso di grandi luoghi come la Cina, ad esempio, che ha un panorama energetico estremamente diversificato.
Di conseguenza, le stime su quale percentuale del mining di Bitcoin utilizzi energia rinnovabile variano ampiamente. Nel dicembre 2019, un rapporto ha suggerito che il 73% del consumo di energia di Bitcoin era neutro in termini di carbonio, in gran parte a causa dell’abbondanza di energia idroelettrica nei principali hub di estrazione come la Cina sud-occidentale e la Scandinavia.
D’altra parte, il CCAF ha stimato nel settembre 2020 che la cifra sarebbe più vicina al 39%.
Anche se questo numero più basso fosse corretto, si tratta ancora di quasi il doppio di quanta energia rinnovabile utilizzi la rete statunitense, suggerendo che guardare solo al consumo di energia è difficilmente un metodo affidabile per determinare le emissioni di carbonio di Bitcoin e altre criptovalute.
Bitcoin può usare tipi di energia che altre industrie non possono utilizzare
Un altro fattore chiave che rende il consumo energetico di Bitcoin diverso da quello della maggior parte delle altre industrie è che Bitcoin può essere estratto ovunque.
Quasi tutta l’energia usata nel mondo deve essere prodotta relativamente vicino ai suoi utenti finali. Il mining non ha questa limitazione: permette infatti ai minatori di utilizzare fonti di energia che sono inaccessibili per la maggior parte delle altre applicazioni.
L’idroelettrico è l’esempio più noto.
Nella stagione umida, in Sichuan e Yunnan, in Cina, enormi quantità di energia idroelettrica rinnovabile vengono sprecate ogni anno.
In queste zone, la capacità di produzione supera di gran lunga la domanda locale e la tecnologia delle batterie è ben lontana dall’essere abbastanza avanzata da rendere conveniente immagazzinare e trasportare l’energia, da queste regioni rurali, ai centri urbani che ne hanno più bisogno.
Queste regioni rappresentano, molto probabilmente, la più grande risorsa energetica potenziale del pianeta, e come tale non è una coincidenza che queste province siano il cuore dell’estrazione mineraria in Cina, responsabile di quasi il 10% dell’estrazione globale di Bitcoin nella stagione secca e del 50% nella stagione umida.
Un’altra strada promettente per l’estrazione a zero emissioni è il gas naturale.
Il processo di estrazione del petrolio, oggi, rilascia una quantità significativa di gas naturale come sottoprodotto: energia che inquina l’ambiente senza mai arrivare alla rete.
Dal momento che è vincolato alla posizione di remoti giacimenti petroliferi, la maggior parte delle applicazioni tradizionali sono state storicamente incapaci di sfruttare efficacemente questa energia.
Ma i minatori di Bitcoin, dal Nord Dakota alla Siberia, hanno colto l’opportunità di monetizzare questa risorsa altrimenti sprecata, e alcune aziende stanno anche esplorando modi per ridurre ulteriormente le emissioni bruciando il gas in modo più controllato. I calcoli a ritroso, suggeriscono che ci sarebbe abbastanza gas naturale bruciato solo negli Stati Uniti e in Canada per far funzionare l’intera rete Bitcoin.
Ad essere onesti, la monetizzazione del gas naturale in eccesso con Bitcoin crea ancora emissioni, e alcuni hanno sostenuto che la pratica agisce invece come un sussidio all’industria dei combustibili fossili, incentivando le aziende energetiche a investire di più nell’estrazione del petrolio di quanto accadrebbe altrimenti. Ma il flusso di denaro che possono garantire i miner di Bitcoin è una goccia nel mare rispetto alla domanda di altre industrie che dipendono dai combustibili fossili, e questa domanda esterna è improbabile che scompaia presto.
Considerata però la realtà dei fatti, cioè che il petrolio continuerà a essere estratto per il prossimo futuro, sfruttare un sottoprodotto naturale del processo (e potenzialmente anche ridurre il suo impatto ambientale) è un fattore comunque nettamente positivo.
Altre fonti energetiche che possono essere sfruttate da Bitcoin
È interessante notare che l’industria che si occupa della fusione dell’alluminio offre un parallelo sorprendentemente rilevante.
Il processo di trasformazione del minerale naturale di bauxite in alluminio utilizzabile è altamente energetico e i costi di trasporto dell’alluminio spesso non sono proibitivi, quindi molte nazioni con un surplus di energia hanno costruito fonderie per sfruttare le loro risorse in eccesso.
Regioni con la capacità di produrre più energia di quella che potrebbe essere consumata localmente, come l’Islanda, il Sichuan e lo Yunnan, sono diventate esportatrici nette di energia proprio grazie alla produzione di alluminio.
Oggi, le stesse condizioni che hanno incentivato quegli investimenti hanno reso queste località opzioni primarie per l’estrazione di Bitcoin. Ci sono anche un certo numero di ex fonderie di alluminio, come l’impianto idro Alcoa di Massena, NY, che sono state direttamente riconvertite in miniere di Bitcoin.
