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Il Coronavirus ci obbliga ad accelerare e così la digital transformation diventa virale

  • L’epidemia ci ha costretti a fermarci ma anche ad accelerare, per dare una risposta nuova alla sfida della produttività da casa;
  • Smart working, telelavoro, videoconferenze ed eLearning sono diventati gli strumenti più utili per fronteggiare l’emergenza e hanno dato una scossa alla digital transformation.

 

È venerdì mattina e come ogni venerdì mattina suona la sveglia, ma è venerdì e sorridi pensando al weekend, al carnevale. Davanti al primo caffè della giornata, come di consueto, apri il tablet controlli l’agenda del lavoro e quella personale, poi apri un quotidiano online per i soliti aggiornamenti tra economia, cultura, sport e cronaca.

Il Coronavirus è argomento che tiene banco da qualche tempo, preoccupa, in parte inquieta ma Wuhan è distante. Tante polemiche, tanto razzismo, tanta disinformazione, tanti luoghi comuni.

Pensi a come la loro economia stia risentendo di una situazione da film apocalittico, di come le persone siano obbligate a non uscire e a non avere contatti, a come le aziende abbiano modificato le loro organizzazioni per continuare a produrre, non cedendo allo stato di immobilismo creato dal virus stesso.

Per un attimo ribalti la situazione di Wuhan qua, per un attimo fai un parallelismo, come gestiremmo la situazione qui in Italia?

Inizi a pensare a delle soluzioni ma ti fermi, non è qui.

Non è così.

coronavirus digital transformation

Venerdì 21 Febbraio 2020

È venerdì 21 febbraio, mattina, il Coronavirus, non più distante, è a pochi km da te.

In un attimo cambia tutto.

La notizia si diffonde, inizia il tam tam mediatico in pochissimo tempo si parla di contagi che salgono, ospedali al collasso, zone rosse, zone gialle, quarantena, isolamento, chiusura di uffici, scuole, esercizi pubblici.

Si blocca la provincia di Lodi, in poco tempo si blocca la zona metropolitana di Milano, si blocca una regione si blocca una nazione.

Evitare gli assembramenti! Provvedimento doveroso, precauzionalmente corretto ma le conseguenze sono altrettanto importanti.

L’economia italiana, in generale, è composta primariamente da piccole e medie aziende (anche di grandi aziende, in minoranza). Nella zona del primo focolaio, il lodigiano, l’economia è composta primariamente da aziende legate all’agricoltura.

La Lombardia traina gran parte dell’economia italiana insieme alle altre regioni del nord, anche loro rallentate, fermate.

Come affrontare uno stop così pesante? Come garantire continuità lavorativa?

Le persone entrano nel panico, non vogliono raggiungere il posto di lavoro, non prendono i mezzi pubblici, anzi è il governo che invita tutte le imprese a fermarsi, invita le persone a non uscire di casa.

Stop. Fermiamoci. Ma il nord produttivo, come dicono spesso, si sa non si ferma.

Non si ferma per mentalità, per orgoglio, per deformazione professionale perché il passato agricolo legato al sacrificio è sempre vivo.

Non si ferma la produttività, intendiamoci, nel rispetto delle regole imposte dal governo.

Ecco che l’emergenza virus diventa un’occasione da cogliere, se il virus blocca gli spostamenti e svuota gli uffici, la tecnologia è pronta per essere messa sotto stress e diventare essa stessa virale.

Ecco che in meno di due giorni, il weekend per intenderci, cambia la mentalità, cambia la prospettiva. Parte la rivoluzione culturale.

Perché la digital transformation è innanzitutto questo, cambiare prospettiva.

smart working consigli

E quale occasione migliore se non un’emergenza di questo tipo, per poter assimilare e interiorizzare un cambio culturale che stavamo faticando a recepire?

Nei settori produttivi ove ciò è possibile.

In un weekend le aziende attivano in poco tempo:

  • Smartworking
  • Telelavoro
  • Task force tramite chat
  • Videoconferenze

Si creano VPN, desktop remoti, si configurano pc, si testano connessioni lo si fa in estrema naturalezza e non lo fanno solo i manutentori delle infrastrutture IT lo fanno direttamente le risorse interne alle aziende, quelle che nella quotidianità non hanno mai creato un tunnel vpn.

Perché la digital transformation parte dalla consapevolezza interna delle persone, dall’accettazione del cambiamento come naturale, dalla presa di coscienza che certe digital skill si apprendono anche senza averle già nel proprio background, che una volta apprese aprono le porte al cambiamento e la tecnologia ci segue, si adatta a noi e non viceversa.

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Come il digital è diventato virale?

Smart working

Al fine di limitare i contatti e gli assembramenti i datori sono invitati ad attivare, velocemente, la modalità di lavoro smartworking anche in assenza di accordo individuale (DPCM 11 Marzo 2020).

È importante la continuità lavorativa in un momento così difficile per evitare che le aziende vadano in crisi.

Secondo l’art. 2, c.1, lett. r) del DPCM 8/03/2020, è possibile applicare lo smart working, senza ricorrere all’accordo di cui alla Legge 81/2017, per tutta la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020. Lo stato di emergenza dovuto a coronavirus, ha una durata di 6 mesi decorrenti dal 31 gennaio 2020. Ne consegue che il termine ultimo per la durata degli smart working non può essere superiore al 31/07/2020 (ossia la scadenza dei 6 mesi).

Salva la deroga dell’accordo individuale, rimangono tutti gli altri adempimenti legati all’attivazione dello smart working individuati dalla Legge 81/2017.

Al fine di semplificare questo adempimento, vista la particolarità del periodo in corso, il DPCM 8/03/2020 prevede che quest’obbligo “possa essere assolto in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile dall’INAIL”. Invece l’accordo individuale può essere sostituito con una semplice lettera da consegnare ai lavoratori e da un file excel. Quest’ultimo va inoltrato al Ministero del lavoro con la procedura telematica (Fonte: lavorofacile.it).

Formazione aziendale/professionale a distanza

In un periodo di limitata mobilità e di riduzione del contatto sociale la formazione tradizionale, in aula, viene messa da parte per lasciare spazio alla formazione in modalità e-learning.

Consulenti del Lavoro, Commercialisti e professionisti in genere che necessitano di formazione aggiornata e costante possono continuare a formarsi, anche in questo momento difficile. Possono fare rete, porre quesiti e confrontarsi con gli esperti del settore e dare quindi continuità al loro lavoro e risposte alle aziende.

Non solo formazione per l’aggiornamento professionale normativo, ma anche formazione per sviluppare le digital skill, ora che oltre ad apprenderle, si possono da subito provare direttamente sul campo.

LEGGI ANCHE: L’Italia guarda al futuro e punta sulla formazione con Rinascita Digitale

Formazione a distanza digital transformation coronavirus

Meeting online

Riunioni vietate, ma call e meeting online sono forse gli strumenti che da più tempo fanno parte della nostra routine lavorativa.

È possibile organizzare e partecipare alle riunioni in un click via web.

Sono tool davvero molto evoluti, che vanno ben oltre la semplice telefonata, si possono condividere schermi e lavorare su documenti a più mani, da più pc.

Cloud

Il cloud, i nostri dati dove e come vogliamo i server online ci salvano in questo periodo di difficoltà.

Le informazioni organizzate in un unico punto, raggiungibile anche all’esterno dell’aziende, permettono una corretta circolazione delle informazioni e un processo lavorativo continuo e condiviso.

Le software house che hanno investito in questa direzione stanno oggi dando un servizio di valore aggiunto, aiutando i loro clienti a recuperare documentazione e a condividerla in libertà e sicurezza (da qualsiasi dispositivo).

Tele-assistenza

In un momento così delicato l’utilizzo di strumenti di teleassistenza consente alle aziende di potersi affiancare ai propri clienti dando supporto tecnico e pratico senza la presenza fisica dell’operatore.

La configurazione di un pc, di un server può avvenire a distanza così come il supporto sui macchinari.

Scuola Online

Le scuole di ogni genere e grado sono chiuse. Le università sono quelle che da tempo hanno adottato strumenti di distance learning e, quindi, quelle che in meno tempo e con un minor sforzo hanno potuto dare continuità alla didattica.

Discorso differente per primarie, medie e superiori.

Ogni scuola si è organizzata autonomamente, chi con video su YouTube, chi con video sui social, chi con Skype ma c’è chi ha osato utilizzando strumenti evoluti quali Google Classroom o WeSchool di Tim.

La scuola online è un tema delicato, spesso gli studenti della primaria necessitano di un affiancamento costante di un adulto che molto probabilmente sarà accanto al figlio, in smartworking e quindi impegnato nella sua attività lavorativa.

Il nostro sistema scolastico è pronto per essere digitalizzato ma, forse non è pronto per organizzarsi in così poco tempo.

Le Università da diversi anni utilizzano sistemi di insegnamento a distanza, con ottimi risultati e con soddisfazione alta degli utenti.

Primarie, medie e superiore hanno più che altro sperimentato pillole di insegnamento online, per un periodo limitato ma mai per un periodo di emergenza così prolungato nel tempo (salvo piccole eccezioni).

Grazie alle iniziative promosse dal Ministero per l’Innovazione Tecnologica e l’Agenzia per l’Italia digitale, è stata creata una bellissima iniziativa denominata “solidarietà digitale” attraverso la quale le aziende, privati e associazioni mettono a disposizione servizi tecnologici gratuiti per affrontare al meglio l’emergenza.

Tra questi servizi si annoverano anche strumenti per la didattica a distanza, utili anche per le scuole di grado inferiore.

Il 26 Marzo la minstra dell’Istruzione Azzolina, ha affermato che la didattica ha distanza ha raggiunto più di 6,7 milioni di alunni e che il 67% delle scuole che hanno attivato l’attività a distanza, prevede per essa specifiche forme di valutazione.

L’89% delle scuole ha anche predisposto attività e materiali specifici per gli alunni con disabilità. Il 48% delle scuole ha svolto riunioni degli organi collegiali a distanza. Per spingerla ulteriormente sono stati stanziati 85 milioni (Fonte: Ilsole24ore).

