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Gaming a velocità 5G: a San Pietroburgo lo potranno testare per un mese

Beeline, Nokia e Qualcomm Technologies Inc. hanno annunciato il lancio della rete 5G pilota presso l’area portuale SevKabel di San Pietroburgo.

I cittadini presenti avranno l’opportunità di testare le capacità della rete 5G attraverso un’esperienza di realtà virtuale o un gioco online realizzato dal cloud service Beeline Gaming.

Le capacità della rete 5G

Questa sarà la prima rete 5G pilota di lunga durata di Beeline a San Pietroburgo disponibile per i consumatori.

La rete è realizzata utilizzando le apparecchiature commerciali di Nokia, compreso il modulo di sistema, i sistemi di antenna 5G AirScale e un router 5G/WiFi (CPE) supportato dal sistema Modem-RF Qualcomm® Snapdragon™ X55 5G.

Per la dimostrazione delle capacità delle reti 5G a San Pietroburgo Beeline ha inoltre ricevuto una deroga temporanea per l’utilizzo della banda mmWave (26-28 GHz).

“La tecnologia 5G mmWave offrirà significativi vantaggi ai consumatori e rappresenta una rivoluzione nella connettività mobile: non solo apporta enormi miglioramenti alle velocità di download, ma riduce anche in modo significativo la latenza, abilitando esperienze di gioco online, multiplayer e interattive finora impossibili sui dispositivi mobili. La piattaforma mobile Snapdragon 5G di Qualcomm ha tutto ciò di cui gli utenti hanno bisogno per poter ottenere esperienze di gaming dai livelli qualitativi inediti, inclusi video HDR, rendering veloce e sistema Modem-RF Snapdragon X55 5G”, commenta Yulia Klebanova, Vice President of Business Development, Qualcomm Europe, Inc.

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La nuova rete è un gioco

Più di 500 giochi sono disponibili nel servizio – alcuni di essi anche gratuitamente. Ma perché partire proprio dal gaming?

Il gioco online è una delle aree di intrattenimento più esigenti in termini di tecnologia. La bassa latenza e l’elevata velocità di trasferimento dei dati sono tra le più importanti sfide e tra i  fattori di successo per molti giochi.

Il servizio di cloud gaming Beeline Gaming basato su GeForce NOW di NVIDIA consente di eseguire i moderni giochi più impegnativi con modalità ultra, su qualsiasi dispositivo (anche obsoleto) grazie all’utilizzo di potenti server remoti.

Le reti 5G forniscono la stabilità e la velocità che consente tali prestazioni, prima raggiungibili solo attraverso l’uso di reti cablate.

Nell’area 5G VR Gaming, i giocatori potranno combattere tra loro nello spazio virtuale. Il gioco sparatutto creato da un team di District Zero Studios si svolgerà in modalità multigiocatore PvP (giocatore contro giocatore) per i giocatori in movimento libero. Occhiali virtuali Oculus Quest di ultima generazione per scenari multigiocatore, combinati con le più recenti tecnologie di rete wireless Beeline, integrate dal Distretto Zero

Questa combinazione tecnologica dà ai giocatori un’esperienza profondamente immersiva che permette la libera circolazione senza cavi scomodi e attrezzature ingombranti.

L’apparecchiatura sarà collegata a reti 5G e aiuterà i giocatori a ottenere un nuova esperienza mostrando i vantaggi delle nuove tecnologie evitando totalmente la sgradevole sensazione di divario tra ciò che viene compiuto attivamente e ciò che viene visualizzato, sincronizzando completamente le azioni dei giocatori con le immagini e le risposte del gioco.

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Il CEO di TikTok si dimette

Kevin Mayer, l’amministratore delegato di TikTok, ha annunciato le sue dimissioni, poco più di 100 giorni dopo essersi unito alla squadra della più grande applicazione per i video brevi del mondo a metà maggio.

La notizia è arrivata solo pochi giorni dopo la mossa di TikTok di fare causa al governo degli Stati Uniti per il suo imminente divieto. L’app, di proprietà della cinese ByteDance, è in un clima di tensioni tra Pechino e Washington, che accusa l’app di rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Il 6 agosto, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per chiudere TikTok se ByteDance non venderà le operazioni statunitensi dell’app. L’applicazione ha tempo fino a metà novembre per vendere.

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Perché il CEO ha lasciato

“Ci rendiamo conto che le dinamiche politiche degli ultimi mesi hanno cambiato in modo significativo la portata del ruolo di Kevin e rispettiamo pienamente la sua decisione. Lo ringraziamo per il suo tempo in azienda e gli facciamo i nostri migliori auguri“, ha detto un portavoce di TikTok in una dichiarazione a TechCrunch.

Il New York Times aveva riferito in precedenza che Mayer – ex dirigente anche per Disney – aveva già annunciato la sua decisione in una nota ai dipendenti, in quanto TikTok è stato messo sotto pressione dall’amministrazione Trump per i suoi legami con la Cina.

Mayer “non aveva previsto la misura in cui TikTok sarebbe stato coinvolto nelle tensioni tra Cina e Stati Uniti”, ha detto al Financial Times, e l’esecutivo “non ha firmato per questo”.

Vanessa Pappas, attualmente direttore generale di TikTok, diventerà il capo ad interim.

L’incombente vendita di TikTok ha attirato l’interesse degli investitori in tutti i settori, da Microsoft che ha annunciato pubblicamente la sua intenzione fino al meno atteso offerente Oracle.

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South Working: una moda o l’inizio della fine del lavoro in ufficio?

  • Il South Working è una modalità di lavoro che ha preso piede post lockdown e prevede di lavorare per aziende “del Nord” vivendo al Sud, con tanti vantaggi.
  • Ci sono tanti vantaggi ma anche rischi, specialmente per le grandi città che si vedono spopolate: è una moda o un cambiamento destinato a cambiare le nostre vite?
  • I pro e i contro sono difficili da bilanciare: la crisi delle città aiuta la rinascita dei borghi, le difficoltà del lavoro da remoto si equilibrano con una maggiore qualità della vita, l’outsourcing si contrasta con la specializzazione.

 

Dì la verità: quest’anno, controllare le mail la mattina e fare qualche telefonata di lavoro prima di andare al mare, o a goderti in altro modo il mese di agosto, ha un altro sapore.

Non ti fa sentire uno stacanovista pentito, anzi ha un che di nuovo, esotico, ti fa sentire un “south worker“.

Piccoli assaggi e prove tecniche di lavoro da remoto che, complici il Coronavirus e l’estate, hanno portato alla ribalta un concetto noto da tempo a chi si considerava o aspirava ad essere un nomade digitale: la qualità della vita ha un valore economico tutto suo.

Il lavoro da remoto potrebbe liberare dalla schiavitù del pendolarismo, delle città affollate, dei prezzi gonfiati, permettendo di vivere in luoghi in cui la vita costi meno e sia più piacevole. In Italia, questo è ovviamente stato identificato con il tanto bistrattato “Sud“.

Una zona geografica che da secoli vede un’emigrazione selvaggia verso il “Nord”, con le sue grandi città e i centri dell’economia, di giovani e meno giovani in cerca di università quotate e possibilità di lavoro. Un flusso che è stato quasi inarrestabile, nonostante timidi tentativi di incentivare la crescita del Meridione da parte di diversi governi, fino a che…

Fino a che il Coronavirus non ha colpito l’Italia. E allora le stazioni e gli aeroporti delle grandi città del Nord si sono riempiti di esuli in fuga, alcuni prima della quarantena, altri, tantissimi, dopo, quando la mobilità tra regioni è stata ripristinata ma le restrizioni hanno continuato a incentivare il lavoro da remoto.

E ora? Adesso che l’estate è quasi finita? Tantissimi non hanno avuto ferie o ne hanno avute poche, ma hanno ugualmente scoperto la possibilità di lavorare dalla “casa giù e di godersi pausa pranzo e aperitivo in riva al mare. E la maggior parte di loro, come ci si poteva aspettare, non vorrebbe tornare.