Estrarre Bitcoin consuma molta più energia che usarlo
Il modo in cui l’energia viene prodotta è solo un pezzo dell’equazione. L’altro aspetto su cui circolano informazioni poco precise o fondamentalmente errate è il modo in cui l’esistenza dei Bitcoin consuma effettivamente energia e i cambiamenti che possiamo prevedere nel tempo.
Da molte voci si sente parlare dell’alto “costo energetico per transazione” di Bitcoin, ma questa metrica è fuorviante. La maggior parte del consumo energetico di Bitcoin avviene durante il processo di estrazione. Una volta che le monete sono state emesse, l’energia richiesta per convalidare le transazioni è minima.
Stimare il consumo totale di energia di Bitcoin fino e dividerlo per il numero di transazioni non ha senso: la maggior parte di quell’energia è stata utilizzata per estrarre i Bitcoin, non per supportare le transazioni. E questo ci porta all’ultimo malinteso critico: che i costi energetici associati all’estrazione di Bitcoin continueranno a crescere esponenzialmente.
Una crescita incontrollata è improbabile
Poiché l’impronta energetica di Bitcoin è cresciuta così rapidamente, la preoccupazione principale è che, con una rapida diffusione, il consumo e l’impatto ambientale possano aumentare considerevolmente.
Questa era infatti la premessa di uno studio del 2018, ampiamente riportato e recentemente citato dal New York Times, secondo il quale il sistema Bitcoin potrebbe causare il riscaldamento del Pianeta di ben due gradi Celsius. Ci sono buone ragioni per credere che questo non accadrà.
In primo luogo, come è diventato comune in molte industrie, il mix energetico di Bitcoin diventa meno dipendente dal carbonio ogni anno.
Negli Stati Uniti, i miner sempre più focalizzati sull’ESG (Environmental – Social – Governance) hanno guadagnato quote di mercato e la Cina ha recentemente vietato l’estrazione a base di carbone nella Mongolia Interna, una delle più grandi regioni ancora ricche di carbone.
Allo stesso tempo, molte organizzazioni all’interno dell’industria mineraria hanno lanciato iniziative come il Crypto Climate Accord, ispirato all’accordo sul clima di Parigi, per sostenere e impegnarsi a ridurre l’impronta di carbonio di Bitcoin.
Inoltre, dato che le opzioni rinnovabili come l’energia solare diventano più efficienti e, di conseguenza, più accessibili per il mining, Bitcoin potrebbe trasformarsi in un serio incentivo a costruire queste tecnologie.
Inoltre, è improbabile che i minatori continuino a espandere le loro operazioni di estrazione ai tassi attuali, a tempo indeterminato. Il protocollo Bitcoin sovvenziona il mining, ma questi sussidi hanno dei controlli incorporati sulla loro crescita. Oggi, i minatori ricevono piccole commissioni per le transazioni che verificano durante il mining (che rappresentano circa il 10% delle entrate) e i margini di profitto non sono più così interessanti.
A questo si aggiunge il fatto che il protocollo è costruito per dimezzare la componente di emissione delle entrate dei minatori ogni quattro anni.
Così, a meno che il prezzo del Bitcoin raddoppi ogni quattro anni in perpetuo (cosa che l’economia suggerisce essere essenzialmente impossibile per qualsiasi valuta), quella quota di entrate dei minatori. alla fine. decadrà a zero.
Per quanto riguarda le commissioni di transazione, i vincoli naturali di Bitcoin sul numero di transazioni (meno di un milione al giorno) combinati con la scarsa tolleranza delle persone per il pagamento di commissioni, limitano il potenziale di crescita di questa attività come fonte di reddito.
Possiamo aspettarci che alcuni miners continuino ad operare a prescindere, in cambio delle sole commissioni di transazione (e in effetti, la rete dipende da questo per continuare a funzionare) ma se i margini di profitto diminuiscono, l’incentivo finanziario ad investire nel mining diminuirà naturalmente.
Il dietro-front di Elon Musk
Il technoking di Tesla, Elon Musk, è stato per molto tempo un accanito sostenitore di Bitcoin, sottilineando a più riprese l’aspetto innovativo delle cripto valute e la loro importanza nelle transazioni economiche.
Era riuscito spesso, con poche parole in diversi tweet, a condizionare lo scambio della moneta e di tutto il settore crypto sostenendo questa o quella criptovaluta. Naturalmente, la più famosa tra queste, Bitcoin appunto, ne aveva beneficiato molto più di altre, raggiungendo un picco di oltre 60.000 dollari a marzo. La moneta ha sempre vissuto condizionata da un’alta volatilità e le dichiarazioni di personaggi influenti sono sempre state in grado di condizionarne l’andamento.
Ora però, sembra aver cambiato rotta, almeno per quanto riguarda Bitcoin, convinto proprio dall’eccessivo consumo energetico che il mining della moneta in questione comporterebbe.