Scuola online

Scuola online digital transformation coronavirus

Solidarietà digitale

Alla luce degli aggiornamenti contenuti nel Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, che amplia le zone soggette a restrizioni per le misure di emergenza sanitaria a contrasto della diffusione del Coronavirus (SARS-CoV-2), MID e AGID hanno trovato un accordo aziende e associazioni per consentire a queste ultime di mettere a disposizione servizi gratuiti utili a:

  • Agevolare il lavoro da remoto, con connettività veloce e attraverso corrette piattaforme di Smart working;
  • Promuovere la didattica a distanza nelle scuole (su consiglio del MIUR);
  • Permettere lo svolgimento della vita quotidiana come: fare la spesa, attività sportiva, vita politica o religiosa;
  • Permettere la lettura di libri e quotidiani tramite smartphone o tablet.

A questa iniziativa possono partecipare tutte le aziende, che erogano servizi digitali, da fornire gratuitamente per un periodo limitato di tempo a tutta la popolazione.

Tutti i cittadini italiani possono usufruire dell’iniziativa.

LEGGI ANCHE: Smart Working e Solidarietà Digitale: strumenti e iniziative per il lavoro al tempo del Coronavirus

E-Salute e Telemedicina

I medici si stanno attrezzando per contattare virtualmente i pazienti in quarantena domiciliare, per poterli assistere anche a distanza, soprattutto in un momento in cui la sanità è al collasso e tutto il personale medico sanitario è impegnato h24 per affrontare l’emergenza.

La tecnologia ci viene incontro anche per istituire task force tra medici, scienziati e ricercatori. Analizzare i dati del contagio, attraverso evoluti sistemi di Intelligenza Artificiale, aiuterà gli addetti ai lavori a comprendere come il virus muta e si comporta e per prevedere quali cure sono più efficaci.

Come riporta il Mise, partono i nuovi incentivi previsti dal Decreto #CuraItalia per la produzione e fornitura di dispositivi medici e di protezione individuale per il contenimento e il contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19.

In tutto 50 milioni di euro per sostenere le aziende italiane che vogliono ampliare o riconvertire la propria attività per produrre ventilatori, mascherine, occhiali, camici e tute di sicurezza.

Si tratta di risorse che, rientrando nel regime degli aiuti di Stato, sono state autorizzate in meno di 48 ore dalla Commissione europea, dopo che la scorsa settimana il Ministero dello Sviluppo economico aveva immediatamente notificato alla Ue la misura introdotta nel Dl Cura Italia, in modo da consentirne un veloce utilizzo.

Problemi di Connessione

La viralità della DT ha certamente evidenziato evidenti problemi di stabilità della connessione, di copertura della connessione sul territorio nazionale e di saturazione delle reti dati.

Le nostre reti non erano pronte ad uno smart working forzato e di massa.

Secondo una ricerca della giornalista Manuela Gabbanelli, circa 11 milioni di italiani si trovano a lavorare da casa in assenza di connessione.

Questo è un tema importante e cha va affrontato subito. Essere pronti a remotizzare il lavoro passa anche da connettività efficaci ed efficienti.

In questo l’Italia sembra essere ancora indietro rispetto agli altri paesi europei.

Il commissario UE per il mercato interno per evitare il sovraccarico di rete, ha alle piattaforme di streaming video di non utilizzare l’alta definizione in questo periodo. Netflix ha risposto riducendo la definizione dei suoi contenuti per circa 30 giorni, lo stesso ha fatto Youtube.

La viralità non convenzionale della digital transformation

L’Italia in questa emergenza si è dimostrata pessima per alcuni comportamenti irrispettosi e irresponsabili ma, come sempre, ha mostrato il suo lato creativo e pragmatico.

Sono nate differenti iniziative che hanno portato la digitalizzazione e la tecnologia in settori dove la socialità e l’aggregazione sono il punto forte.

Ristoranti o servizi di ristorazione

Le attività di ristorazione, bar, locali sono stati duramente colpiti dalle misure restrittive, emanate dal Governo, e si sono attivate per trovare nuove modalità di lavoro.

Menù smartworking, ordina su whatsapp e ricevi il tuo smartlunch a domicilio, chiusi al pubblico attivi direttamente da te: queste alcune delle iniziative intraprese da bar, ristoranti e locali.

La consegna? Rigorosamente con guanti, mascherina e distanza di sicurezza.

Supporto psicologico online

Iniziativa di Luca Mazzucchelli per dare supporto alla prima zona rossa del lodigiano, quelli che sono stati subito “chiusi” per 15 giorni al fine di contenere il contagio.

Un utile supporto per chi ha visto cambiare la sua vita in poco tempo.

Sport online

Palestre e centri sportivi chiusi, ma l’allenamento non è compromesso!

Sono numerose le iniziate legate alle lezioni online, ai workout personalizzati, alle sessioni di allenamento via skype, zoom ecc.

I coach analizzano le attrezzature a disposizione e creano il corretto mix di esercizi. Il tutto diventa virale, perché la socialità fisica è inibita, ma la socialità virtuale no.

Ecco che quindi i centri sportivi spingono a condividere l’allenamento, a mostrarsi attivi nonostante il virus tenda invece a collocarci sul divano.

Spesa OnLine

Qui nulla di nuovo ma solo un’impennata di richiesta di consegne a domicilio che hanno stressato il sistema portandolo in alcuni casi al collasso. Esselunga, Amazon, Carrefour e Bennet ecc si sono trovate subissate di richieste.

LEGGI ANCHE: #IoRestoaCasa: ecco le risorse gratuite messe a disposizione dalle aziende italiane per l’emergenza Coronavirus

Cambiamenti digital transformation coronavirus

Quando cambiamento vuol dire digital transformation

La grave situazione di emergenza sanitaria che si è abbattuta sull’Italia ha rivoluzionato, in poco tempo, il tempo di vita e il tempo di lavoro di tutti gli italiani. Ha però evidenziato quanto siamo capaci di adattarci velocemente ai cambiamenti, sfruttando la tecnologia in modo attivo e non passivo.

Questo passaggio mostra un forte cambio culturale, quello necessario per intraprendere il percorso di digitalizzazione.

Nella crisi ci siamo trasformati, abbiamo appreso nuove skill digitali ci siamo evoluti e se il virus ci ha chiuso nelle nostre case (#iorestoacasa) la tecnologia ci ha aperto verso nuove frontiere. Verso un nuovo modo di lavorare.

In un modo o in un altro, usciremo da questa crisi cambiati.

Certamente la tecnologia non avrà aiutato la maggior parte delle attività che hanno un contatto, quasi esclusivo, con il pubblico. Il danno economico rimane, quello non si cancella ed è anche grande.

Il governo deve vigilare e intervenire subito, con interventi reali a sostegno dell’economia, delle imprese e delle famiglie.

L’Europa deve fare cerchio su questa situazione, tutelare il mercato interno, tutelare le persone.

Gli altri siamo noi, non solo uno spot ma una vera attualità.

tecnologia 4.0

Che cosa sono le tecnologie 4.0, spiegato con una mini-serie TV

Sentiamo sempre più spesso parlare di tecnologie 4.0 e sempre più spesso queste entrano nella vita di tutti noi, anche se non ne siamo consapevoli.

Capire a cosa ci si riferisce quando si parla di industria 4.0, automazione, realtà virtuale o digital transformation non è così semplice per chi non si occupa nello specifico di queste realtà. Per questo nell’ambito delle proposte di Rai per l’Inclusione Digitale, Societing 4.0 ha creato una mini-serie video che prevede sei video-interviste a luminari delle tecnologie 4.0 realizzate dai ragazzi del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli.

tecnologia 4.0

Scoprire la tecnologia 4.0 con una serie TV

Le sei puntate avranno un focus su Robotica, Big Data, Intelligenza Artificiale, Stampa 3D, IoT, Realtà Virtuale/Aumentata.

Un format diffuso in occasione delle giornate di quarantena per la sicurezza del Paese, realizzato nel corso dell’ultimo anno da 30 giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali, che hanno partecipato al tirocinio come “Facilitatori della Trasformazione Digitale delle PMI”, hanno visitato i laboratori dove nascono e si sviluppano progetti tecnologici 4.0, e gli esperti hanno risposto con un linguaggio semplice e alla portata di tutti su cosa siano realmente le tecnologie abilitanti e quali le loro applicazioni e utilità per il nostro tessuto economico.

Per permettere a tutti di capire di cosa si parla quando si dice 4.0, l’iniziativa coordinata dal programma di ricerca/azione Societing4.0 e dal progetto PIDMed (Punto Impresa Digitale Mediterraneo) promosso dall’Università degli Studi di Napoli Federico II con la Camera di Commercio di Salerno e con il supporto di Unioncamere e del Ministero dello Sviluppo Economico, punta a raccontare con uno sguardo dal vero ciò che accade in centri per l’innovazione e laboratori oggi.

Chi ci condurrà in questa scoperta

Un modo per scoprire dal vivo e guardandolo con i propri occhi quello che il mondo dell’innovazione sta costruendo e sta portando nelle nostre vite.

Tra gli scienziati intervistati ci saranno Bruno Siciliano – Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologia dell’Informazione (Manifattura avanzata/Robotica), Silvia Rossi – Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione (Intelligenza artificiale), Giuseppe Di Gironimo – Dipartimento di Ingegneria Industriale (Realtà virtuale/aumentata), Massimo Martorelli – Dipartimento di Ingegneria Industriale (Additive Manufacturing/Stampa 3D), Leopoldo Angrisani – Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione (Industrial Internet/IoT), Antonio Picariello – Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione (Big Data and Analytics).

Sul Coronavirus: riflessioni sulla libertà e sulla coercizione

  • L’ammissione del nostro deficit informativo e la delega a terzi delle risposte è un processo normale in tempi ordinari;
  • Le situazioni emergenziali, invece, sono ottimi esempi per costringere le persone a fare quello che si vuole, senza lasciar loro il tempo di pensare a quello che stanno facendo;
  • Il prof. Carlo Lottieri, docente di Filosofia del Diritto all’Università di Verona e Filosofia delle Scienze Sociali a Lugano, ci offre qualche riflessione sulla libertà nell’emergenza Coronavirus.