Ma questa cosa del South Working è sostenibile? È una moda, qualcosa che ci dimenticheremo nuovamente con i primi freddi? O è piuttosto il sintomo di un cambiamento epocale nel mondo del lavoro? I primi fiocchi di neve che scateneranno quella che sarà una valanga, che cambierà per sempre il volto delle nostre città, il modo in cui cresciamo i figli, l’aspetto degli uffici, l’economia del Paese e l’ecosistema di equilibri del mondo intero?

 

Il movimento del South Working

Il termine South Working, come abbiamo visto, è solo la più recente evoluzione di altri concetti preesistenti, primo tra tutti quello di Nomadismo Digitale. Solo che di solito chi si riferiva a questo termine intendeva un flusso di lavoro fatto principalmente di freelance o di dipendenti di aziende remote che si spostavano in altri Paesi, nonostante non fosse certo l’unica modalità. Il concetto su cui invece il termine South Working si concentra è che quell'”altrove” in cui la vita costa meno ed è più piacevole può essere estremamente vicino, in Italia – al Sud o nei tanti piccoli borghi, laghi, montagne e colline di cui il nostro Paese è pieno.

Avevamo parlato in un precedente articolo di come l’Italia non fosse abbastanza attraente per i nomadi digitali stranieri, rendendo ad esempio impossibile per noi fare una campagna come quella delle Barbados per attirare questo target. Ma il concetto di South Working inverte la rotta e va a pescare proprio tra gli italiani, promettendo loro uno stile di vita più rilassato, più piacevole e meno costoso.

Ne è autrice Elena Militello, che insieme ad altri ragazzi che aderiscono all’associazione Global Shapers del World Economic Forum ha deciso di impegnarsi per rendere la sua visione realtà. Come ha riportato in un’intervista a Repubblica, “un mondo nel quale alle persone sia consentito per periodi più o meno lunghi di trasferirsi al sud dove la qualità della vita è più alta e il costo molto più basso mantenendo il proprio posto nelle aziende attuali”.

Un sogno bellissimo, condiviso da molti, inclusa me – milanese di origine ma marchigiana di adozione, per pura scelta di qualità della vita.

Un sogno appoggiato dai tanti lavoratori che quest’estate, appunto, non vivranno l’assenza di vacanze in maniera così negativa grazie alle possibilità concesse dallo smart working imposto dal Covid.

Un sogno osservato con interesse dalle varie località del Sud (o dei piccoli borghi, che ci vedono una possibilità di destagionalizzazione e di “rivincita” nell’attirare i talenti dal Nord.

 

Il lavoro da remoto tra utopia, innovazione e crisi

Ma anche una pericolosa possibilità da evitare o da contenere, secondo altri. Come il sindaco di Milano, che vede questa “fuga” dalla sua città come un pericoloso precedente, e incita a “tornare al lavoro” gli smart workers. Attirando una comprensibile valanga di critiche sui social.

Ma in verità la faccenda è seria: effettivamente questo cambiamento, se permanente, può portare a svolte epocali al modo di vivere che conosciamo. Le città potrebbero dover cambiare volto, vedendo sfumare milioni e milioni di euro di indotto portati dai lavoratori residenti, dai pendolari, da chi pranza al bar sotto l’ufficio, chi prende metropolitana e treno ogni giorno, etc.

Ma gli effetti positivi? La riduzione dell’inquinamento? Del traffico? Il calo dei prezzi eccessivamente gonfiati da anni? La redistribuzione della ricchezza nel resto del Paese? Il miglioramento nella qualità della vita dei cittadini, se anche solo il 10% di loro lavorasse da remoto?

Dire che il lavoro da remoto sia un male perché rischia di portare un cambiamento difficile per alcuni aspetti, promettendo però in cambio grandi miglioramenti su altri, è come dire che avremmo dovuto fermare l’avanzata del Personal Computer perché rischiava di cannibalizzare posti di lavoro umani.

Bisogna decidere che prezzo si è disposti a pagare per il progresso, quanto la nostra sia solo paura del cambiamento, cosa si possa fare per garantire il benessere anche di quelle fasce di popolazione che saranno impattate negativamente, a fronte di quelle che invece vivranno un ritorno positivo.

È una valutazione difficile, perché mettere sul piatto della bilancia i pro e contro di quella che rischia di essere una rivoluzione culturale prima di tutto non è semplice. Ma vogliamo provarci, cercando di portare argomentazioni da entrambe le parti.

 

Lavoro da remoto per tutti: i vantaggi e i limiti del nuovo mondo che potremmo creare

Come lo ha definito l’Economist, questo potrebbe essere un momento tipo “Avanti Coronavirus”/”Dopo Coronavirus“. Che il lavoro stesse cambiando era noto a tutti, ma che i tempi della transizione sarebbero stati così rapidi era impensabile tanto quanto lo era l’idea di un virus che ci richiudesse tutti in casa.

Ora invece, in pochi mesi, è cambiato tutto. Le aziende si sono dovute dotare per forza delle infrastrutture tecnologiche base per rendere possibile lo smart working, pena il blocco completo delle attività se non lo avessero fatto. Anche culturalmente il passaggio è stato rapido: dall’essere considerato una scelta per lavativi e “femminucce”, ora è stato sdoganato.

L’ufficio non come gabbia ma come scelta

I contro sono molti per il lavoro in sé, come la maggior parte delle persone si è resa conto in questi mesi: lavorare da remoto non è una cosa facile (qui la nostra guida interattiva) , specialmente farlo in pianta stabile. Le videochiamate non hanno la spontaneità degli incontri di persona, il cameratismo tra colleghi è più difficile da alimentare, la creatività anche. Molte aziende hanno fatto grandi investimenti in immobili che rischiano di veder svuotati.

Eppure, dall’altra parte, i vantaggi sono innegabili: le ricerche dimostrano un generale incremento della produttività, contro ogni pronostico, maggiore soddisfazione e più responsabilità individuale. Servono nuove normative e capacità gestionali per evitare il rischio di burnout o l’aumento esponenziale delle ore lavorate, ma questi sono aspetti legati all’abitudine e all’evoluzione delle modalità, prevedibili e necessari in ogni grande cambiamento.

Secondo Fiorella Crespi, a capo dell’Osservatorio sullo Smart Working del Polimi, che ha registrato un passaggio da 2 milioni di lavoratori agili prima del Covid ad 8 nella fase successiva: “Deve esserci una cultura aziendale che sappia creare dei momenti di aggregazione, compresi quelli virtuali. Bisogna avere dei manager capaci. Ci sono compagnie che lo fanno da anni con successo, ad altri servirà tempo per trovare la quadra e non è detto che ci si riesca sempre”.

 

La crisi delle città, la rinascita dei borghi

I costi per le aziende di abbassano insomma, ma anche per gli impiegati, che a parità di stipendio possono ridurre le spese di viaggio, per il cibo, etc. Le città quindi tornano vivibili, meno affollate, meno costose, con ridotte emissioni di CO2 e tutto ciò che accompagna.

È innegabile che per città come Milano, che hanno basato tutta la propria crescita sull’attrazione dei talenti per il lavoro, rischia di essere uno shock, ma forse vedere la crisi di alcuni centri di potere come effetto negativo è non guardare il quadro completo. Questa supremazia ha avuto effetti devastanti per anni su altre città e regioni, con uno spopolamento progressivo e inarrestabile, una stagionalità estremamente aggressiva e dannosa dei flussi turistici, la concentrazione di tutte le attività intorno a un solo settore (il turismo, l’agricoltura, etc).

L’espansione del lavoro da remoto potrebbe rappresentare la possibilità di riequilibrare la disparità tra Nord e Sud, tra grande e piccolo, tra forte e debole, in un circolo virtuoso che toglie in alcuni punti per restituire in altri.

 

I rischi dell’outsourcing al Sud come dall’India

Da molti è stato indicato come grosso rischio del “south working” il fatto che le aziende possano decidere, a parità di assenza dall’ufficio, di assumere i propri talenti non al sud Italia ma a questo punto direttamente in Paesi dal costo della manodopera basso, come l’India o la Romania.