Nel mese di febbraio aveva suscitato molto scalpore la mossa dell’azienda di auto elettriche di acquistare l’equivalente di circa 1,5 miliardi di dollari in Bitcoin.
All’annuncio, era poco dopo seguita la dichiarazione a detta della quale, Tesla avrebbe permesso di comprare i suoi veicoli in Bitcoin, o altre valute digitali, accumulandoli in un tesoretto da non convertire in valuta FIAT.
Ora il passo indietro: Tesla non accetterà più pagamenti in Bitcoin.
Come prevedibile, l’annuncio ha provocato un terremoto: prima dell’annuncio, il valore di Bitcoin era di 54.700 dollari. Ha poi iniziato a precipitare, condizionato anche dai rumors provenienti dalla Cina per sprofondare, al momento in cui scriviamo, intorno ai 30.000 dollari. La caduta ha trascinato con sé tutte le sorelle minori
Conclusioni
Ci sono innumerevoli fattori che possono influenzare l’impatto ambientale di Bitcoin, ma alla base, la questione riguarda la domanda iniziale: ne vale la pena?
È importante comprendere che le preoccupazioni ambientali sono importantissime ma devono essere giustamente indirizzate. Quelle che riguardano Bitcoin sono spesso fondate su una cattiva comprensione del funzionamento dell’intero protocollo.
Ciò significa che quando chiediamo: “Bitcoin vale il suo impatto ambientale”, l’effettivo impatto negativo di cui stiamo parlando è probabilmente molto meno allarmante di quanto si possa pensare. Ma non si può negare che Bitcoin consumi risorse.
Come per ogni altra industria che consuma energia, è compito della comunità riconoscere e affrontare queste preoccupazioni ambientali, lavorare in buona fede per ridurre l’impronta di carbonio del Bitcoin, e infine dimostrare che il valore sociale che il Bitcoin fornisce, vale le risorse necessarie per sostenerlo.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/inquinamento-da-bitcoin.jpg8111462Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-05-20 12:13:122021-05-23 14:45:45Quanto consuma (e quanto inquina) davvero Bitcoin
Quanti sono i fan di eSport in Italia? Sfatiamo subito un mito: non è un’attività solo per ragazzini e non è limitata a una ristretta cerchia di persone.
Gli appassionati di eSport italiani sono 6 milioni, ossia il 12% della popolazione maggiorenne. Sono dati scaturiti dalla ricerca “Gaming ed eSport in Italia” realizzata da Yougov per i membri dell’Osservatorio Italiano eSport (OIES), e che fanno dell’Italia il secondo Paese in Europa per “fanbase eSportiva”.
Il report, che per la prima volta censisce il target eSportivo italiano, porta alla luce dati che ridisegnano lo stereotipo del gaming e traccia una fotografia puntuale della sua composizione. La ricerca fa parte del Centro Studi Nazionale eSports dell’OIES, che è il primo database di dati su questo settore in Italia.
Innazitutto il genere. L’eSport in Italia è un fenomeno che sta interessando sempre di più le donne. Infatti il, 37% del target degli appassionati è femminile, percentuale sempre più in crescita.
Poi l’età. L’eSport non è un mondo prettamente destinato alla generazione Z, ma è trasversale su tutte le generazioni. Tra coloro che si dichiarano anche giocatori, troviamo sicuramente una preponderanza nella fascia 18-24 anni. Si registrano però valori sopra la media anche in quella 25-34, fino a punte di giocatori al di sopra dei 55 anni. Questo dimostra come il gaming sia un’attività capillare nella popolazione italiana, e non legata a un solo target.
Gli italiani dimostrano inoltre una rilevante inclinazione verso il consumo di contenuti video di gaming su varie piattaforme streaming: in Europa siamo al primo posto per utilizzo di YouTube Gaming e godiamo invece del terzo gradino in riferimento a Twitch e Facebook Gaming.
In Italia gli appassionati di gaming si dividono in due principali categorie, ciascuna delle quali con delle peculiarità che rivelano abitudini e comportamenti eterogenei.
Stiamo parlando degli Hardcore gamers, giocatori abituali attivi sotto l’aspetto competitivo, e degli eSport fan, appassionati che non necessariamente sperimentano gli aspetti competitivi, ma fruiscono degli eSport principalmente come intrattenimento.
Gli Hardcore gamers: quando il gioco diventa uno stile di vita
Il 2,7% degli italiani maggiorenni appartiene al gruppo degli Hardcore gamers (HC gamers), ovvero coloro che dedicano più di 21 ore alla settimana al gioco e non solo. Infatti, si registra un alto consumo mediale: una buona parte degli intervistati dichiara di spendere settimanalmente più di 50 ore sul web (19%) e più di 20 ore di fronte alla TV (40%).
Facciamo riferimento a un insieme di 1,38 milioni di italiani per lo più giovani, di cui ben il 39% è donna. Un dato da non trascurare è che il 45% di essi vive in famiglie dal reddito medio basso. Sono giovani che dichiarano di sentirsi spesso annoiati (49%), di non temere il rischio (42%), e soprattutto di desiderare di aprire una propria attività (49%).