 

Una canzone di Brunori spalmata su una sequenza di Instagram Stories degli italiani dai balconi, eppure la conduttrice di SkyTG 24 mi aveva promesso che avrebbe aperto con una buona notizia. Cambio canale, su History trovo opportuna la réclame di un documentario sui gulag cinesi.
“The Chinese virus”. La trovata comunicativa del presidente Trump sembra perfetta nella sua semplicità, tagliente ed esplosiva allo stesso tempo. Perché si ostina a chiamarlo virus cinese? Gli chiede una giornalista; perché viene dalla Cina risponde lui, passando alla prossima domanda.

Un amico mi chiama da Milano, vittime in famiglia a causa del virus cinese. Scrollando Facebook vedo un meme che dà la nuova definizione del “butterfly effect”: un orientale che mangia un pipistrello e tu che ti trovi a cantare l’inno di Mameli in pigiama sul balcone.

Da emergenza sanitaria a dittatura sanitaria?

Immaginate di trovarvi in una situazione di confusione: avete appena tamponato la macchina di fronte a voi, tuttavia la precedenza non è chiara, l’altro guidatore scende e vi insulta, quel foglio della constatazione amichevole dove sarà finito chissà. Decidete di fare la foto alla targa col cellulare e di ripartire. Non vi siete presi la colpa, non avete agito d’impulso, non avete replicato agli insulti; adesso siete a casa e chiamate il vostro amico avvocato specializzato in sinistri. Quando non siete sicuri della scelta da fare di solito vi affidate a una persona di fiducia o a un professionista che ne sa più di voi e che può consigliarvi al meglio.

L’ammissione del nostro deficit informativo e la delega a terzi delle risposte è stata finora una leva intelligente per fare rete (tra persone o imprese) e progredire.

Adesso immaginate di trovarvi in una situazione totalmente nuova: non è la pandemia zombie che aspettavate, è una cosa molto più banale, ma tragica dal punto di vista del numero di lutti: una pandemia di polmonite. Non avete amici che possano consigliarvi, i virologi sono pochi e li vedete solo in TV, la politica dà retta agli “scienziati”, che ora sono gli ospiti fissi dei talk show. Optate per la via più semplice: mettere il cervello in “pilota automatico” e delegate il pensiero a chi esercita il potere.

Per chi sei essenziale?

Mentre scrivo cerco il codice ATECO della mia ditta, non so se potrò rimanere aperto. Ma cosa intendono per servizi essenziali? Il bar che mi permette di fare eccellenti colazioni al mattino è essenziale per me. Se è l’individuo a comporre lo Stato, il concetto di “essenziale” dovrebbe essere un concetto privato.

Riprendo in mano Ludwig Von Mises, pensatore ed economista di scuola austriaca, che sfoglio sempre quando cerco qualche nuova, vecchia risposta: esiste solo l’individuo, mi conferma: solo l’individuo pensa, ragiona, agisce. Lo Stato e la società, di fatto, non esistono come soggetti a sé stanti: «La società non esiste che nelle azioni degli individui». Dunque esiste una società che possa operare indipendentemente dagli individui? Può lo Stato esserne il portavoce? Mises ritiene questa ipotesi «Un’assurdità pericolosa sia dal punto di vista etico che politico».

Il pericolo di una dittatura sanitaria è proprio quello che Marcello Veneziani ha scritto per primo in un recente editoriale, chiedendosi le ragioni profonde della paura.

«Se il modo in cui spendi la vita vale più della vita stessa, se l’aspettativa dell’Aldilà supera la difesa della pelle qui e ora, ad ogni costo, allora magari puoi scommettere fino in fondo. Se sei disposto a rischiare anche la vita hai una libertà che nessuno può toglierti. Ma se tutto è qui e non ci aspetta altro, né la gloria né l’eternità, allora la vita è l’assoluto e per lei siamo disposti a tutto, in balia di chiunque possa minacciarla o proteggerla».

Se tutto il significato della nostra vita fosse il “qui e ora” allora il nostro attaccamento al presente potrebbe portarci a un conformismo acritico nei confronti di chi dice di “farlo per il nostro bene”. Ma se la qualità della vita e una prospettiva eterna valessero invece più della vita stessa? Allora avremmo maggiore propensione a prenderci qualche rischio. Le situazioni emergenziali sono ottimi esempi per costringere le persone a fare quello che si vuole, senza lasciar loro il tempo di pensare a quello che stanno facendo.

Non sono un virologo ma…

Ho finito le telefonate: dottoresse, biologi, giornalisti, colleghi e clienti che vivono nelle aree più colpite.
Quale sarà il reale costo umano di questa crisi, una volta che l’emergenza sanitaria sarà passata? Oltre a migliaia di tremendi lutti e agli imponenti danni economici, come conteremo i danni inflitti alle libertà fondamentali? Quanti ragazzi dovranno tornare a vivere con i propri genitori, quante piccole aziende chiuderanno i battenti? Quanti imprenditori decideranno di farla finita, come dopo la crisi del 2008?

«Ciao David!», la voce del prof. Carlo Lottieri mi ricorda quegli anni, sinceri e senza compromessi, in cui pensi di fare la rivoluzione. Carlo insegna Filosofia del Diritto all’Università di Verona e Filosofia delle Scienze Sociali a Lugano, in Svizzera. Ma sogna ancora la rivoluzione.

«Sai qual è la metafora più efficace per descrivere questo periodo? È quella di un paziente in coma (da debito pubblico, nel nostro caso) che si becca pure il coronavirus».

Ci avevano detto che la fortuna della nostra generazione era la libertà: non aver conosciuto restrizioni, non aver avuto a che fare con le tragedie dei regimi o della guerra civile. Adesso vediamo dirette del presidente del Consiglio su Facebook e gli old media bypassati definitivamente.
Quella brutta abitudine di leggere i “commenti” su Facebook: tutti a volerne di più, di restrizioni, di Stato. I militari in strada? Una grande idea.

Carlo, abbiamo bisogno dei carri armati?

«Non c’è mai bisogno dei carri armati: di fronte a un’emergenza adatti i tuoi comportamenti. Hai notato i cinesi in Italia, ad esempio? Sono spariti prima ancora che la pandemia esplodesse».

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Tutto il mondo lo fa, perché non dovremmo farlo noi?

«Mi chiedi chi ha ragione? Noi cittadini non abbiamo strumenti per decidere in un senso o nell’altro. Certamente da noi le ipotesi più catastrofistiche sono molto apprezzate da politici che adottano soluzioni autoritarie per mettere sotto sequestro le libertà fondamentali».

La mia domanda a Carlo è forse un po’ ingenua nella sua semplicità, ma sincera: perché questo bisogno di limitare le libertà individuali?
«Perché sia le persone che lo Stato sottovalutano la forza dei sistemi adattivi. Stiamo sperimentiamo una fragilità della società».

Mi sto già perdendo. «Ti spiego: la convivenza si basa su dei diritti: tuttavia, in questo frangente, sappiamo cosa è realmente legittimo? Abbiamo degli oggettivi problemi conoscitivi che rendono peculiare la situazione. Solitamente, sappiamo ciò che è lesivo dei diritti altrui e ciò che non lo è. In questo caso però lo Stato qualifica come illegittimo perfino fare visita alla propria fidanzata e in tal modo non trova più barriere di fronte a sé. In nome del nostro bene assume decisioni che sono oggettivamente liberticide e non necessariamente giustificate».

Eppure, nonostante tutto, le persone chiedono più Stato: «Perché lo Stato si basa sulla promessa della tutela dell’incolumità, ma questa tutela non può esserci se non esercitando l’uso sulla forza, di cui lo Stato detiene il monopolio».

In sostanza Carlo mi spiega che ci hanno fatto credere di non essere in grado di badare a noi stessi e allo stesso tempo ci hanno tolto, per legge, la possibilità di difenderci.

Nel frattempo, ho trovato il mio codice ATECO, posso tenere aperta la mia ditta, sono un’attività essenziale. Mi sento quasi lusingato e immagino Conte che mi strizza l’occhiolino. Domani prenderò la macchina e andrò in ufficio, come tutte le mattine.  Mi concedo un’ultima battuta con Carlo e gli confesso di aver sentito analisti che davano la colpa della pandemia al libero mercato: troppe connessioni, dicono.

Carlo si mette a ridere: «Certo, se eravamo cacciatori raccoglitori probabilmente tutto questo non sarebbe successo».

Come ci giudicherebbe Tintoretto?

Il prof. Lottieri sta tornando a casa, a Venezia. Le lezioni adesso sono diventate video-lezioni. Il suo treno è quasi a S. Lucia e noi ci diamo appuntamento a “Quando sarà tutto finito”, come si dice adesso.  Mi manca non poter camminare per Venezia in queste settimane, cosa te ne fai di una cura per il dolore se non ne puoi goderne nei momenti di sofferenza? 

Appoggio il telefono nella scrivania dell’ufficio, accanto al libro sul Tintoretto, che tengo sempre lì, in evidenza, per ricordarmi che in ogni campo della vita si può essere una rock star. Tintoretto nonostante la peste, tenne aperta la propria bottega e continuò lavorare, creare, fare la storia. Era il 1575 e, mentre i cadaveri riempivano le calli, il Robusti finiva da solo il suo lavoro più imponente: il ciclo di affreschi della Scuola di San Rocco. Nemmeno Michelangelo aveva finito da solo la Cappella Sistina. Grazie a lui, e al coraggio di tanti come lui, Venezia non si era fermata nemmeno durante l’epidemia più devastante della sua storia.

Il risultato? La bellezza assoluta, che quando tornerete in Laguna vedrete di nuovo con i vostri occhi.