Di nuovo, un’argomentazione valida ma un po’ miope, perché questo processo è già in corso in maniera massiccia: intere linee produttive vengono delocalizzate in questi Paesi, con manodopera a basso costo acquisita in blocco.

È certamente una minaccia del futuro del lavoro, che però l’aspetto remoto non enfatizza in modo particolare, spingendo anzi verso una specializzazione delle competenze utile in ambito lavorativo, e allargando il bacino delle possibilità lavorative al di fuori di quelle rinchiuse in una data area geografica.

Come risponde la stessa Militello in un’intervista, “il target principale di un progetto come South Working è rappresentato dai lavoratori altamente qualificati, che apportano un elevato valore aggiunto alle aziende per cui lavorano. E che, perciò, dovrebbero resistere meglio alle trasformazioni dirompenti del mercato del lavoro che si prospettano”.

Trasformazioni che tra l’altro rischiano di essere impattate molto di più dall’intelligenza artificiale, dal machine learning e dalla robotica su cui potrebbe puntare l’Unione Europea, che non dal lavoro da remoto al Sud.

Insomma, per argomentazione negativa se ne può trovare una positiva, uguale e contraria.

Quale strada prenderemo? Sarà veramente questo il futuro del lavoro? Riusciremo a superare tutte le difficoltà e i preconcetti e a vedere un mondo dove il lavoro non è svolto “dove” o “quando”, ma “come”?

Oppure questa moda del South Working si spegnerà con la fine dell’estate, al cadere delle prime foglie dagli alberi? O all’arrivo del vaccino contro questo virus, che ci ha forzati a guardare ciò che pensavamo impossibile e a realizzarlo?

Sono domande che non hanno risposta, ma è difficile pensare sia un estremo che l’altro: sia che ci sarà un’adozione di massa dello smart working (a meno di non introdurre una decisa azione di incentivi verso i datori di lavoro), sia che si tornerà a lavorare come prima.

Il più probabile decorso è che, dopo questa impennata iniziale, la curva torni ad abbassarsi… ma una volta scoperta la possibilità di fare una cosa in modo diverso, è difficile far finta che non sia così.

E probabilmente questo cambiamento epocale, in cui risultato finale è ignoto a tutti, ha avuto un’impennata imprevista che non potrà durare di pari intensità, ma è ormai ben avviato e non si può fermare.

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Il ritorno in classe si fa anche con la didattica integrata: WeSchool accelera e aiuta le scuole

WeSchool, la startup che dal 2016 aiuta i docenti con una piattaforma di classe digitale e con corsi sulle metodologie didattiche innovative, chiude un aumento di capitale da 6,4 milioni di euro sottoscritto da P101, lead investor con i fondi P102 e Italia 500 – Gruppo Azimut, TIM Ventures, CDP Venture Capital Sgr, Club Digitale e Club Italia Investimenti 2.

“TIM Ventures ha creduto fin dalla sua nascita in WeSchool, investendo dall’inizio nella nuova didattica innovativa che sta diventando sempre più importante”, dichiara Carlo Nardello, Presidente di TIM Ventures e Chief Strategy, Customer Experience and Transformation Officer di TIM. “La partecipazione alla crescita di una piattaforma che è oramai diventata una delle infrastrutture digitali della scuola italiana conferma ancora una volta il ruolo centrale di TIM nella digitalizzazione del Paese”.

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La startup, il lockdown e la DAD

WeSchool ha 1,7 milioni di utenti registrati e permette ai docenti di condividere materiali e video, fare esercizi, discutere con gli studenti e innovare la didattica in aula con lavori di gruppo, test istantanei e con metodologie come la classe capovolta o il teach-to-learn, in cui sono gli studenti – supportati dai docenti – ad essere al centro del processo di apprendimento.

Durante il lockdown la piattaforma – unica italiana tra le tre indicate sul sito del Ministero dell’Istruzione – è stata utilizzata per la didattica a distanza, permettendo a più di 1 milione di utenti attivi ogni giorno da smartphone o da computer di non interrompere la continuità didattica.

“La didattica a distanza del lockdown, talvolta inefficace per mancanza di strumenti adeguati o perché ripeteva la dinamica frontale delle aule, ha avuto lo straordinario effetto di aumentare le competenze digitali di tutta la scuola italiana” – racconta Marco De Rossi, fondatore e AD di WeSchool – “Questo ci permetterà con il back to school di diffondere sempre di più il modello di didattica integrata in cui crediamo, in cui la tecnologia è usata sia in aula sia a casa ed è al servizio del docente per fare una didattica sempre più coinvolgente e cooperativa”.

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Si ritorna sui banchi in presenza, ma la didattica digitale resta

“Il settore dell’educazione e della formazione in generale sono in profonda trasformazione: la vita sempre più digitale richiede che le competenze si formino in un ambiente coerente e flessibile. WeSchool rappresenta oggi la piattaforma all’interno della quale la didattica ed i suoi attori possono trovare quello che serve alla scuola nel suo complesso per questa evoluzione che il lockdown non ha fatto altro che accelerare” – commenta Andrea Di Camillo, Managing Partner di P101.

Se infatti con sempre maggiore premura ci si prepara oggi al rientro in classe, la didattica a distanza non tornerà ad essere una chimera, ma entrerà in modo sistematico nel mondo dell’istruzione italiano, tra classi alternate e necessità di mantenere il distanziamento sociale.

La formazione digitale resterà quindi una realtà e con gli strumenti corretti può trasformarsi in un modo per potenziare l’offerta scolastica.

“L’istruzione, la formazione digitale e la didattica integrata sono priorità per un’Italia che riparte” – ha commentato Francesca Bria, Presidente di CDP Venture Capital Sgr – “Ripensare la scuola, alla luce delle trasformazioni in corso, è fondamentale per il futuro del nostro Paese, per supportare il talento di docenti e studenti occorre rafforzare le nuove metodologie di apprendimento digitale. WeSchool si è messa al servizio della scuola con visione ed efficacia durante l’emergenza Covid-19 e siamo lieti di supportare una piattaforma italiana con forti capacità di crescita in un settore così strategico nella convinzione che l’istruzione e la conoscenza siano il cuore della democrazia”.

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Limited edition strategy: come può condizionare le decisioni di acquisto

  • Collezioni, prodotti o packaging limited edition richiamano subito la nostra attenzione: il fascino irresistibile di un qualsivoglia vantaggio.
  • Quanto una buona strategia di marketing mescolata alla psicologia e correlata alla nostra necessità di soddisfare istinti primordiali riesce dunque a condizionarci nella decisione di acquisto?

 

Cosa ci viene in mente quando leggiamo limited edition? Di sicuro subito pensiamo ad un prodotto o ad un servizio che è limitato nelle quantità o nel tempo. In effetti una delle strategie marketing di maggior successo è proprio quella che consiste nel creare un senso di urgenza nella sfera del desiderio.

Un misterioso, ma perfettamente studiato, mix tra psicologia ed economia che agisce sulla nostra sfera emotiva. Ci spinge naturalmente, quasi come una pulsione inspiegabile, a desiderare e acquistare un qualcosa di cui potremmo probabilmente fare a meno.

Il vantaggio dell’esclusività

Del resto anche le nozioni di economia ci insegnano che la scarsità di un bene porta ad un aumento della domanda. Ed ecco quindi che variabili come scarsità, prezzo diverso da quello a cui un brand ci ha abituato, esclusività ed urgenza, si mescolano sapientemente per far crescere in noi l’irrefrenabile attrazione verso un prodotto in edizione limitata.

Tutto ciò che percepiamo come raro, da collezione, irripetibile, assume un valore più alto. Un esempio ce lo dà Starbucks con le sue limited edition cups che presenta ogni anno in occasione delle festività. Piccoli cambiamenti come i colori accesi e le fantasie a tema natalizio a noi scaldano il cuore ed enfatizzano l’atmosfera. Al brand incrementano le vendite e contemporaneamente anche l’awareness grazie alla condivisione sui social di contenuti generati dagli utenti stessi, come nel caso del coloratissimo Unicorn Frappuccino. Una mossa studiata non solo per fidelizzare i clienti ma anche – e soprattutto – per aumentare le vendite in quel particolare periodo in cui il principale trend era quello degli unicorni.