Si tratta di un target che attribuisce importanza all’informazione tempestiva, aggiornandosi quotidianamente attraverso blog e riviste stampate, principalmente a tema sportivo.
A proposito di sport, gli HC gamer sono amanti di quelli tradizionali, tant’è vero che, rispetto a tutta la popolazione, seguono anche discipline come boxe, football americano, arti marziali e l’immancabile calcio.
Gli eSport fan: la passione che genera peculiari abitudini e comportamenti
La seconda categoria di target eSportivo fa invece riferimento agli eSport fan, che appunto sono 6 milioni. Il 37% è di sesso femminile: un dato importante nel ribadire che gli eSport stimolano nuove prospettive per intercettare anche il genere femminile.
Gli eSport fan che, pur non manifestando un’abitudine di gioco ordinaria, sostengono che la professione di atleta professionista sarebbe il miglior mestiere del mondo (41%).
Una passione che definisce abitudini e comportamenti di vita peculiari: il 41% dichiara di avere molto tempo libero. Nel consumo dei social media scompare Facebook: i social più utilizzato sono Instagram, Twitter e Tik Tok. A livello di intrattenimento usufruiscono principalmente di servizi streaming in abbonamento.
Gli eSport fan tendono inoltre ad acquistare spesso cibo da asporto e a consumare snack o merendine tra i pasti. Una consuetudine che può giustificare una buona propensione all’acquisto verso marchi come McDonald’s, Burger King, Old Wild West e Deliveroo.
Un’ottima inclinazione è evidente anche quando si parla di advertising che apparentemente non li infastidisce ma al contrario funge da driver nelle scelte di acquisto di circa il 61% degli eSport fan. Difatti, circa metà di loro dichiara di essere attento alle pubblicità online e sulle riviste che legge.
Ecco che sia gli Hardcore gamers che gli eSport fan dimostrano una forte attrazione verso gli sport tradizionali. Anche in questo caso, a suscitare interesse non sono solo il calcio e il basket ma anche discipline di nicchia come Formula E (22%), wrestling (11%) e rugby (18%).
Da questi dati emerge quanto gli eSport non siano relegati alla modalità competitiva, ma quanto stiano assumendo sempre più un valore di intrattenimento. È proprio in questo senso che gli eSport diventano un canale di comunicazione e marketing per i brand che vogliono intercettare quel pubblico di giovani adulti che non fruisce dei media tradizionali.
È un target nuovo, che contrasta con le abitudini di altre tipologie di pubblico, che apprezza la pubblicità e non è infastidito.
Proprio per questo motivo, gli eSport rappresentano oggi la nuova frontiera del marketing per le aziende.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/eSport.jpg8121449Luigi Caputohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngLuigi Caputo2021-05-19 11:14:092021-05-19 13:21:066 milioni di italiani amano gli eSport: una grande opportunità per i brand
Abbiamo intervistato Giovanni Rodia, Direttore della comunicazione dell’ICE, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, l’organismo attraverso cui il Governo favorisce il consolidamento e lo sviluppo economico-commerciale delle nostre imprese sui mercati esteri.
In che modo l’ICE supporta la digitalizzazione delle PMI italiane?
Le azioni di ICE per la digitalizzazione si inquadrano nella risposta alla pandemia e ai paradigmi della promozione commerciale che mutano di conseguenza.
Si focalizzano da un lato sugli accordi eCommerce con grandi marketplace; dall’altro, in una serie di servizi che possano accompagnare le imprese italiane nei loro processi di digitalizzazione. Sono 28 gli accordi B2C attualmente conclusi in 28 Paesi che insieme a un grande accordo B2B con Alibaba.com, che di Paesi ne copre 190, permetteranno a 7.000 imprese italiane, specialmente PMI, di vendere sul web in tutto il mondo.
A questo abbiamo dedicato un team di 30 esperti digitali interno all’ICE, ma anche dei percorsi di formazione per Digital Temporary Export Manager. Quest’anno ne formeremo in tutto 150. Abbiamo poi presentato insieme a MAECI e CRUI, in collaborazione con 5 delle più importanti Business School italiane, un ambizioso progetto di formazione gratuita per PMI e professionisti, la Smart Export Academy, che nei 6 moduli formativi affronta, tra gli altri, i temi relativi alla digitalizzazione e commercio online.
Pochi giorni fa c’è stata la conferenza stampa per il lancio del progetto madeinitaly.gov.it che vi ha visto coinvolti anche in formula 1 a Imola nel gran premio del Made in Italy e dell’Emilia Romagna, ci può dare qualche dettaglio in più?
Anche la comunicazione deve adattarsi al cambiamento. In un mondo sempre più complesso e interconnesso, le sinergie tra settori, territori, imprese e organizzazioni diventano un fattore competitivo di successo. I grandi eventi sportivi possono raccontare non solo l’evento in sé, ma anche il sistema economico e produttivo intorno a cui ruotano, il territorio su cui insistono.