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MSD Italia dona tecnologie e strumenti per supportare le Istituzioni Italiane nell’emergenza COVID-19

MSD Italia si schiera al fianco delle Istituzioni italiane con la donazione di tecnologie e strumenti che consentono il monitoraggio, il trattamento e il controllo dei pazienti cronici da remoto per un valore di mercato fino a 1,5 milioni di euro.

“Come ricordato dal Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro – ha dichiara Nicoletta Luppi, Presidente e Amministratore di MSD Italia – se vogliamo che la curva dei contagi scenda, dobbiamo fare in modo che le misure di distanziamento sociale funzionino anche grazie al supporto fondamentale che le nuove tecnologie di telemedicina e tecno-assistenza sono in grado di garantire grazie alla possibilità, per il paziente, di farsi curare da casa”.

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Gli strumenti per fronteggiare l’emergenza

L’emergenza sanitaria creata dalla pandemia del coronavirus sta generando una serie di pericolosi corollari, tra i quali la difficoltà di accesso alle strutture ospedaliere e territoriali da parte dei pazienti, soprattutto quelli più fragili, anziani, cronici e con comorbidità. Difficoltà di accesso che riguardano anche la medicina generale, primo punto di ingresso dei pazienti italiani alle prestazioni e servizi sanitari, come più volte segnalato sia dalla FIMMG che dalla SIMG.

Ma oltre alla difficoltà di accesso, c’è un aspetto ancor più grave. È il sacrificio di tante vite umane – trentanove tra medici specialisti e di famiglia – vittime del contagio da coronavirus.

Strumenti come il telemonitoraggio domiciliare, il consulto a distanza, il video consulto – come recentemente dichiarato dal Segretario Generale Nazionale della FIMMG Silvestro Scotti – possono servire a fermare questa strage. La criticità dei sistemi di telemonitoraggio domiciliare e di tecnoassistenza è stata opportunamente rilevata anche dal progetto “Innova per l’Italia”, recentemente lanciato dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano, insieme al Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, al Ministro dell’Università e Ricerca Gaetano Manfredi e a Invitalia, a sostegno della struttura del Commissario Straordinario per l’emergenza Coronavirus Domenico Arcuri.

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msd italia

La donazione nasce da una peculiarità distintiva del Gruppo MSD Italia al cui interno opera la società Vree Health, azienda leader nella progettazione, sviluppo e commercializzazione di servizi innovativi e soluzioni di Connected Health per migliorare la qualità di vita e la salute dei pazienti.

Le piattaforme, le app e i kit di telemonitoraggio con device certificati consentono soluzioni di Disease Management in grado di assistere il paziente cronico e supportare il medico nel monitoraggio costante dello stato di salute e nella migliore gestione delle condizioni cliniche.

“MSD Italia – prosegue Nicoletta Luppi – ha deciso di rispondere alla call for action del Governo con un atto di responsabilità sociale che è nel DNA della nostra Azienda. Vogliamo offrire un contributo distintivo e coerente con le richieste del nostro Governo e annunceremo presto i primi
soggetti istituzionali beneficiari della nostra donazione. Il contributo che MSD Italia intende offrire non si esaurisce con questa significativa donazione che rappresenta solo il primo sprint di una ‘maratona di donazioni’ per testimoniare la vicinanza della nostra Azienda al Sistema Paese in questa grave situazione di emergenza sanitaria, sociale ed economica”.

documentari-food

Storie di cibo e sostenibilità: 10 documentari sul food che dovresti vedere

  • Il cibo è portatore di valori culturali in declino a causa del mercato alimentare globale 
  • Molti registi hanno raccontato nei loro documentari come l’industrializzazione stia distruggendo la biodiversità nel food
  • Una panoramica sulle questioni più dibattute sul tema, passando attraverso dieci documentari recenti

 

“Siamo ciò che mangiamo”, in questo momento storico forse più che mai. Il cibo è senza ombra di dubbio uno dei topic più discussi del momento, spesso al centro non solo della nostra tavola, ma anche delle nostre conversazioni, online e non.

Non si tratta di una mera questione di nutrizione, il food è cultura e aggregazione. Le tradizioni culinarie locali che si tramandano di generazione in generazione raccontano la storia dei popoli e dei territori in cui sono radicate.

Negli anni, però, le regole dettate dal mercato globale hanno dato il via a un progressivo e sempre più rapido impoverimento dei valori della tradizione e della diversità culturale, in uno scenario in cui l’operato delle piccole comunità locali è asservito alle grandi multinazionali.

Quando ogni forma di contatto tra il consumatore finale e la provenienza di ciò che mangia sembra svanire; le tradizioni culinarie locali diventano sempre più un patrimonio a rischio estinzione, da difendere ad ogni costo.

Food, cinema e vita vera

Da dove arrivano e come vengono prodotti gli alimenti ogni giorno sulle nostre tavole? Qual è l’impatto di ciò che mangiamo sul nostro organismo e sul pianeta?

A queste domande hanno cercato di rispondere molti registi che si sono interrogati sul legame tra il cibo e i consumatori, alcuni approfondendone l’aspetto sociologico, altri dando ai loro film la forma di un’inchiesta di taglio giornalistico.

Ecco una rassegna di dieci documentari a tema food che offrono punti di vista diversi, talvolta anche divergenti tra loro, sulle questioni riguardanti l’industria alimentare in relazione alla salute degli individui e alla sostenibilità ambientale.

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Food Inc. (2008) – Robert Kenner

Candidato all’Oscar come miglior documentario nel 2010, Food Inc. è un film diretto dal regista e autore televisivo Robert Kenner, che pone sotto analisi il sistema produttivo alimentare su vasta scala negli Stati Uniti (e quindi, per ovvie ragioni, interessa tutto il mondo occidentale).

Negli ultimi 50 anni il nostro modo di nutrirci è cambiato più di quanto non sia avvenuto in 10 mila anni, eppure per vendere i prodotti alimentari ci si serve dell’immagine di un mondo rurale e agreste.

Kenner esordisce puntando il dito contro la comunicazione fuorviante e distorta del prodotto alimentare che arriva al consumatore finale.

Con l’obiettivo di tirare su il “sipario” che viene interposto tra noi e il luogo di provenienza di ciò che mangiamo, Food Inc. pone sotto accusa lo strapotere dei colossi dell’industria alimentare, consolidato grazie all’impiego di manodopera a basso costo e materie prime scadenti, che porta sul mercato prodotti omologati ed economici che sono spesso tra le poche alternative abbordabili per molte famiglie americane a basso reddito.

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COWSPIRACY (2014) – Kip Andersen, Keegan Kuhn

Disponibile su Netflix, Cowspiracy è il primo, ma non l’unico, frutto di una collaborazione tra i due registi californiani Kip Andersen e Keegan Kuhn.

Il progetto nasce dal basso grazie a una campagna di crowfounding lanciata dai due film maker, per poi catturare le attenzioni di Leonardo Di Caprio, che dopo poco tempo ne è diventato il produttore esecutivo.

Non sorprende che sia stato proprio Di Caprio a finanziarlo: l’attore hollywoodiano è tra i personaggi di spicco al momento più impegnati nella tutela dell’ambiente e il film è incentrato sull’impatto ambientale che hanno gli allevamenti e le colture massive.

Il sistema di allevamenti industriali genera una quantità di gas serra maggiore dell’intero sistema di trasporti e “per produrre un hamburger occorrono 2500 litri d’acqua”: i dati riportati mostrano uno scenario a dir poco allarmante e derivano da studi condotti da organizzazioni internazionali come FAO, Science Mag, Nasa, World Watch.

What the health (2017) – Kip Andersen, Keegan Kuhn

Se sei tra coloro che faticano ancora a capire perché al mondo ci sono persone che scelgono una dieta vegana, la visione di What The Health potrebbe servire per chiarirti un po’ le idee.

Il film pone il focus sull’aumento esponenziale registrato negli ultimi anni del numero di persone affette da tumori, malattie cardiovascolari e diabete – individuando la causa nel consumo di proteine di origine animale – e tenta di svelare collegamenti poco trasparenti tra le istituzioni governative e le multinazionali del food.

Accusato su molti fronti di essere eccessivamente fazioso e di adottare toni un po’ troppo apocalittici, il film si fa portavoce di quell’ideologia alla base del veganismo secondo cui una dieta onnivora è innaturale per gli esseri umani; punto di vista opinabile, tuttavia largamente condiviso.

What The Health è il secondo prodotto della coppia Andersen-Kuhn, ed è uscito in concomitanza con l’omonimo libro scritto da Eunice Wong, moglie del giornalista Chris Hedges.

Supersize me (2004) – Morgan Spurlock

Grande classico intramontabile e in un certo senso capostipite di un nuovo format di documentari a tema food, si può dire che Supersize me ha spianato la strada a molto di ciò che è stato fatto dopo.

15 anni fa, il regista Morgan Spurlock fu la cavia del suo stesso esperimento, sottoponendosi per 30 giorni ad una dieta esclusivamente a base di cibo proveniente dalla più grande catena di fast food al mondo, McDonald’s, che a Manhattan, dove il regista vive da sempre, ha un punto vendita ogni 0,7 km².

Nel corso del mese, Spurlock fu seguito da un team di medici, che evidenziarono un progressivo deterioramento dello stato della sua salute (aumento di peso, affaticamento, inclinazione alla depressione e disfunzioni sessuali), che richiese al regista 6 mesi di disintossicazione per tornare alle sue condizioni fisiche precedenti.

Il documentario fece parlare di sé, non senza suscitare le reazioni del colosso americano, che emanò poco tempo dopo un comunicato stampa in cui dichiarò che la quantità di junky food ingerita da Spurlock in un mese equivale a quella di un consumatore medio in 6 anni e che gli eccessi sono nocivi in qualunque caso.

That Sugar Film (2015) Damon Gameau

Restando in tema di registi che scelgono di mettere a dura prova il proprio organismo, 10 anni dopo l’uscita di Supersize me, l’attore televisivo australiano Damon Gameau nel primo film diretto da lui replicò l’esperienza di Spurlock, adottando per 60 giorni una dieta ad alto contenuto di zuccheri raffinati.