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Si scrive limited edition, si legge persuasione

Il lancio di prodotti che non saranno in seguito replicati fa intuire come un’ipotetica perdita del vantaggio crei confusione nel processo decisionale e spinga a un’urgenza che va oltre il reale bisogno.

Nel settore fashion, già da qualche anno, alcuni tra i brand più conosciuti hanno adottato la strategia del marketing drop. Limited edition lanciate all’ultimo istante solo per un tempo limitato, o come in casi estremi solo per un giorno. Ovviamente le richieste superano di gran lunga le disponibilità, trasmettendo così un continuo senso di attesa per i futuri eventi e dilatando l’attenzione degli utenti nell’intero anno.

Il brand Supreme ogni anno propone sul mercato internazionale una linea di abbigliamento in quantità limitata. La corsa all’acquisto è feroce: file infinite fuori gli store e prenotazioni online tramite robot. Non mancano neanche i rivenditori che aumentano il costo dei prodotti fino al 600%.

Qualcuno potrebbe dunque chiedersi se questo tipo di acquisto, che rasenta una specie di guerra all’accaparramento, valga effettivamente la pena. Ebbene, richiamando di nuovo il senso di esclusività, unito al fascino dell’irrepetibilità a braccetto con lo status di prestigio, la risposta è istintivamente positiva. Vi ricorda qualcosa la collaborazione di Supreme con Louis Vuitton?

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Meno ce n’è, più ne voglio

I prodotti lanciati con scarsa disponibilità sembrano difatti più preziosi, nonostante la loro sostanza sia quella di sempre e a cui siamo abituati o affezionati. Mentre le limited edition con varianti di gusto hanno dimostrato scarso successo, come la Vanilla Coke del 2007, quelle che parlano al cliente come ad un amico hanno letteralmente spopolato sul mercato.

Un esempio è quello di Coca-Cola che pochi anni fa con la campagna Share a Coke ha scatenato la caccia alla lattina con il proprio nome. Di nuovo la spia dell’urgenza si è immediatamente accesa nelle menti dei consumatori. La corsa all’acquisto è stato il successo a cui ambiva la strategia marketing, in termini di incremento vendite e awareness. Stesso discorso per le bottigliette di acqua Evian firmate Chiara Ferragni.

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Quest’anno, in piena emergenza Covid, Absolut Vodka ha presentato, con una collaborazione tutta italiana firmata MSGM, la sua bottiglia in edizione limitata. Puntando sul concetto hype del restare uniti in un momento tristemente straordinario, il brand ha ideato la frase “Nothing makes sense when we’re apart, leggibile soltanto affiancando due bottiglie. Un’edizione limitata di appena 20.000 pezzi che gli intenditori non si sono di certo fatti scappare.

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Siamo quindi tutti scemi?

No, non lo siamo. Semplicemente il marketing quando – la maggior parte delle volte – funziona, fa leva sulla psicologia. Secondo la piramide di Maslow, l’autorealizzazione è all’apice dei bisogni personali. Realizzare le proprie aspettative in termini di prestigio, di ricchezza ed esclusività, ci fa sentire potenti nel possedere qualcosa che altri non hanno o a cui non possono arrivare. In più, gli oggetti con bassa disponibilità ci sembrano più preziosi. Da qui la necessità di assumere per così dire “comportamenti insoliti” pur di ottenere un bene puramente materiale, spesso con scarsa utilità e che con il tempo probabilmente si deteriorerà.

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Come ad esempio Puma che per il lancio della limited edition Puma King Luxury Edition ha creato come prezioso accessorio una scatola oro e nero, utilizzando acrilico specchiato e alluminio inciso al laser. Un packaging originale e prezioso, tanto che il brand ha offerto al mercato solo 999 paia di scarpe trasformando così un inutile involucro in un oggetto da collezione, quasi più delle scarpe stesse.

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Senza andare troppo lontano, è facile ricordare la strategia di Nutella con gli ultimi Nutella Biscuits che, benché non fossero edizione limitata, a pochi giorni dal lancio hanno registrato il sold out in ogni supermercato, aumentando le aspettative e il buzz sui social.

Come anche i vasetti limited edition dello stesso brand e la ricerca ossessiva (manco fosse l’alcool ai tempi del Covid) dei due unici contenitori gemelli. Ma poi, qualcuno sarà riuscito a trovarli?

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TikTok vuole fare causa a Trump per aver cercato di vietare l’app negli Stati Uniti

TikTok sta intraprendendo un’azione legale contro i tentativi dell’Amministrazione Trump di vietare l’applicazione negli Stati Uniti.

Dopo aver valutato le sue opzioni a seguito dell’ordine esecutivo che la costringerà sostanzialmente a vendere a una società statunitense, o ad affrontare un divieto sul mercato americano, TikTok ha confermato che porterà avanti un’azione legale contro il governo statunitense per la direttiva ufficiale.

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La posizione di TikTok

In una dichiarazione, TikTok ha spiegato l’azione in corso, dicendo che non vede altra opzione se non quella di contestare l’ordine:

“Anche se siamo in forte disaccordo con le preoccupazioni dell’Amministrazione, per quasi un anno abbiamo cercato di impegnarci in buona fede per fornire una soluzione costruttiva. Quello che abbiamo incontrato, invece, è stata la mancanza di un giusto processo, in quanto l’Amministrazione non ha prestato attenzione ai fatti e ha cercato di inserirsi nelle trattative tra imprese private”.

TikTok potrebbe avere in effetti un punto a suo favore – anche se ci sono preoccupazioni significative intorno alle operazioni e ai processi della società, non ci sono prove pubblicamente disponibili per dimostrare che i dati degli utenti statunitensi siano effettivamente condivisi con il governo cinese, né che vi siano contenuti censurati.

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Dalla Casa Bianca si sostiene infatti che:

“TikTok, secondo quanto riferito, censura anche contenuti che il Partito Comunista Cinese considera politicamente sensibili, come quelli riguardanti le proteste a Hong Kong”.

In realtà a sostegno di queste tesi non ci sono prove definitive – almeno, nessuna che reggerebbe in un’impugnazione legale. Ecco perché TikTok sta passando alla fase successiva.

“Per garantire che lo Stato di diritto prevalga e che la nostra azienda e i nostri utenti siano trattati in modo equo, non abbiamo altra scelta se non quella di contestare l’Ordine Esecutivo attraverso il sistema giudiziario”, ha dichiarato l’azienda.

L’azione in realtà, alla fine, rendere le cose ancora più difficili per l’app.

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La vendita dell’app a una società americana

La decisione di TikTok di fare il prossimo passo legale potrebbe anche indicare che le trattative per la sua potenziale vendita a un acquirente americano – probabilmente Microsoft – non stanno procedendo come previsto. Come notato, nella sua dichiarazione iniziale sull’Executive Order, TikTok ha prospettato la possibilità di un’azione legale, ma l’opinione è che TikTok vorrebbe perseguire questa linea d’azione solo come ultimo risultato, per paura di contrapporsi ulteriormente all’amministrazione Trump.

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A quanto pare Microsoft rimane il principale offerente di TikTok, che alcuni hanno valutato circa 30 miliardi di dollari, ma ci sono varie preoccupazioni che potrebbero vedere l’azienda esitare a premere il grilletto su un affare così grosso.

È possibile che le discussioni si siano deteriorate al punto che TikTok senta il bisogno di fare questo passo avanti? Microsoft certamente, in quanto potenziale proprietario di TikTok, non vorrebbe essere coinvolta in una battaglia legale con il governo degli Stati Uniti.

Teoricamente tutto dovrebbe risolversi se l’affare Microsoft andrà in porto, ma anche così, il fatto che TikTok stia facendo questo passo avanti legale potrebbe riflettere le preoccupazioni che le cose non andranno come sperato.