Le eccellenze, l’innovazione, la sostenibilità, le tradizioni, la biodiversità che siamo in grado di esprime entrano così, di volta in volta, nelle case di tutto il mondo. Il progetto Motor Valley, realizzato con il MAECI e la Regione Emilia Romagna, lo ha fatto con Formula 1 e tornerà a farlo con la MotoGP, il Mondiale Superbike e il Motor Valley Fest.
Lo stesso stiamo facendo con il Giro d’Italia. Lo sport è inclusivo, aumenta la ricettività emotiva, stupisce. Esattamente come il Made in Italy nel mondo.
Qual è il principale freno alla digitalizzazione per le pmi?
Le nostre imprese pagano il conto di un gap tecnologico e di capitale umano accumulato negli anni. Al 2018, solo il 22,3% delle imprese utilizzavano tecnologie come il cloud e computing e solo il 7% i big data. Inoltre, anche le competenze digitali dei nostri professionisti sono rimaste indietro.
È per questo che come ICE investiamo molto in progetti formativi in ambito digitale, ma anche sulle nuove tecnologie, come la blockchain, che potranno aiutare le nostre imprese a colmare il ritardo degli ultimi anni. La pandemia ha dimostrato la grande capacità del nostro settore produttivo di accelerare e modificare processi e mezzi quando le circostanze lo richiedono.
Questa capacità è sicuramente la base di partenza che ci permetterà di cogliere i grandi vantaggi che deriveranno dalla transizione digitale prevista dal PNRR.
L’eccellenza manifatturiera italiana può fare da volano al rilancio dell’economia del Paese?
Assolutamente può e lo farà. Le nostre imprese sono particolarmente apprezzate all’estero per la loro eccellenza manifatturiera e tradizione artigiana che conferiscono loro una grande capacità di adattamento e flessibilità, rendendole capaci di offrire un servizio quasi su misura per ciascun cliente.
Inoltre, durante la pandemia abbiamo assistito a un aumento dell’export di prodotti intermedi, perché l’Italia è riuscita a sostituirsi ad altri Paesi storicamente esportatori che, non godendo della stessa flessibilità, hanno risentito maggiormente delle restrizioni derivanti dalla pandemia. Il 2021, secondo il nostro Rapporto ICE – Prometeia sulle prospettive dei mercati esteri, sarà l’anno della ripresa.
Se le nostre imprese sapranno conciliare la tradizione manifatturiera coi nuovi trend di mercato – digitale, innovazione, sostenibilità – potrebbero riportare l’export ai livelli pre-Covid già entro la fine dell’anno per i settori meno colpiti, entro il 2022 per quelli che hanno maggiormente risentito della crisi pandemica.
Quanto conta in questa operazione e che attenzione è riservata agli aspetti della sostenibilità e dell’economia circolare?
Sostenibilità e rispetto per l’ambiente sono fattori fondamentali che caratterizzeranno i mercati nel prossimo futuro. Attualmente l’industria italiana registra performance in questo settore migliori della media europea e addirittura, per la maggior parte dei comparti produttivi, al di sopra degli obiettivi dell’Unione.
Oggi, penso che il nostro primo compito sia saper comunicare questo aspetto, riportando la sostenibilità anche al suo ruolo di leva promozionale. Stiamo provando a farlo con il nostro portale www.madeinitaly.gov.it, ancora allo stato embrionale ma suscettibile di grande sviluppo.
Ma abbiamo allo studio anche diverse campagne di promozione mirate e saremo presenti a ExpoDubai, un grande palcoscenico per tutta l’eccellenza che come Paese siamo in grado di esprimere.
Considerare le difficoltà come sfide
Le eccellenze italiane investono settori diversissimi, dall’automotive all’arte passando per farmaceutica e agricoltura. Quali sono le difficoltà nel supportare un patrimonio così variegato?
Non mi piace parlare di difficoltà, ma di sfide. Promuovere le eccellenze dei diversi settori richiede una conoscenza approfondita delle loro dinamiche interne e dei mercati, per i quali possiamo contare su team specializzati e, soprattutto, sulla rete dei nostri 78 uffici all’estero.
Allo stesso tempo, sebbene ci troviamo ad affrontare spesso settori produttivi molto diversi fra loro, possiamo far leva su quei tanti punti in comune – fra tutti, qualità, flessibilità e artigianalità – che nel tempo hanno contribuito a costruire il brand Made in Italy oggi così apprezzato nel mondo.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/rodia.jpg8131467Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-05-18 11:30:382021-07-07 10:47:46Come rilanciare il Made in Italy nel mondo grazie a eCommerce e digitalizzazione
Si chiama “WorkingWell” ed è il nuovo piano di Amazon.com Inc. per ridurre gli infortuni sul lavoro e promuovere il benessere dei dipendenti all’interno del magazzino. L’idea si concentra su video per la sicurezza, esercizi di stretching sul luogo di lavoro e zone di meditazione dedicate al personale.