Secondo i dati raccolti da Gameau, lo zucchero è presente nell’80% dei normali prodotti da banco confezionati, anche di quelli considerati salutari o ipocalorici, e la quantità media di zucchero assunta da un maschio adulto occidentale è l’equivalente di 40 cucchiaini al giorno.

Per tutta la durata dell’esperimento, il regista è seguito da un patologo, una nutrizionista e un medico di base che alla fine del periodo gli diagnosticano un principio di obesità, un altissimo rischio di diabete e un preoccupante ingrossamento del fegato. Damon inoltre riscontrò un senso di affaticamento generale, forti sbalzi d’umore, sintomi della depressione e problemi del sonno.

Per disintossicarsi e riportare i suoi valori al livello cui si trovavano prima dell’esperimento, sono serviti altri due mesi.

The World according Monsanto (2008) – Marie-Monique Robin

Pubblicato lo stesso anno dell’omonimo libro, Il mondo secondo Monsanto riassume un’inchiesta condotta dalla giornalista francese Marie-Monique Robin, durata complessivamente tre anni.

Al centro dell’inchiesta, come da titolo, c’è Monsanto, la più grande multinazionale dell’industria chimica, prima in assoluto sul mercato mondiale degli OGM.

Monsanto si presenta come compagnia agricola con una forte spinta all’innovazione, in realtà è responsabile della diffusione di alcuni tra i prodotti diserbanti più tossici in circolazione nel XX secolo e di epidemie di tumori che hanno colpito la popolazione delle cittadine più esposte.

Robin passò in rassegna un fitto elenco di processi, manipolazioni di dati e ricerche scientifiche, persone messe a tacere dopo aver provato a segnalare attività illecite, episodi di omertà da parte di organi di regolamentazione, quali l’EPA (Environmental Protection Agency) o l’FDA (Food and Drug Administration). L’inchiesta volle portare alla luce come Monsanto abbia di fatto consolidato il suo impero imponendo un nuovo ordine agricolo attraverso i brevetti sulle sementi, e distruggendo le piccole comunità rurali.

 Sustainable (2016) – Matt Wechsler

Disponibile su Netflix, Sustainable è il racconto di un viaggio intrapreso dallo chef Rick Bayless alla riscoperta del legame tra l’uomo e ciò che mangia.

Attraverso il confronto con agricoltori ed esperti del settore, si ripercorrono le tappe che hanno condotto alla nascita del movimento per promuovere la sostenibilità ambientale e alimentare negli USA come negli altri paesi occidentali.

Il film evidenzia come in America (così come in Europa) si stia aprendo un divario sempre più profondo che vede da una parte i fast food e tutti i cibi di produzione industriale a basso costo e dall’altra la cucina d’élite che gli americani vedono per lo più nei programmi televisivi.

Gli Stati Uniti si trovano ad affrontare una grossa crisi alimentare dovuta alla mancanza di consapevolezza da parte del consumatore e ad una perdita di valori culturali legati al cibo.

Sustainable fa appello proprio al recupero di questi valori, nell’ottica di riavvicinare il consumatore al prodotto e innescare un meccanismo virtuoso in cui un antico know how nel settore incontri l’innovazione e le moderne tecnologie.

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ROTTEN – docuserie Netflix

Questa volta non parliamo proprio di un film, ma di una serie documentaristica di cui al momento sono disponibili su Netflix 2 stagioni da 6 episodi l’una.

“Se mangi cibo, questo è un problema di cui devi preoccuparti” è il messaggio fondamentale che viene dato al pubblico: Rotten è un invito alla riflessione e un appello al senso etico e critico tanto del produttore, quanto del consumatore.

Prodotta da Zero Point Zero Production, si tratta di una docuserie in cui ogni episodio è dedicato a un cibo differente e affronta questioni che legano il consumatore al prodotto, svelando uno scenario in cui le grandi aziende alimentari si impossessano del lavoro dei piccoli produttori locali, che non hanno molte alternative.

In tutta la serie si cerca di far luce su meccanismi di frode, corruzione, speculazione che dominano il mercato alimentare mondiale, in uno scenario in cui sono i margini di profitto a decidere cosa diventerà cibo nei nostri piatti e la spregiudicatezza nel vendere oltre misura.

Connected By Coffee (2014) – Aaron Dennis

Connected By Coffee è una storia che inizia con un viaggio tra le regioni dell’America Latina maggiori produttrici di caffè. Il regista e attivista Aaron Dennis raccolse le testimonianze di tantissimi coltivatori e piccoli imprenditori del territorio che stanno plasmando insieme un nuovo modello basato sulla gestione cooperativa dei terreni e delle aziende.

Il film spiega come l’andamento del mercato globale non lasci un grande margine di sviluppo per modelli di business come questo che spesso sono obbligati a sopportare anche condizioni di vita poco dignitose.

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Our daily bread (2010) – Nikolaus Geyrhalter 

Il film diretto da Nikolaus Geyrhalter si potrebbe dire un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dell’industria alimentare, freddo e diretto, che lascia parlare le immagini, senza aggiungere interviste, dati, commenti o speech di alcun tipo.

È irrilevante per questo film se una società che produce pulcini si trovi in Austria, Spagna o Polonia, o quanti suini siano trattati ogni anno nel grande macello mostrato nel film. A mio parere questo è il compito dei giornalisti e della televisione, non di un lungometraggio.

Le riprese sono state effettuate dal regista austriaco all’interno delle strutture in cui i prodotti alimentari vengono lavorati e confezionati, per gettare una panoramica dietro le quinte che lasci intendere come non sia sufficiente molto spesso optare per un’alimentazione a base di prodotti bio e priva di proteine animali, perché gli effetti dell’industrializzazione alimentare e della globalizzazione impattano molto più che sul solo cibo.

smartphone pieghevoli

La sfida tecnologica degli smartphone pieghevoli è appena cominciata (e non ci abbandonerà presto)

  • Il futuro della tecnologia nel settore telefonia mobile potrebbe essere legato al design pieghevole dei dispositivi
  • Una piega orizzontale per occupare meno spazio nelle tasche o una piega verticale per favorire più immersione nei contenuti 

 

Parlare di design nel settore degli smartphone non è mai semplice. Oltre alle scelte stilistiche legate al brand (come ad esempio la curvatura degli schermi firmati Samsung) ed altre necessarie per l’usabilità del device, lo sviluppo degli smartphone negli ultimi anni sembra essersi fermato, in favore magari di una maggiore qualità degli obiettivi e delle fotocamere integrate.

La possibilità di offrire uno schermo utilizzabile sempre più ampio, ottenuta mediante l’ingegnerizzazione e miniaturizzazione delle tecnologie presenti sotto il vetro, ha spinto le differenti case produttrici ad optare per scelte stilistiche davvero poco innovative. 

Un allineamento che ha determinato una grande monotonia in tutto il settore della comunicazione mobile. Ma il 2020 sembra essere cominciato con proposte innovative con scelte stilistiche del tutto nuove ed inedite. Stiamo parlando ovviamente dei pieghevoli, il futuro degli smartphone. 

I dubbi e incertezze 

L’arrivo dei pieghevoli sembra abbia portato sul settore delle telefonia mobile una ventata di novità, rivoluzionando il concetto stesso di usabilità di uno smartphone. 

Se nel 2019 Samsung ha aperto le danze col Galaxy Fold (con piega verticale) il capostipite dei pieghevoli, considerato un prototipo più che un vero smartphone, ha suscitato da subito un gran interesse e una gran mole di dubbi. Nel 2020 al Fold è seguito il Galaxy Flip (con piega orizzontale) considerato dai più il primo vero esemplare di smartphone pieghevole con feature da top di gamma.

Fresco di presentazione il Huawei Mate X (con piega verticale) che a sua volta ha offerto altri spunti di riflessione sui pieghevoli. 

Senza dimenticare il Razr di Motorola, che purtroppo pecca di numerose mancanze tanto da non renderlo equiparabile a modelli indicati precedentemente. 

I dubbi sorti subito dopo la presentazione di questi dispositivi sono davvero innumerevoli: è meglio una piega verticale o orizzontale? Il prezzo di questi dispositivi frenerà la loro diffusione? Come risponderanno le pieghe all’usura del tempo? 

Stile e personalità: si ritorna alle origini con gli smartphone pieghevoli

Se hai memoria dei cellulari dei primi anni del 2000, ricorderai la vasta gamma di prodotti disponibili. Ciò che si decideva di acquistare era una questione del tutto dettata dai propri gusti. Non c’erano grandi differenze tecnologiche tra l’uno e l’altro prodotto, si trattava di una mera questione di preferenze ed esigenze. 

Oggi i pieghevoli potrebbero offrirci nuovamente questa possibilità di scegliere. 

Una piega orizzontale per occupare meno spazio nelle tasche o una piega verticale per favorire una visualizzazione dei contenuti più immersiva. Insomma la scelta del design, in base alle proprie esigenze, tornerebbe nelle mani del consumatore. Ma i vantaggi non finiscono qui. 

Ad esempio la possibilità di sfruttare uno schermo più ampio solo in alcuni momenti della giornata potrebbe aumentare di non poco la produttività da uno smartphone oltre alla consequenziale introduzione di numerose chicche e funzionalità aggiuntive specifiche per ciascun prodotto. 

Anche il comprato fotografico potrebbe subire non poche migliorie. Altre alla possibilità di sfruttare le fotocamere in angolazioni inedite, potrebbero essere introdotti nuovi sensori, differenti e certamente più performanti sfruttando il design e la progettazione delle pieghe e delle scocche. 

Non ci resterà che attendere per scoprire tutte le novità in arrivo.

filiera alimentare coronavirus

Gli eroi che combattono il Coronavirus sono anche nella filiera alimentare

  • Questo periodo di emergenza è stato paragonato alla peggiore crisi dopo il secondo dopoguerra ma a quei tempi il cibo non era così scontato 
  • Gli attori della filiera agroalimentare a casa non possono stare devono garantire il cibo a tutti gli italiani che restano a casa
  • Come tranquillizzare gli operatori della filiera agroalimentare in tutte le fasi del processo attuando nuove regole che possano far lavorare tutti in serenità?    