Ma, d’altra parte, ci sono altri pretendenti. Oracle si è rivelato questa settimana come uno dei tanti partner di un consorzio che cerca di fare un’offerta per la piattaforma, mentre anche Google aveva, a un certo punto, pensato di contribuire a un’offerta collettiva per la piattaforma, prima di cambiare idea.

Sembra che ci siano opzioni disponibili per mantenere in funzione la piattaforma, ma la decisione di TikTok di recarsi in aula non sembra essere un buon segno.

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TikTok Italia

La strategia per rimandare la decisione

D’altra parte, potrebbe anche essere una tattica dilatoria – se TikTok potesse rimandare qualsiasi decisione fino a dopo le elezioni americane, potrebbe essere in grado di rinegoziare il suo status con un nuovo governo. Se Trump non fosse più al comando, forse un nuovo presidente sarebbe più comprensivo della situazione.

Forse, quindi, l’azione legale di TikTok non punta tanto a vincere la causa, in quanto tale, quanto a prolungare la disponibilità dell’applicazione su territorio americano.

In ogni caso, secondo il direttore generale di TikTok, Vanessa Pappas, l’app non andrà da nessuna parte:

“Crediamo di avere diverse strade da percorrere per continuare a fornire questa incredibile esperienza di app ai milioni di americani che ogni giorno si affidano ad essa”.

Evidentemente, una sfida legale è un’altra di queste strade. Ora vediamo come andrà a finire – con la scadenza del 15 settembre sempre più vicina per il ban dell’app.

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Donne e COVID-19: la pandemia ha aggravato le differenze di genere?

  • Il COVID-19 ha ulteriormente scombussolato la vita privata e lavorativa delle donne.
  • I settori economici più a rischio crisi sono quelli in cui sono impiegate la maggior parte delle lavoratrici.
  • Le disparità di genere continuano ad aumentare e non sembrano volersi fermare.

 

Uno degli enigmi che vorremmo risolvere senza perderci in labirintici discorsi riguarda la separazione tra sfera privata e lavorativa. Esiste davvero o è solo una leggenda?

Negli ultimi mesi poter rispondere con sincerità e lucidamente a questa domanda ci risulta davvero complicato. Con l’improvviso arrivo del COVID-19, lo stato di pandemia e il lockdown siamo stati costretti a cancellare la sottile linea che divideva questi due aspetti. Abbiamo convissuto non solo con la paura e l’ansia per la nostra salute, ma tutti i nostri ritmi sono stati stravolti. Le nostre battaglie a difesa del nostro tempo e dello spazio hanno vacillato.

Purtroppo le donne ne stanno pagando il prezzo più alto. 

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Donne e COVID-19: la disparità lavorativa cresce

Lavoratori e lavoratrici, almeno chi poteva, hanno lavorato da casa, provando le gioie e i dolori dello smart working. Più che altro parliamo di telelavoro, arrivando a stare davanti al PC più ore del previsto, e a occuparsi dei figli, della loro istruzione e delle faccende domestiche. Ma cosa differenzia uomini e donne in questo contesto?

Oltre la metà delle donne si occupa della casa, dell’assistenza dei figli e dei genitori anziani, senza riuscir a condividere le mansioni con il proprio partner. Inoltre il 31% delle donne ha dovuto rinunciare al proprio lavoro per sopperire a tutte le incombenze familiari.

Perché sono sempre le donne ad essere penalizzate?

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La situazione lavorativa delle donne

L’ILO, l’International Labour Organization, ha decretato che sono quattro i settori ad alto rischio economico a causa dell’impatto del COVID-19:

  • immobiliare;
  • commerciale;
  • amministrativo;
  • commercio all’ingrosso e al dettaglio.

Il 41% degli occupati in questi campi sono donne. Ciò suggerisce che la popolazione femminile potrebbe essere la più colpita gravemente nei prossimi mesi, rispetto alla controparte maschile che ne rappresenta il 35%.

Bisogna tener presente due aspetti analizzando questi dati. Il primo è che abbiamo un numero cospicuo di donne che abitano in Paesi a medio e basso reddito, dove c’è un alto rischio che i lavori di produzione, specialmente nel settore dell’abbigliamento, potrebbero scomparire.

Il secondo è che molte donne hanno un reddito familiare alto e vivono in Paesi a medio reddito, ma non per questo se la passano meglio. Molte di queste lavoratrici sono imprenditrici di piccole imprese e non tutte riescono ad ottenere facilmente dei finanziamenti. Sempre secondo le analisi dell’ILO, le lavoratrici autonome basano le proprie forze sull’autofinanziamento e in un periodo di crisi così forte, potrebbero dover chiudere la propria attività commerciale.

Le donne imprenditrici devono affrontare parecchi ostacoli per ottenere credito e ricevere prestiti con interesse equi. In tutto il mondo, solo il 5,3% delle donne richiede e ottiene un prestito per avviare un’azienda commerciale o agricola.

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Purtroppo milioni di persone hanno perso il lavoro e le entrate sono nettamente diminuite.

Le donne che erano già colpite da disuguaglianze come la disparità salariale e un minore accesso ai servizi finanziari, non hanno gli appoggi necessari. I decreti d’emergenza e gli investimenti a lungo termine per il recupero economico devono sostenere e proteggere le donne e le persone emarginate. Ci sono ragazze e donne migranti forzatamente sfollate che potrebbero non essere in grado di accedere a queste risorse.

Le donne che lavorano nell’assistenza

Ad aver sofferto molto in questi mesi sono state le donne, ma anche gli uomini, che lavorano nel campo medico. Osannati come eroi da un lato, costretti a turni massacranti, hanno sentito ogni giorno lo stress e l’ansia di non riuscir a reggere tutto, di ammalarsi e di mettere in pericolo la propria famiglia. Chi ha avuto a che fare con i pazienti ammalati di COVID-19 ha preferito isolarsi, allontanandosi dai propri cari.

In molti Paesi le infermiere sono state oggetto di violenze verbali, denominate “untrici”, attaccate col cloro durante gli spostamenti dalle strutture sanitarie a casa. Per non parlare degli straordinari, della paura di non poter riabbracciare presto i propri affetti, una situazione di stress che ha coinvolto in primis le madri single.

Le giovani donne sono le più colpite

Abbiamo avuto modo di leggere tante storie di persone che hanno perso qualcosa e qualcuno, a causa del COVID-19. Una delle fasce più colpite però sono proprio le giovani donne.

Ragazze che avevano intrapreso un percorso di studi, che avevano in mente progetti lavorativi, di vita, hanno dovuto mettere tutto in standby. Hanno accantonato sé stesse per aiutare la famiglia, per essere di supporto e si sono fatte carico di parecchie responsabilità, anche più grandi di loro.

Alcune di loro hanno perso il lavoro perché impiegate in uno di quei 4 settori a rischio, specialmente coloro che lavorano nel commercio al dettaglio, e tutte quelle aree che prevedono il contatto col pubblico. C’è chi ha visto ridursi drasticamente lo stipendio ha optato per il licenziamento.

Sono davvero tante le voci delle giovani donne che da un giorno all’altro hanno perso tutto perché magari già partivano svantaggiate nel proprio lavoro.

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La disuguaglianza di genere non si ferma

Sfortunatamente si innesca un meccanismo in cui le difficoltà emerse con il COVID-19 aggravano una situazione di disuguaglianza già difficile in cui le donne sentono una pressione infinita.  Quella necessità di dimostrare di essere in gamba, di poter fare tutto, di essere allo stesso livello dei colleghi uomini. Ciò tormenta specialmente le più giovani, in una società in cui si dettano canoni di perfezione, dove la donna è una brava madre e una lavoratrice instancabile. La donna come emblema del multi-tasking, l’anello di congiunzione tra la figura materna precedente e la donna in carriera futura.

Un mondo che sembra non contemplare le debolezze e il fallimento. Questa pandemia ha fatto vacillare anche la più temeraria delle guerriere, lasciando sole molte di loro.