Un programma che arriva dopo le critiche fortissime sulle condizioni dei lavoratori nei vari depositi e i recenti scioperi mondiali indetti dai sindacati che hanno coinvolto l’intera filiera (dai magazzinieri ai corrieri), compresa l’Italia (dove hanno scioperato in 40mila in presidio) per ribadire il diritto alla contrattazione salariale, con stipendi e carichi lavorativi adeguati.
La fase di test in 350 siti in Nord America ed Europa
La società, attraverso WorkingWell, mira a formare i suoi dipendenti su come evitare infortuni sul lavoro e migliorare la salute mentale in ambiente lavorativo, testando il programma in 350 siti in Nord America ed Europa, con la previsione di estenderlo a 1.000 strutture entro la fine dell’anno, secondo quanto affermato da Heather MacDougall, vicepresidente per la salute e la sicurezza sul lavoro a livello mondiale presso Amazon, come riporta il Wall Street Journal.
Amazon si propone, così, di dimezzare gli incidenti entro il 2025. Nel 2019, infatti, l’azienda ha registrato 5,6 infortuni ogni 100 lavoratori, contro la media nazionale di 4,8 per il settore dello stoccaggio, in base a quanto emerge dai dati federali, anche se Amazon replica di monitorare gli infortuni sul lavoro più da vicino rispetto ad altre società, il che potrebbe far aumentare il numero di segnalazioni.
Lo stesso Jeff Bezos, dopo la forte spinta dei sindacati nei magazzini dell’Alabama, aveva evidenziato la necessità di garantire condizioni di lavoro migliori.
Amazon impiega circa 950.000 dipendenti negli Stati Uniti: sulla spinta della frequenza di infortuni nel settore dello stoccaggio e della pandemia, che ha accresciuto la consapevolezza delle esigenze sanitarie, in un’intervista l’azienda si è dichiarata “particolarmente preoccupata per i disturbi muscoloscheletrici“, che rappresentano il 40% degli infortuni sul lavoro nelle strutture del rivenditore.
Nell’ambito del programma WorkingWell, i dipendenti si riuniscono a rotazione per guardare video sulla prevenzione degli infortuni, una sorta di guida visiva su come sollevare correttamente gli oggetti. A seconda dei loro ruoli, ricevono anche suggerimenti orari per esercizi di stretching e respirazione. Amazon, che utilizza strumenti per monitorare la produttività dei lavoratori, ha affermato che le pause degli esercizi suggerite possono durare da 30 secondi a un minuto ciascuna.
L’azienda sta anche installando chioschi dove i dipendenti possono guardare video che mostrano meditazioni guidate, immagini e suoni rilassanti. Le nuove zone benessere offrono spazi dedicati per meditare. Inoltre Amazon starebbe valutando un’app mobile che consentirebbe ai dipendenti di visualizzare strumenti educativi simili a casa, oltre a programmi di gestione interna del lavoro che prevedono la rotazione tra lavori che utilizzano diversi gruppi muscolari per ridurre gli infortuni da stress ripetitivo.
Promozione del benessere, ma nessuna riduzione di carichi lavorativi
Nessuna diminuzione, però dei carichi lavorativi, che hanno provocato proteste e scioperi. Ritmi lavorativi imposti su parametri di riferimento realizzabili, secondo MacDougall: “Quando stabiliamo le tariffe, queste si basano sulla considerazione di una serie di fattori che garantiranno ai nostri dipendenti di svolgere il lavoro in sicurezza”.
La riduzione di strumenti educativi nei luoghi di lavoro non sarebbe però sufficiente a ridurre gli infortuni, secondo Jack Dennerlein, professore presso la Northeastern University, sottolineando l’impatto maggiore di strumentazioni tecnologiche e ascensori meccanici negli ambienti lavorativi. “Si dovrebbe adattare il lavoro all’umano, non l’umano al lavoro“, evidenzia il professore.
Gli scioperi e le recenti mobilitazioni per condizioni di lavoro più dignitose
Amazon ha dichiarato di aver investito più di 300 milioni di dollari in progetti di sicurezza nel 2021. In molti Paesi i dipendenti hanno scioperato contro quelle che sono state definite condizioni di lavoro non sicure contro la diffusione del Covid, come è accaduto in Amazzonia.
Mobilitazioni, scioperi, ma anche votazioni per la creazione di un sindacato nel magazzino dell’Alabama. Nelle scorse settimane, in Italia, ha raggiunto un’adesione del 75%, con punte del 90% secondo i sindacati Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti lo sciopero Amazon in Italia.
Di recente, inoltre, dopo aver sempre negato, l’azienda ha dovuto ammettere che i dipendenti fossero costretti a fare pipì nelle bottiglie per non ritardare le consegne. Una “pratica” che aveva puntato i media su Amazon, e, secondo i dipendenti, ben nota ai dirigenti.