Eroi nelle corsie degli ospedali italiani in questo momento ce ne sono tanti, ma oggi sono qui per parlarvi di altri eroi.

Noi restiamo a casa e diamo per scontato che il cibo sia sempre garantito (anche troppo a vedere le bacheche sui social network di noi italiani in quarantena) anche grazie ad esplicite indicazioni del Presidente del Consiglio, che anche nell’ultimo Decreto del Consiglio dei Ministri, ha chiarito che i negozi alimentari sarebbero rimasti aperti e che i trasporti per le merci di prima necessità sarebbero circolati normalmente.

Questo periodo è stato paragonato alla peggiore crisi dopo il secondo dopoguerra ma a quei tempi il cibo non era così scontato: in tempi di guerra e di epidemie l’approvvigionamento alimentare non era garantito o lo era solo con le razioni settimanali di beni di prima necessità.

Hanno sofferto la fame i nostri nonni o i nostri padri.

Proprio per questo oggi voglio parlare di altri eroi: voglio mettere in evidenza il lavoro svolto da tutti gli operatori che lavorano nella filiera alimentare e che danno a tutti noi la possibilità stare a casa tranquilli e a pancia piena e, ogni tanto, di andare a fare la spesa e trovare comodamente i prodotti necessari sugli scaffali del negozio e del supermercato.

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filiera alimentare coronavirus

La filiera alimentare ai tempi del Coronavirus

Voglio parlare di tutti gli attori della filiera agroalimentare: operatori agricoli, operatori nelle industrie alimentari, impiegati nel settore alimentare, addetti nelle aree portuali o doganali, fornitori di materie prime alle industrie, trasportatori, salumieri, macellai e cassieri.

Loro a casa non possono stare, devono garantire il cibo a tutti gli italiani che restano a casa e, anche se la mattina escono con la paura di poter contrarre il virus essendo a contatto con tanta gente, ti accolgono nel loro negozio con il sorriso, ora nascosto sotto una mascherina.

Anche loro hanno una gran paura e anche loro hanno un padre o una madre anziana o dei bambini che vorrebbero proteggere e potrebbero infettare.

Gli imprenditori alimentari sono in emergenza: come garantire la produzione e la distribuzione degli alimenti rispettando le regole igienico sanitarie e le norme specifiche per ogni tipologia di prodotto, garantendo allo stesso tempo la sicurezza sanitaria ai propri lavoratori? Come tranquillizzare i propri operatori in tutte le fasi del processo attuando nuove regole che possano far lavorare tutti in serenità?

Ristoranti e bar chiudono, e con loro molte aziende collegate al settore HO.RE.CA. (acronimo di Hotellerie-Restaurant-Café), ma altre imprese collegate al settore retail (vendita al dettaglio) assumono personale perché si mangia di più in casa e si fa quindi più spesa. Dati Nielsen ci dicono che durante la settimana tra lunedì 24 febbraio e domenica 1° marzo (ancora non in piena emergenza) le vendite della Grande Distribuzione Organizzata continuano la crescita rispetto alla stessa settimana del 2019: +12,2% a valore a parità di negozi. Più spesa si traduce in una quantità maggiore di alimenti da produrre e confezionare, per cui il riflesso diretto sulle industrie è evidente.

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Ci sono poi imprenditori alimentari che si rendono conto del sacrificio emotivo e fisico che stanno chiedendo ai loro dipendenti così stanziano premi e aumentano gli stipendi, come il Sig. Giovanni Rana, che aumenta gli stipendi ai 700 dipendenti del 25% per ogni giorno lavorato e concede un ticket mensile straordinario di 400 euro per le spese di babysitting, come speciale riconoscimento dell’impegno profuso ai lavoratori impiegati nei cinque stabilimenti in Italia che stanno garantendo, anche in questo momento così difficile dovuto all’emergenza sanitaria del Covid-19, la continuità negli approvvigionamenti alimentari.

È stato necessario quindi in tutte le aziende alimentari ancora aperte per lavorare in modo sicuro per tutti e tranquillizzare gli operatori della filiera alimentare, stabilire nuove procedure e consolidarne di vecchie per evitare che nelle singole aziende possa nascere un focolaio della malattia.

Nei negozi e supermercati le regole da rispettare sono state chiare fin da subito: ingresso scaglionato, sanificanti all’ingresso dei negozi e supermercati, evitare assembramento in ogni fase e indossare guanti e mascherine da sostituire periodicamente. I cassieri, forse i più esposti al contatto con tante persone, puliscono e sanificano la loro postazione con oculatezza e la paura nascosta negli occhi.

Alcune catene come Coop hanno cominciato ad istallare nei loro punti vendita delle barriere in plexigass alle casse per garantire la protezione dei clienti e dei lavoratori.

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gdo coronavirus

Ma chi c’è dietro i prodotti alimentari che arrivano nei supermercati o nei negozi?

Ci sono le aziende alimentari che sono già solite avere norme igieniche di produzione molto restrittive e da questo punto di vista, applicandole severamente, l’operatore che vi lavora dovrebbe sentirsi già più tranquillo. Ecco alcune delle più frequenti e più pertinenti al controllo ambientale del Coronavirus:

  • lavarsi accuratamente le mani con acqua calda, asciugarle e disinfettarle con i sanificanti presenti (generalmente) all’ingresso della sala di produzione degli alimenti, ripetere l’operazione dopo essere stati in bagno, dopo aver mangiato, dopo aver toccato parti del corpo, tossito o starnutito, ad ogni ripresa del lavoro, dopo brevi pause per qualsiasi motivo;
  • le unghie devono essere corte, curate e senza smalto. Non usare trucco, profumi e creme profumate o con odori persistenti. Vietato usare unghie e ciglia finte che posso essere veicoli di contaminazione chimica, fisica e microbiologica;
  • indossare guanti in nitrile (nelle azienda alimentari si esclude il lattice) che vanno cambiati e disinfettati prima di riprendere il proprio lavoro e periodicamente in base ad una accurata analisi del rischio.
  • indossare gli indumenti protettivi relativi alla funzione aziendale ricoperta: la divisa di lavoro non è mai utilizzata esternamente all’azienda alimentare per evitare una possibile contaminazione crociata di natura microbiologica, fisica o chimica degli alimenti; molte aziende si preoccupano di lavare la divisa degli operatori dopo qualche giorno di lavoro (questo elemento è molto variabile in relazione alla mansione svolta in azienda) in modo da essere sicuri della modalità e della temperatura di lavaggio;
  • indossare sempre i dispositivi di protezione individuale relativi alla mansione svolta, tra questi: la cuffia (o un copricapo), calzari o scarpe da lavoro, guanti in nitrile blu usa e getta e la mascherina chirurgica indossata posizionandola sul naso.
  • pulire la postazione di lavoro di ogni operatore con frequenza prestabilita con un sanificante e in assenza di alimenti e, più in generale, intensificare le sanificazioni ambientali in tutti i locali e su tutte le attrezzature preoccupandosi di verificarne l’efficacia.

La mascherina era già un accessorio presente ed indispensabile in molte aziende alimentari. Con l’avvento del Coronavirus ho visto gli operatori alzare la soglia di attenzione e stringere bene la mascherina sul naso, gli stessi operatori che, prima di questa pandemia, la abbassavano scoprendo il naso per parlare con qualcuno.

Le stesse mascherine prima tante fastidiose adesso diventato l’oggetto del desiderio per sé e per i propri familiari.

Le mascherine che nelle aziende alimentari già si usavano, finiscono più velocemente ma oggi gli abituali fornitori rispondono all’ufficio acquisti aziendale che hanno difficoltà ad evadere l’ordine periodico e che la consegna sarà rimandata.

Si consumano quindi più mascherine ed i fornitori aziendali non te ne mandano altre. Questa è la situazione emergente. E le aziende alimentari come faranno finite le scorte?

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Oltre a queste regole di igiene intensificate, l’imprenditore alimentare deve preoccuparsi di evitare gli assembramenti e il contatto ravvicinato degli operatori: a livello logistico si mettono a punto sistemi di segnaletica orizzontali per garantire le distanze di sicurezza, si allargano le postazioni di lavoro o in alcuni casi si montano dei veri e propri divisori in plexiglas per rendere il lavoro più sicuro per l’operatore e per l’azienda; nelle mense e negli spogliatoi si scaglionano i turni per le pause e gli ingressi così da evitare il transito contemporaneo del personale, si migliora l’areazione dei locali e si chiudono le porte agli esterni.

Infatti per adempiere al D.P.C.M. e non mettere a rischio il proprio personale, l’azienda alimentare blocca o limita gli ingressi delle ditte esterne o ne limita l’accesso nelle aree aziendali, evita di far entrare consulenti o altre persone esterne; vieta l’ingresso in azienda di trasportatori o fornitori, obbligandoli dove necessario all’applicazione delle sue regole igieniche. Regole quest’ultime, molto spesso già presenti in azienda ma che adesso prendono corpo e si rafforzano.

Gli imprenditori alimentari si trovano inoltre a combattere con ordini tagliati, soprattutto quelli destinati all’estero, con fatture pagate meno per cambi sfavorevoli e la preoccupazione di non riuscire a produrre ancora alimenti perché se dovesse scoppiare un focolaio in azienda, tutto verrebbe chiuso.

Dobbiamo ricordarci che le aziende della filiera alimentare italiana sono soprattutto piccole o medie aziende in cui il cui grado di digitalizzazione è spesso basso e il lavoro a distanza, il cosiddetto smart working, non è applicabile nella maggior parte dei casi, per fattori intrinseci al prodotto, oltre che per fattori culturali.

Effetto COVID-19: la GDO torna in positivo e punta sull’eGrocery

In Italia, il COVID-19 continua a diffondersi, annullando confini geografici e sociali. Crescono i contagi e, inevitabilmente, aumenta anche il numero delle vittime.