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Donne, madri e smart working

Quanto abbiamo parlato di smart working? Discussioni e dovute precisazioni su uno degli argomenti più gettonati di quest’anno, tutti, o quasi, abbiamo sperimentato cosa significa lavorare da casa. Organizzarsi telematicamente con i colleghi, con la propria famiglia.

I bambini, i primi a risentire di questa pandemia, assistiti dai propri genitori, ad approcciarsi con la didattica a distanza. Gli adulti alle prese con PC, tablet e laptop, tra coreografie sui balconi, conti che non tornano, tormentati dai dubbi e dalle aspettative di un ingombrante “andrà tutto bene”.

Ma tutto bene non è andato per le donne, madri e lavoratrici alle prese con lo smart working, che di smart non ha avuto molto. Con i bambini tra i 6 e i 12 anni confinati in casa, i genitori si sono occupati costantemente dei figli. Ma ogni famiglia ha vissuto questa pandemia diversamente, e sta provando ad assestarsi nelle fasi successive.

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Le donne si sono fatte più carico della casa e dei figli

I dati riportano che le donne si sono occupate della casa e dei figli 13 ore in più rispetto agli uomini, e lo smart working non ha di certo agevolato la situazione. Con la maggior parte del tempo impiegato ad assistere i figli, soprattutto i più piccoli senza l’assistenza di nessuno, molte donne hanno dovuto tralasciare il lavoro, trascurandolo.

Consapevoli di non essere state produttive come avrebbero voluto, ma di aver subito un sovraccarico di compiti, temono che saranno proprio le prime a essere licenziate a causa della crisi economica.

Solitamente in un nucleo familiare è l’uomo che guadagna di più rispetto a una donna, e questo porta le lavoratrici a sacrificare le proprie ambizioni lavorative per accudire i figli, o le porta a scegliere lavori part  time, senza poter assecondare ciò che desiderano davvero.

Ci sono voluti 20 anni per implementare l’occupazione femminile dell’11%, cosa accadrà adesso? Quanto sacrificio è richiesto ancora?

Cosa si potrebbe fare per aiutare le donne?

In un momento così delicato l’assistenza all’infanzia è fondamentale per aiutare le coppie a crescere i figli e a sentirsi al sicuro. Quando gli asili nido riapriranno, molti non potranno accettare altri bambini e non tutti possono affidare i propri figli ai nonni. È vero, i governi si stanno attivando con misure a sostegno delle famiglie, ma basteranno?

In Italia prima della pandemia una donna su due lavorava, ma problemi come la disparità salariale saranno sempre un ostacolo per una felice carriera lavorativa.

Dall’ultimo rapporto dell’INPS è emerso che in un anno, oltre 37 mila neo mamme lavoratrici, hanno presentato le dimissioni. La maggior parte delle motivazioni riguarda l’impossibilità di conciliare lavoro e crescita dei figli più piccoli. Il percorso lavorativo di una donna non è lineare come quello di un uomo. Perché le donne devono ancora essere costrette a scegliere tra lavoro e famiglia?

L’aumento dei casi di violenza

La violenza è un flagello che non risparmia nessuno e molte donne ne sono state vittime durante questa pandemia, isolate e rinchiuse con i propri maltrattatori.

Refuge è un luogo sicuro per donne che vengono tormentate e abusate, durante il lockdown ha visto un incredibile aumento del 950% delle visite al suo sito Web. Le donne e i bambini supportate ogni giorno da Refuge sono oltre 6000.

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In Italia, durante la quarantena, ci sono state più di 2000 richieste d’aiuto in più rispetto ai mesi precedenti, ha dichiarato Elena Bonetti, la ministra per le Pari Opportunità. Ci sono anche crescenti preoccupazioni riguardo la depressione postnatale che aumenta tra le neo mamme isolate in un momento in cui gli asili, le assistenze o le cliniche drop-in non stanno funzionando.

Oltre i ruoli di genere

Le donne tradizionalmente portano sulle proprie spalle la maggior parte delle responsabilità assistenziali e lavorative all’interno delle famiglie. Il ruolo tradizionale delle donne come “assistenti” le rende più suscettibili alle infezioni da parte di familiari malati e le crescenti richieste di assistenza all’infanzia rendono difficile bilanciare il lavoro e le responsabilità domestiche.

Per sfidare le tradizionali norme di genere e ridistribuire l’assistenza non retribuita e il lavoro domestico, c’è bisogno di attuare politiche sociali come il congedo di paternità, programmi sociali per incoraggiare l’impegno maschile, programmi educativi a scuola per promuovere l’uguaglianza di genere. Tutti dovremmo aver chiaro il concetto di uguaglianza universale, e smetterla di definire norme e ruoli di genere ormai desueti.

IKEA Story

IKEA Story: da dove nasce uno dei brand più amati di questo millennio

  • IKEA in tutti questi anni è rimasta coerente alle sue origini e a una precisa idea fondatrice: produrre mobili con un buon design e di buona qualità a prezzi accessibili.
  • Il fondatore, Ingvar Kamprad, era un forte sostenitore della semplice ma rivoluzionaria innovazione che prevedeva la vendita di mobili flat-pack.

 

Oggi, milioni di persone amano IKEA, ma dove inizia la storia di questo leggendario brand?

L’azienda nacque nel 1943 dallo svedese Ingvar Kamprad. A quei tempi IKEA era una piccola impresa ad Älmhult (un villaggio in campagna) che vendeva oggetti per corrispondenza attraverso un catalogo. Partito da zero il fondatore arriva a diventare una delle persone più ricche del mondo.

IKEA story

La sede centrale di IKEA, dove sono concepiti tutti i design dei prodotti, è ancora lì in Svezia.

ikea

Infanzia rurale e umili origini

Ingvar Feodor Kamprad nacque nel 1926, in una piccola fattoria nella provincia svedese di Småland.

A quel tempo la regione era notoriamente rurale, la Svezia era povera e agricola. Si parla di tempi duri, di lavoro, di frugalità e di egualitarismo, tutti fattori radicati nella povertà condivisa del periodo, valori che in un secondo momento entreranno a far parte dell’etica di IKEA.

Kamprad iniziò la sua carriera all’età di sei anni, vendendo fiammiferi. A soli dieci anni, attraversò il quartiere in sella alla sua bicicletta, vendendo decorazioni natalizie, pesce e matite.

IKEA LOGO: la storia del logo di IKEA

A 17 anni, nel 1943, il padre lo ricompensò con una piccola somma di denaro per aver portato profitti da scuola, nonostante fosse dislessico. Kamprad li usò per costruire uno stabilimento, che chiamò IKEA. Il nome prende origine proprio dalle iniziali del fondatore e dai luoghi che lo hanno allevato: Ingvar, Kamprad, Elmtaryd la fattoria dove è cresciuto e Agunnaryd, il villaggio vicino.

IKEA

Flat-pack, il marchio di fabbrica

Due anni dopo aver avviato IKEA, Kamprad inizia a utilizzare i camion del latte per consegnare le sue merci. Nel 1947, inizia a vendere mobili realizzati da produttori locali. Nel 1955, i produttori iniziano a boicottare IKEA, protestando contro i bassi prezzi di Kamprad. Questo lo costringe a progettare oggetti internamente. Nel tempo, l’imballaggio piatto e l’autoassemblaggio diventano parte del concept.

Sì, perché spedire grandi mobili era difficile e costoso. Così nel ’56, il fondatore prova a togliere le gambe del tavolino LÖVET (nome attuale LÖVBACKEN) e da qui nasce l’idea dei pacchi piatti e degli articoli forniti smontati.

IKEA

La filosofia alla base si ispirava (e si ispira ancora) al concetto di design democratico: chiunque deve potersi permettere mobili eleganti e moderni. Kamprad sentiva che non stava solo tagliando i costi e guadagnando soldi, ma stava anche servendo le persone.

“Perché i bellissimi prodotti sono realizzati solo per pochi acquirenti? Dovrebbe essere possibile offrire un buon design e funzionalità a prezzi bassi”.