“Sappiamo che i nostri autisti possono avere e hanno problemi a trovare i bagni a causa del traffico o perché percorrono strade fuorimano – aveva sottolineato la società – questo è stato particolarmente frequente durante la pandemia di Covid, quando molti bagni pubblici erano chiusi”.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/amazon_barbara.jpg10801920Barbara Landihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngBarbara Landi2021-05-17 17:13:452021-05-17 17:20:10Amazon: stretching, meditazione e video tutorial
SoftScience. 17 goal in 17 luoghi di Roma per la sua seconda edizione si svolgerà dal 17 al 23 maggio 2021, conil patrocinio di ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) e la collaborazione dell’Università di Roma-Sapienza ( il Corso di formazione interdisciplinare in Scienze della sostenibilità), la Comunità Educante Diffusa del VII Municipio di Roma, Caritas, ItaliaSmartCommunity e tanti altri, per misurarsi con i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Attraverso il format dei walkabout-esplorazioni partecipate radionomadi condotti da Carlo Infante si andranno ad interpretare i 17 obiettivi dell’Agenda 2030, incontrando i vari protagonisti che affrontano questa scommessa evolutiva sul campo, esplorando e conversando con loro nei centri di ricerca e in giro per la città, individuando percorsi urbani da tematizzare con precisa pertinenza.
I walkabout sono conversazioni erranti, caratterizzate dall’ausilio di smartphone e cuffie collegate ad una radioricevente (whisper radio), e permettono di ascoltare le voci dei partecipanti che oltre ad esplorare luoghi, scandagliano temi, attraversano eventi, esposizioni e situazioni, liberando un’energia congeniale, ludico-educativa e fondamentalmente partecipativa.
L’evoluzione di questo format è nello streaming web-radio georeferenziato per cui la risultante dei walkabout una volta svolti è una “mappa parlante” nel web con la pubblicazione dei geo-podcast. 17 walkabout “accenderanno l’attenzione” dei cittadini coinvolti nell’attraversamento esplorativo di alcuni luoghi dello spazio urbano, declinandoli secondo i temi connessi ai 17 obiettivi: povertà; cibo; salute; educazione; donne; acqua pubblica; energia pulita; lavoro; innovazione digitale; diseguaglianza; smart community; economia circolare; emergenza climatica; mare; biodiversità; legalità; partnership.
Alcune esplorazioni individueranno luoghi particolari nella città, esplicitando il principio fondante della SoftScience: la “scienza soffice” riguarda la capacità di declinare il pensiero-azione scientifico nella sollecitazione consapevole e coinvolgente della società che s’interroga sui nuovi modelli di sviluppo possibile. Non meno della natura fisica, anche il sistema sociale è caratterizzato da comportamenti che la scienza può, e deve, analizzare nell’intento di delineare previsioni per un futuro sostenibile.
La realtà sociale di quest’ultimo secolo, in cui lo sviluppo scientifico e tecnologico (in particolar modo con il digitale) è diventato l’elemento cardine della trasformazione produttiva è quindi protagonista. La Società è sempre più un laboratorio in cui la Scienza, interagendo con cittadini-utenti consapevoli, deve riequilibrare tutti i processi nell’ottica dello Sviluppo Sostenibile, a partire da quel pensiero-azione che sottende la resilienza, concetto su cui oggi in troppi (che qualche anno fa ne ignoravano l’esistenza) si sperticano nel sottovalutare.
Le Nazioni Unite hanno lanciato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e i relativi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile che Urban Experience declinerà in una serie di esplorazioni senzienti nelle geografie romane. Coniugare storie e geografie è la nostra strategia culturale tesa ad esplicitare quanto tutto sia interconnesso, a partire dal fatto che trattare di teorie mentre si attraversano luoghi pertinenti ne amplifica il senso (sia delle teorie affrontate nelle conversazioni radiofoniche sia dei luoghi stessi, spesso ricchi di genius loci).
L’attuazione dell’Agenda richiede un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalla società civile alle istituzioni, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura e ciò comporta una migliore presenza di spirito che noi “addestriamo” con i nostri metodi di performing media storytelling.
Il processo di cambiamento del modello di sviluppo verrà elaborato attraverso il monitoraggio delsistemabasato su 17 Obiettivi, 169 Target e oltre 240 indicatori. Ed è proprio rispetto a tali parametri che nell’arco dello sviluppo triennale di #SoftScience rileveremo gli step evolutivi dello Sviluppo Sostenibile attraverso un sistema di Intelligenza Artificiale che abbiamo definito Nuvola 3.0 con cui monitoreremo le parole chiave emerse dalle conversazioni radionomadi secondo le modalità del sentiment analysis.