In breve tempo, il virus ha conquistato il monopolio dei media, che lo hanno analizzato sotto ogni punto di vista.

L’impatto sull’economia

Gli effetti dell’emergenza COVID-19, si riflettono anche sull’economia, come abbiamo già avuto modo di analizzare qui su Ninja, che comincia ad accusare i primi forti contraccolpi, facendo registrare un crollo delle principali borse europee, tra cui quella di Milano, che fornisce, numericamente parlando, un ampio spaccato della situazione.

A risentirne maggiormente, sono il settore turistico e quello della ristorazione che, a seguito delle necessarie restrizioni imposte dal Governo, hanno assistito prima ad una forte diminuzione della clientela e poi alla chiusura temporanea dei loro esercizi, che per alcuni risulterà permanente.

Risultato immagini per crollo delle borse

In controtendenza la grande distribuzione

Tuttavia questa crisi non riguarda proprio tutti e c’è chi, come la GDO (Grande Distribuzione Organizzata), ne sta beneficiando. Se l’anno 2020 era iniziato con una tendenza al ribasso, infatti, le ultime settimane di febbraio hanno visto un’impennata delle vendite, soprattutto di articoli per l’igiene e la cura della persona, ma anche di prodotti alimentari, come farina, pasta e riso.

E così, davanti ai supermercati di tutta Italia, si sono formate lunghe code di persone che, prima incuranti della distanza di sicurezza e poi sempre più rispettose delle restrizioni, hanno assalito gli scaffali, riempendo i propri carrelli, per creare scorte sufficienti ad affrontare una probabile, ora reale, quarantena.

Risultato immagini per file supermercato covid scaffali vuoti

Il fenomeno, stando ai dati elaborati dalla Nielsen, solo nella settimana compresa fra il 17 e il 23 febbraio, avrebbe portato ad un incremento delle vendite pari al +8,34%. In questo senso, il Nord-Ovest traina la crescita, con un trend  del +11,20% rispetto all’anno scorso,  seguito dal Nord-Est con un +9,66%, dal Sud con un +6,06% e quindi dal Centro, che chiude sempre in positivo, ma con un modesto  +4,38%.

In particolare, l’aumento degli acquisti è da ricondursi a due principali cause:

  • effetto “stock”, che ha portato ad un aumento a doppia cifra di alcune categorie della drogheria alimentare a lunga conservazione, quali riso (+33%), conserve animali (+29%), pasta (+25%), derivati del pomodoro (+22%), sughi e salse (+19%);
  • effetto “prevenzione e salute”, che ha prodotto un incremento delle vendite delle categorie del cura persona, soprattutto il comparto parafarmaceutico (+112%) e quello dell’igiene personale (+15%).

Risultato immagini per e-grocery

La GDO punta sull’eGrocery durante la crisi Coronavirus

Il quadro attuale però, potrebbe presto capovolgersi, a seguito di nuove pesanti restrizioni, che impongono giorni di chiusura ed intervalli orari ben precisi.

Ad agitare ulteriormente le acque, le proteste dei lavoratori, che temono per la propria salute, e le difficoltà nel limitare il numero degli ingressi. Il rischio infatti, è quello che i supermercati diventino i “nuovi parchi”, ovvero luoghi  di aggregazione in cui la diffusione del virus è facilitata.

Dunque, si prospetta uno scenario instabile, che ad un boom iniziale degli incassi, potrebbe opporre importanti perdite di fatturato, con un aumento esponenziale degli acquisti online, che già ai primi di marzo hanno segnato un +97,2%.

Tuttavia, la GDO, per sedare le minacce, sta integrando – o potenziando – i servizi di delivery, che rappresentano una soluzione non solo per gli over 65, che sono i soggetti più a rischio, ma anche per il resto della popolazione. Siamo perciò di fronte ad una rivoluzione epocale, che potrebbe decretare le sorti del settore agroalimentare: la GDO si sta convertendo all’eGrocery.  

Tesla Space

La crescita di Tesla, tra vantaggio tecnologico e politiche green

a cura di Thomas Ducato, giornalista di Impactscool

 

  • Secondo un rapporto su alcune componenti, Tesla avrebbe un vantaggio tecnologico di 6 anni sui concorrenti
  • Il mercato dell’auto sta provando ad adattarsi al cambiamento ma la strada potrebbe essere lunga e complessa
  • Per i suoi utenti Tesla è molto più di un’auto: chi la sceglie non torna indietro
  • Il 5G potrebbe spingere verso la guida autonoma. Prima però, ci sono aspetti etici e normativi da affrontare

 

Al netto degli ultimi sviluppi dell’emergenza Coronavirus, la crescita di Tesla pare inarrestabile. La casa automobilistica di Elon Musk ha chiuso il 2019 mettendo a segno il miglior trimestre di sempre e ha raggiunto, nell’arco dell’anno, quota 367.500 vetture consegnate, in crescita del 50% rispetto al 2018. Sono tanti i fattori che hanno contribuito a questo risultato, dal livello tecnologico dell’azienda alla maggiore sensibilità della popolazione verso la tematica ambientale, che sta contribuendo all’accelerazione della conversione all’elettrico da parte degli automobilisti. Inoltre, c’è il tema della guida autonoma (anche se per il momento dovremmo definirla assistita), che potrebbe beneficiare in modo importante delle reti 5G e potrebbe spingerci verso un nuovo modo di vivere la mobilità.

Tesla sta propiziando una rivoluzione nel mercato dell’auto: quali sono i fattori di cambiamento? Ma soprattutto, siamo pronti?

 

Un successo costruito sulla tecnologia

Qualcuno ha attribuito i risultati ottenuti da Tesla a un’ottima strategia di marketing e alle grandi capacità di storyteller del suo CEO e fondatore Elon Musk. È innegabile che ci sia anche questo dietro al successo della casa americana, ma c’è anche molto altro. La capacità di innovare di Tesla è, dalla sua fondazione nel 2003, una delle caratteristiche chiave dell’azienda, che le ha permesso di attrarre investimenti e conquistare una leadership difficile da intaccare, anche dai colossi del settore. Basti pensare che aziende come Toyota e Volkswagen, che vendono ogni anno 10 milioni di auto, sul piano dell’innovazione sono ancora distanti dalle vetture di Musk.

L’editore Nikkei Business Publications sostiene che l’elettronica di Tesla abbia addirittura 6 anni di vantaggio rispetto a quella delle concorrenti. È il risultato di un rapporto realizzato dallo stesso editore, che ha evidenziato le profonde differenze di progettazione e utilizzo di sistemi tecnologici tra Tesla e i concorrenti. Secondo gli ingegneri che hanno curato il documento alcune componenti, come l’hardware che gestisce i sistemi di ausilio alla guida, potranno essere presente sui modelli degli altri costruttori non prima del 2025. Un vantaggio competitivo enorme che trova origine in scelte strategiche ben definite: Tesla ha creato il suo successo sull’innovazione e il motore elettrico, rendendo potenzialmente obsoleto il mercato dell’auto come lo conosciamo oggi. E le grandi aziende del settore non possono ancora permettersi questa rivoluzione sotto diversi punti di vista.

 

L’uragano Tesla e il mercato dell’auto

La crescita di Tesla e l’aumento della fetta del mercato dell’elettrico, complice un maggior interesse verso le tematiche ambientale, obbliga anche le case automobilistiche storiche a rivedere le proprie strategie. Ma le loro possibilità economiche e la conseguente capacità di innovare in poco tempo, spingono a credere che il motivo del ritardo non sia solo di tipo tecnologico: l’utilizzo su larga scala di sistemi elettronici tipo quelli di Tesla ridurrebbe drasticamente il numero di centraline elettroniche in auto, con effetti catastrofici su moltissimi fornitori delle grandi case e sui loro dipendenti.
Oggi, però, il mercato inizia a risentirne e il caso della Germania in questo senso è emblematico: alla fine del 2019 prima Audi e in seguito Daimler, la casa madre della Mercedes, hanno annunciato il taglio di decine di migliaia di posti di lavoro.

Secondo l’opinione di analisti ed esperti i costruttori tedeschi stanno iniziando a pagare i ritardi nello sviluppo della mobilità green e la mancata capacità di prevedere in anticipo la volontà dei consumatori di convertirsi all’elettrico. La mobilità green è un trend ben avviato, come confermato anche dai dati sulle vendite del 2019 dove in Germania si è registrato un +75% di nuove immatricolazioni di auto a motorizzazione alternativa, dato che a livello europeo si è attestato al +41%. E il 2020 è iniziato sulla scia del precedente con un incremento sensibile delle vendite di auto elettriche pure.

Se ne è accorta la General Motors, che da qualche settimana ha presentato la sua strategia per i veicoli elettrici, con l’obiettivo di comunicare a clienti e investitori quanto sia decisa ad abbracciare l’elettrico nel prossimo futuro.

Ma qualcuno non sembra essere pronto: Audi, a fine febbraio, ha annunciato di aver interrotto la produzione del suo SUV E-Tron per risolvere i problemi di produzione, compresi quelli legati alla fornitura di batterie, sottolineando le difficoltà che le case tradizionali affrontano per potenziare la loro gamma elettrica. Volkswagen, dal canto suo, ha annunciato che investirà 60 miliardi di euro entro il 2024 per sviluppare l’auto del futuro, attraverso ibridizzazione, mobilità elettrica e digitalizzazione.

La sfida a Tesla, dunque, è stata lanciata e possiamo dire che Elon Musk l’ha raccolta e ha rilanciato: ha scelto (non a caso) l’area di Berlino per costruire la sua prima fabbrica europea.

 

Molto più di un’auto per i suoi clienti

“I possessori di Tesla non condividono solo la stessa auto, ma abbracciano una visione comune che permette di creare un forte senso di appartenenza. Chi sceglie Tesla difficilmente torna indietro”. Sono le parole di Federico Lagni, Fondatore e Presidente di Tesla Club Italy, associazione no profit indipendente rispetto alla casa automobilistica, che riunisce attorno a sé persone da tutta Italia: una vera e propria community, nata con l’obiettivo di informare sul mondo dei motori elettrici e sensibilizzare le persone sulla mobilità green.