Col tempo l’attività di Kamprad crebbe molto. IKEA si espanse in tutta la Svezia, in Norvegia e Danimarca, passando dalla Germania all’Europa continentale e fino ai confini del mondo. Oggi sono oltre 300 i negozi IKEA nel mondo, in 40 paesi. Per tutto questo tempo, Kamprad non ha mai preso in prestito denaro o emesso azioni.

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Catalogo IKEA: la pubblicazione più diffusa al mondo

Älmhult, la città dove fu fondata IKEA, si trova in una zona piuttosto remota della Svezia, per questo era molto difficile raggiungere potenziali clienti nelle città più grandi. Nacque così, da un’esigenza concreta più che da una scelta di marketing, il famoso catalogo IKEA nel 1951.

IKEA catalogo

Ingvar aveva già deciso allora che IKEA avrebbe venduto mobili di qualità a prezzi bassi, soluzioni alla portata di tutti. Ad ogni modo, il catalogo IKEA, strumento di marketing diventato icona di un certo modo di abitare, vanta una distribuzione pari a quella della Bibbia.

Un vero e proprio successo ogni anno per questa pubblicazione, realizzata in 62 edizioni e 29 lingue. L’edizione italiana, nel 2013, ha avuto una tiratura di 16 milioni di copie. Un record legato anche alla diffusione gratuita del catalogo, distribuito porta a porta.

L’anno scorso IKEA ha spiazzato i clienti di tutto il mondo con l’annuncio della progressiva rinuncia dell’edizione cartacea in favore del catalogo online. Per il suo 70esimo anniversario, il catalogo verrà comunque stampato, ma solo in 2 milioni di copie (una reliquia sicuramente da conservare).

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I prezzi nel primo catalogo IKEA erano così bassi che le persone inizialmente erano scettiche sulla qualità dei prodotti. Ingvar decise così di trasformare un vecchio laboratorio di Älmhult in uno showroom in cui le persone potevano vedere e provare i prodotti prima di ordinare.

IKEA showroom

Il testamento di IKEA

La crescita e l’espansione internazionale hanno richiesto un supporto alla comunicazione faccia a faccia dello spirito e dei valori di IKEA.

Nel 1976 viene pubblicato l’opuscolo di Ingvar Kamprad “Il Testamento di un commerciante di mobili”. Le righe di apertura sono: “Abbiamo deciso una volta per tutte di schierarci con molte persone. Ciò che è buono per i nostri clienti è anche, a lungo termine, buono per noi. Questo è un obiettivo che comporta degli obblighi”.

Il testamento è costituito da nove tesi, tra cui “Il profitto ci dà risorse” e “La semplicità è una virtù”. La tesi finale è “Molte cose restano da fare. Un futuro glorioso!”.

La leadership del buon esempio rimane la spina dorsale per modellare la cultura IKEA e la documentazione delle nove tesi diventa uno strumento molto apprezzato. Da allora ha continuato a ispirare le persone nelle diverse società che operano con IKEA e ne condividono i valori.

I nomi IKEA

I nomi dei mobili IKEA possono stupire i clienti al di fuori dei paesi nordici, in realtà sono basati su un sistema elaborato e ben preciso.

I letti hanno nomi di luoghi norvegesi, i divani prendono il nome da città svedesi, i tavoli da cucina hanno nomi geografici finlandesi, le sedie per lo più hanno nomi maschili e i tappeti hanno per lo più nomi danesi. A bicchieri e tazze vengono dati gli aggettivi e così via. I nomi sono generalmente gli stessi in tutto il mondo.

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L’elaborata struttura della proprietà di IKEA, con diversi fondi fiduciari offshore controllati ma non di proprietà dello stesso Kamprad, ha reso impossibile stabilire quanto fosse ricco, ma le stime spesso collocano il fondatore tra il numero 1 e il numero 11 nell’elenco delle persone più ricche del mondo.

colori nel marketing

Brand e psicologia: dimmi di che colore è il tuo business e ti dirò chi sei

  • Spesso il marketing viene banalizzato e ridotto a una mera scienza finalizzata alle vendite, ma prima di questo traguardo c’è un complesso insieme di operazioni volte a persuadere il pubblico tra le quali la scelta dei colori del brand, della campagna pubblicitaria, del website e degli store.
  • I colori sono in grado di incidere sulla percezione che i consumatori hanno di un determinato brand e giocano un ruolo chiave nelle strategie di branding: vi sono alcuni casi in cui è proprio il colore a costituire l’elemento distintivo.

 

Il common thinking suggerisce che al primo appuntamento sarebbe carino presentarsi con delle rose rosse. Vale per gli uomini, giusto per essere un po’ old style.

Sempre il pensiero comune suggerisce che rose di color giallo si regalano per esprimere gelosia. Ancora, rose di color bianco rappresentano purezza e innocenza.

Colori diversi per esprimere messaggi diversi e nulla lasciato al caso.

Sicuramente tutto è più semplice se si tratta di scegliere fiori per una serata galante.

Cosa succede con i colori nel mondo del business e, in particolare, del marketing? E cosa succede se i colori sono in grado di influenzare la percezione di un determinato brand?

I see your true colors

Era il verso di una famosa canzone di Cyndi Lauper di fine degli anni Ottanta, che aveva riscosso grande successo. Al centro di tutto, i colori. Colori veri, magari sgargianti.

Trasmettono sensazioni, emozioni, ci allontanano o avvicinano, ci disgustano, ci fanno sentire vivi.

Funziona nell’interior design, con tanto di teorie feng shui, nel fashion, nel make-up e anche nel marketing.

psicologia colore marketing

Sì, perché i colori sono in grado di incidere sulla percezione che i consumatori hanno di un determinato brand e giocano un ruolo chiave nelle strategie di branding.

Pensiamo, ad esempio, a tutte le volte in cui identifichiamo un marchio grazie all’associazione del logo o del prodotto.

Vi sono alcuni casi in cui è proprio il colore a costituire l’elemento distintivo del brand. Un esempio su tutti è il blue di Tiffany (più comunemente conosciuto come “verde Tiffany”).

Come dimenticare, poi, lo sfondo iconico e rosso di Coca-Cola? O la M gialla di McDonald’s?

Nel marketing e, in maniera particolare, nel branding, la cosiddetta color psychology si focalizza su come i colori possano avere un impatto sulle impressioni e sensazioni dei consumatori, fino a persuaderne l’acquisto.

Che ci crediate o no, se Tiffany avesse scelto il nero o il rosso, molto probabilmente il marchio non avrebbe avuto lo stesso successo.

psicologia colore marketing

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Psicologia del colore

La psicologia del colore è molto importante, soprattutto se si sta costruendo un nuovo business o, ancora, se si stanno valutando delle strategie di rebranding.

In effetti, il colore rappresenta uno strumento essenziale non solo per riuscire a farsi notare, ma anche per lanciare un messaggio, intriso di determinati valori.

Ciascun colore ha le proprie caratteristiche, che vengono riconosciute da tutti gli appartenenti a una determinata cultura.

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Non si tratta di caratteristiche universali e innate, ma divenute convenzionali grazie ai vissuti condivisi dei gruppi umani.

In particolare, nella società occidentale ai colori basic sono riconosciute le seguenti peculiarità:

  • Giallo: ottimistico e giovanile, utilizzato spesso per attirare l’attenzione.
  • Rosso: passione ed energia. Anch’esso utilizzato per attirare l’attenzione, ad esempio, durante le vendite promozionali.
  • Blu: sicurezza e fiducia. Non è un caso, infatti, che venga utilizzato spesso da banche e aziende.
  • Verde: associato alla natura e alla salute.
  • Rosa: romantico e femminile, utilizzato nella maggior parte dei casi per prodotti destinati alle donne.
  • Nero: tonalità potente ed elegante, spesso utilizzata per prodotti luxury.
  • Viola: calma e relax, utilizzato per prodotti di bellezza e anti-age.

Inoltre, i colori possono indurre determinati comportamenti d’acquisto.