Parleremo dei 17 Goal in 17 luoghi: povertà con Caritasa Ponte Casilinoe alla Diocesi di Roma; diseguaglianza con il Festival delle Periferie a Tor Bella Monaca; cibo nel Mercato rionale di Testaccio; salute con ASL2 a Cinecittà; educazione con la Comunità Educante del Municipio VIIa Cinecittà; donne con Centro Antiviolenza a Villa Lazzaroni; acqua pubblica lungo il corso dell’Acquedotto Felice; legalità al Parco della Giustizia alla Romanina per la giornata della Legalità; partnership con Festival delle Periferie; innovazione digitale con Comunità Educante Diffusa sulle mappature web del Municipio VII; lavoro conil Corso di Scienze della Sostenibilità alla Sapienza ; energia pulita con il Corso di Scienze della Sostenibilità alla Sapienza; smart community con il Corso di Scienze della Sostenibilità alla Sapienza ; emergenza climaticacon il Corso di Scienze della Sostenibilità alla Sapienza; economia circolare con la Comunità Educante Diffusa alla scuola primaria Garibaldi; mare lungo il Tevere, la via d’acqua che conduce al mare, con gli studenti del Master internazionale sulla Complessità Urbana di Sapienza-Università di Roma; biodiversità tra oliveti e macchia mediterranea in una cava dietro l’Appia Antica. Con il progetto di intelligenza artificiale Nuvola 3.0 sarà realizzata una sentiment analysis dei 17.
Il partner principale è l’Università di Roma-Sapienza (con il Corso di Formazione interfacoltà in Scienze della Sostenibilità), altri partner ed enti che supportano: Earth Day Italia, ItaliaSmArtCommunity, ASVIS, Caritas, Diocesi di Roma, ARCI, Fondazione Raffaele Fabretti, Comitato di Quartiere Tuscolano, Roma Bpa – Mamma Roma e i suoi Figli Migliori, Comunità Educante Diffusa del VII Municipio Roma Capitale.
Il programma
Lunedì 17 maggio
ore 11, Cava Fabretti (accesso da Istituto Tor Carbone, Via Tor Carbone 53) walkabout su goal biodiversità con apicoltori urbani
ore 17, IC Ceneda (plesso “Garibaldi” via Mondovì 16) walkabout su goal economia circolare conAssociazione “Anita”, Comunità Educante Diffusa e Hearth Platform
Martedì 18 maggio
ore 10, Sapienza-Università di Roma (Ingegneria, Via Eudossiana 18) walkabout su goal smart community
ore 11 walkabout su goal emergenza climatica
ore 12 walkabout su goal lavoro
ore 13 walkabout su goal energia pulita conCorso di Formazione interfacoltà in Scienze della Sostenibilità e Hearth Platform
ore 16, Centro di salute mentale ASL2 (Piazza di Cinecittà 11) walkabout su goal salute con la Comunità Educante del Municipio VII
Mercoledì 19 maggio
ore 17, Casa di Accoglienza “Santa Giacinta” (via Casilina Vecchia 19), walkabout su goal povertà con Caritas e Diocesi di Roma
Giovedì 20 maggio
ore 11, Liceo Scientifico “Gullace” (Piazza dei Cavalieri del Lavoro, 18) walkabout su goal educazione con la Comunità Educante del Municipio VII
ore 15, Architettura-Sapienza Università di Roma (Piazza Borghese 9) walkabout su goal mare lungo il Tevere, la via d’acqua che conduce al mare, con gli studenti del Master internazionale sulla Complessità Urbana
Venerdì 21 maggio
ore 11, Parco degli Acquedotti (Via Lemonia 221) walkabout su goal acqua pubblica con Comunità Educante del VII Municipio, RetakeRoma
ore 16 Centro AntiViolenza (Villa Lazzaroni, Via Appia Nuova 522) walkabout su goal donne con la Comunità Educante e Hearth Platform
ore 18 Centro giovanile Scholé (Villa Lazzaroni, Via Appia Nuova 522) walkabout su goalinnovazione digitale con Comunità Educante del Municipio VII. Presentazione di Nuvola 3.0 sulla sentiment analysis dei 17 goal di Agenda 2030.
Sabato 22 maggio
ore 12, Mercato rionale di Testaccio (Via Aldo Manuzio 66b, box66) walkaboutsu goal cibo tra i banchi del mercato con Collettivo Gastronomico Testaccio
ore 18, Dalla Stazione Metro di Torre Gaia al Teatro Tor Bella Monaca walkaboutsu goal diseguaglianza nell’ambito delFestival delle Periferie
ore 19 Teatro di Tor Bella Monaca (Via Bruno Cirino 5) talk su goal partnership nell’ambito“Mappening. Le mappe partecipate” per il Festival delle Periferie”
Domenica 23 maggio
ore 17, ITC Lombardo Radice ( Piazza Ettore Viola 6) verso il Parco della Giustizia (entrata da Via del Ponte delle Sette Miglia 245) walkabout su goal legalità nell’ambito della Giornata della Legalità.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/05/nuvola.jpg10801920Company Newshttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCompany News2021-05-17 16:06:272021-07-26 12:44:05SoftScience: 17 goal in 17 luoghi di Roma
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