I colori forti, come il rosso e l’arancione, sono colori adatti all’acquisto di impulso. Li incontriamo spesso negli outlet, nei fast food, durante le vendite promozionali.

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Rosa e celeste, ad esempio, sono spesso utilizzati nel settore fashion, rispettivamente femminile e maschile.

Ancora, i colori di un brand o di un website possono influenzare emozioni e stati d’animo.

Ecco perché le aziende scelgono colori coerenti con la propria attività e con il proprio posizionamento di mercato.

Inoltre, la scelta dei colori aiuta a comunicare l’essenza del brand e definire il pubblico a cui rivolgersi.

Donne e uomini, ad esempio, apprezzano tonalità differenti: il pubblico femminile, in genere, gradisce le tonalità del blu, viola e verde; gli uomini preferirebbero il nero, blu e marrone.

Not only sales

Il marketing non è solo una questione di vendite. In effetti, prima delle vendite vi è un insieme di operazioni finalizzate a persuadere il pubblico, tra le quali la scelta dei colori del brand, della campagna pubblicitaria, del website e degli store.

E, anche in questo caso, non è una mera questione di vendite, ma di emozioni e sensazioni, indotte dai colori.

Cindy Lauper docet.

L’evoluzione dell’azienda è già cominciata (e non ce ne siamo accorti)

  • La pandemia ha cambiato tutto: anche il modo di concepire il rapporto fra aziende e consumatori.
  • Quando parliamo di Purpose, parliamo di qualcosa di tangibile e sempre più determinante. Influenzerà il futuro del concetto stesso di “company”?
  • Le aziende, è ormai assodato, sono in tutto e per tutto delle piattaforme: cosa c’è dopo?

 

Preparing for the new reality. KPMG non poteva scegliere titolo più evocativo per presentare in un report uscito lo scorso giugno sui trend globali relativi al mondo retail, ovviamente frutto di un primo semestre dell’anno che ci ha portato a cambiare radicalmente il nostro percepito del mondo.

La società di consulenza svizzera isola quattro macrotrend che saranno al centro delle strategie di chi si occupa di retail:

  • l’implementazione dell’eCommerce come direzione strategica obbligatoria, in un mercato che ha dovuto confrontarsi con l’impossibilità a spostarsi;
  • la conferma del Purpose come driver indispensabile alla relazione con il consumatore;
  • il concetto di Profittabilità del business, che deve essere riconsiderato partendo dal presupposto che la riduzione dei costi non è l’unica soluzione per il mantenimento dei margini di guadagno;
  • la conoscenza dei consumatori, che dev’essere sempre più approfondita, garantendo la reperibilità della merce più che un vasto assortimento.

Distribuzione, valori, marginalità e modelli, offerta commerciale: era evidente che il COVID avrebbe impattato sul concetto alla base dell’idea di negozio, di distribuzione, anche di esperienza di consumo. Ma come questi fattori si intersecano fra loro, e perché, forse esula anche dalla pandemia stessa, aprendo a ragionamenti che sono più legati al mondo che il COVID-19 ha mostrato.

Prendiamo un altro aspetto: il modo di lavorare.

Per molte aziende il lockdown è stata l’occasione per sperimentare il lavoro da remoto: secondo Eurofound, il lockdown ha costretto al remote working il 40% circa dei cittadini europei. Un primo passo per aprirsi al mondo del lavoro agile, che è diventato anche nei mesi che hanno seguito il periodo di quarantena un tema di discussione non più rinviabile.

Allo stesso modo, sempre KPMG già a marzo parlava di un nuovo rapporto con il risk management, indicando come necessario per i CEO cominciare a concepire nelle proprie strategie di contrasto alle crisi anche gli scenari geopolitici e sanitari, facendo proprio un approccio data driven che sia sempre più a “trazione predittiva”.

Se con il virus riusciremo ad un certo punto a fare pace, grazie si spera ad una cura, con i suoi effetti dovremo far conto per anni, a tutti i livelli. Nelle aziende, ancor di più.

Da piattaforme a comunità

Diciamolo pure: per molti il lockdown è stata una specie di epifania.

Così come i dipendenti hanno capito -molti, almeno- che il loro lavoro poteva diventare veramente agile, in una nuova modalità che comprendesse flessibilità negli orari e nuovi KPI per la misurazione della propria attività, così i consumatori hanno cominciato a rivedere le proprie abitudini, privilegiando un approccio spurio al consumo, dove i grandi marketplace digitali venivano affiancati dal piacere di tornare fisicamente ad acquistare beni e servizi.

Torniamo per un attimo al Purpose, di cui si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi ma che già da diversi anni sta spingendo sempre più le aziende a interrogarsi sul quale sia la strada migliore per interpretare il proprio set valoriale.

Da un punto di vista strettamente narrativo, non può esistere un Purpose senza che ci sia una reale concretizzazione dello stesso sotto forma di esperienze, che devono essere tangibili e coinvolgenti per tutti gli stakeholder aziendali.

Che forma avranno le esperienze?

Il COVID-19 ha aiutato a ricalibrare le priorità, e conseguentemente le necessità e le aspettative dei consumatori. Secondo lo Spring Update del report 2020 Edelman Trust Barometer, ad esempio, si indica come il 64% degli intervistati indichino necessario un riequilibrio delle risorse fra componente “ricca” della società e la working class, mentre il 67% indica come sempre più importanti valori come la salute e l’istruzione.

Riferimenti che c’erano anche prima della pandemia, ma che semplicemente sembravano meno prioritari nelle agende delle persone. Stesso discorso per il Global Warming e i cambiamenti climatici, che stanno rapidamente salendo nella classifica poco edificante delle urgenze da risolvere: secondo la Banca dei regolamenti internazionali, saranno proprio loro a scatenare la prossima crisi finanziaria.

Ecco che allora le esperienze serviranno a rendere concreti propositi che necessariamente dovranno essere sempre più tangibili, condivisi e soprattutto distribuiti.

In altre parole, le aziende dovranno passare dal proporre visioni ideali e talvolta utopistiche a progettazioni reali che ne giustifichino l’esistenza anche da un punto di vista sociale, oltre che economico: le esperienze che proporranno saranno quindi il volano per il realizzo di essi.

Per questa ragione, da un sistema più legato alle logiche di piattaforma, stiamo vedendo evolvere il concetto di azienda verso una logica di community, in cui tutti gli stakeholders diventano parte integrante di un ecosistema dove a far da padrone è la co-creazione di senso, e in cui si lavora per un benessere diffuso e distribuito.

Un principio di narrazione transmediale in cui l’obiettivo è edificare un universo di marca incentrato sul Purpose, e dove le dimensioni spaziali e temporali che lo compongono siano condivise non solo da chi dell’azienda fa parte, ma anche da chi attraverso le proprie aziende le permette di esistere: i consumatori, prima di tutto.

Forse l’evoluzione che stiamo osservando non è così remota o inattesa: era evidente da tempo che i ritmi di crescita che l’umanità ha osservato nell’ultima metà del ‘900 siano insostenibili alla luce dei paradigmi di produzione e consumo che li hanno permessi.

Quello che è forse inatteso, ed è probabilmente uno dei pochissimi effetti positivi che la pandemia ha avuto, è stato capire che un altro futuro è possibile, dove le aziende lavorano strenuamente per generare profitto e, al contempo, benessere reale e duraturo per chi le sceglie -e non solo- nel tentativo di lasciare qualcosa di più che un semplice ricordo di marca. Dove il consumo può essere veramente sostenibile, e anche dove il lavoro deve andare in una direzione più “umana” e meno “meccanica”.

Probabilmente è una fase di transizione quella che stiamo vivendo, e non sappiamo dire quanto sarà effettivamente lunga e complessa: quello che però sembra chiaro è che all’orizzonte qualcosa è cambiato, e le aziende sono al centro di questo cambiamento.

Chi se ne renderà conto otterrà un vantaggio competitivo non secondario: perché è vero che si deve lavorare per un Purpose, ma è pur vero che questo si può e deve realizzare (anche) con un profitto.