Si tratta del primo club Tesla in Italia e tra i primissimi al mondo, fondato circa 10 anni fa quando l’azienda di Musk muoveva i suoi primi passi sul mercato. “Tesla ha preso un foglio completamente bianco e ha iniziato a costruirci sopra un progetto – ci ha spiegato -. È questo uno degli aspetti che attrae di Tesla: nonostante sia una casa giovane è riuscita in poco tempo a creare un qualcosa di completamente nuovo e i risultati le stanno dando ragione. Dall’altro lato i clienti apprezzano moltissimo gli obiettivi di Tesla sul fronte ambientale e la maggiore sensibilità verso queste tematiche sta contribuendo alla sua crescita, anche se non è l’unica ragione”. A chi critica le auto elettriche perché utilizzano energia prodotta da fonti non esclusivamente pulite, Lagni risponde: “È vero, ma anche considerando ciò, un’auto elettrica è di gran lunga più sostenibile rispetto ad un’auto endotermica, visto che, ricordiamolo, oltre la CO2 (che comunque un’auto elettrica non emette) un altro aspetto fondamentale è l’emissione di polveri sottili nell’aria che respiriamo. Le auto elettriche permettono di ridurre l’inquinamento, è un grande successo”.

Ma la missione di Tesla, secondo la community italiana, va oltre la sostenibilità: “Alla base del progetto – prosegue Lagni – parte da diverse necessità: non solo quella di limitare l’inquinamento, ma anche garantire la sicurezza. Grazie alla tecnologia sta cercando di risolvere una serie di problemi”.

 

Performance delle batterie e smaltimento

Le batterie sono oggi considerati uno dei grandi limiti per la diffusione su larga scala del mercato elettrico: l’autonomia limitata spinge gli automobilisti verso un nuovo modo di vivere il viaggio, da organizzare in funzione della necessità di caricare l’auto. Inoltre, proprio il costo delle batterie incide in misura importante sul prezzo. Per questo Tesla ha deciso di lavorare molto su questa componente, con l’obiettivo di produrne di più economiche, sostenibili ed efficienti. Nel frattempo un primo passo verso un miglioramento delle prestazioni è stato annunciato da Musk attraverso Twitter, suo canale preferito: è in arrivo un aggiornamento software Over-The-Air, quello di gestione della carica, che aumenterà l’autonomia di Model S e Model X.
Ma guai a considerarla come un’auto con cui non si può viaggiare: “Un’analisi che abbiamo fatto nel 2017 su circa 50 possessori di Tesla – prosegue Lagni – ha dimostrato come questa sia a un’ auto anche per lunghe percorrenze: la media dei chilometri percorsi durante un anno è di 52mila, un dato decisamente elevato. Il campione è piccolo ma è già indicativo e con queste cifre il risparmio economico diventa considerevole”.

L’altra perplessità è legata allo smaltimento di queste batterie: hanno una vita media di 8-10 anni e rappresentano un rifiuto molto inquinante, infiammabile e quindi pericoloso. Potremmo dunque trovarci con meno emissioni, ma tra circa un decennio potremmo avere un nuovo problema da affrontare. Un brevetto italiano, però, potrebbe permettere di riciclare le componenti delle batterie a ioni di litio esauste, con benefici non solo per l’ambiente ma anche economici dato che si tratta di materiali molto costosi, la cui estrazione ha anche un costo sociale molto elevato.

 

Il futuro della mobilità intelligente e le reti 5G

Non sono elettrica e green, ma anche tecnologica e “intelligente”. Il sistema di guida assistita di Tesla offre già oggi prestazioni ben al di sopra rispetto a quelle dei competitor.

Tutto questo potrebbe fare un ulteriore scatto in avanti grazie alla diffusione delle reti 5G. “In generale – ha spiegato a Impactscool Magazine Roberto Riggio, a capo dell’unità Wireless and Networked Systems del centro di ricerca CREATE -NET di FBK – il 5G non porterà solo a una connessione più veloce ma è un vero e proprio cambio di paradigma, non una semplice evoluzione. Aprirà la strada a servizi che erano prima impensabili. Il parallelo che si può fare è con l’arrivo del 3G, che ha permesso la diffusione degli smartphone e del video streaming. Il 5G, oltre a portare un’evoluzione di questi servizi di base, consentirà la nascita di nuovi servizi avanzati e verticali, specifici ad esempio per l’industria 4.0 o il settore automotive. Oltre alla maggiore capacità della rete, il 5G offre la possibilità di supportare servizi e applicazioni che vengono chiamati a bassa latenza e alta affidabilità: una rete che può rispondere in pochi millisecondi a diverse esigenze, come quelle che arrivano da auto autonome e intelligenti, che potranno condividere informazioni in tempo reale e creare una visione dettagliata di quello che accade intorno a loro”.

Riggio, con la Fondazione Bruno Kessler, è coinvolto nel progetto 5G Carmen, finanziato attraverso il programma Horizon 2020 con 18,5 milioni di euro, che ha l’obiettivo di testare la mobilità autonoma e connessa nel corridoio Monaco-Bologna. “Il progetto – ci ha spiegato – coinvolge diverse realtà industriali e enti di ricerca ed è stato il primo progetto dedicato al 5G che sarà transnazionale (è partito a fine 2018 e proseguirà fino a fine 2021 nrd).

L’obiettivo è quello di validare le reti cellulari di quinta generazione in un contesto automotive, per realizzare casi d’uso innovativi legati alla mobilità connessa. Il progetto riguarderà sia vetture a guida autonoma, in cui il 5G sarà a supporto della macchina per fornire informazione e migliorarne le prestazioni, sia quelle non autonome, toccando ambiti come la sicurezza e il soccorso stradale”.
In questo senso si va verso una mobilità collaborativa, in cui le auto si parlano tra loro, comunicano attraverso sensori e dati, e garantiscono una maggiore efficienza e funzionalità della mobilità

Restano però da affrontare una serie di questione di natura etica e legale, come dimostrano le polemiche ancora vive e accese legate all’incidente che ha coinvolto una Tesla con guida assistita attiva nel 2018 e che ha portato alla morte di un uomo.

“Il fatto che una macchina diventi un agente autonomo, – ci ha detto Cristina Pozzi, CEO e Co-founder di Impactscool – un oggetto in grado di muoversi senza istruzioni precise, ma reagendo al contesto, ci pone di fronte a un tema di responsabilità e sicurezza enorme. E anche se i dati ad oggi in nostro possesso mostrano che le auto a guida semi-autonoma che esistono sul mercato hanno meno incidenti per kilometro percorso, resta il fatto che non possiamo deresponsabilizzare gli esseri umani addossando le colpe di un errore alle macchine. Per questo in Europa è stata istituita una vera e propria personalità giuridica per le macchine – Electronic Personhood – che ci metta in grado di garantire il giusto quadro legale (e etico anche se le due cose non coincidono) e di stabilire doveri, diritti e responsabilità dei soggetti coinvolti, con trasparenza.”

lavoro in quarantena

Non chiamatelo smart working: come affrontare il lavoro in quarantena

  • Il lavoro da casa dovuto alla quarantena non è smart working né telelavoro, e non andrebbe trattato come tale
  • Maria Vittoria Mazzarini, senior consultant di Methodos Spa, spiega le trappole e i rischi di questo tipo di implementazione forzata
  • Per fortuna è possibile fare buon viso a cattivo gioco con dei semplici accorgimenti da applicare nella nostra quotidianità del lavoro da casa

 

Ironico. Siamo stati per anni il fanalino di coda del mondo, per quanto riguarda la tendenza al lavoro da remoto.

In un mondo in cui molte aziende passano addirittura all’approccio remote-first, e fioriscono società totalmente dislocate nello spazio senza quasi uffici fisici, in Italia molto spesso la conquista maggiore sembra essere un giorno a settimana di smart working.

Ironico che adesso, da un giorno con l’altro, a causa dell’esplosione dei casi di Covid-19 in Italia e della quarantena forzata imposta su tutto il Paese, il lavoro da remoto sia diventato l’unico modo di lavorare per la maggior parte delle aziende in Italia.

Un risultato per cui, lo ammetto, qualcuno come me ha inizialmente ben sperato. Chi si è da anni auto-proclamato un advocate dei vantaggi del remote work, ha visto d’improvviso anche i più restii abbracciarlo con slancio e ha pensato che fosse un passo nella giusta direzione.

Ma è durato poco, perché ci è voluto un attimo per capire che questo NON è smart working. Che le aziende italiane non avrebbero avuto il tempo o la capacità di adattarsi così velocemente a un modo di lavorare che non è semplicemente “lo stesso dell’ufficio, ma da un’altra parte”. Che i dipendenti non avrebbero potuto godere delle gioie dello smart working, ma solo dei suoi dolori, reclusi e preoccupati a causa di una situazione di emergenza.

E che stavamo correndo il rischio di fare l’opposto: demonizzare lo smart working per qualcosa che non è, con strascichi negativi che rischiano di inficiare la nostra capacità di lavorare e restare al passo nel mondo sempre più digitalizzato e remoto del futuro.

 

Il paradosso dello smart working ai tempi del Covid-19

Persone e aziende che, invece, già da tempo hanno abbracciato questa nuova modalità di lavoro, in condizioni normali basata su maggiore libertà, fiducia, adattabilità, vedono chiaramente la situazione attuale per ciò che è: un ibrido, necessario ma non piacevole; ma anche un’opportunità di apprendimento, se vissuta nel modo corretto.

È quello che alcune aziende sanno bene. Sia perché lo smart working, quello vero, è una modalità abituale di lavoro per loro. Sia perché si occupano appunto di change management organizzativo e culturale, ovvero di supportare le aziende nelle trasformazioni più critiche dei nostri tempi come M&A, Digital Transformation, New Ways of Working, Integrated Thinking, etc.

“In Methodos abbiamo colto fin da subito il rischio di ciò che stava succedendo: immediatamente  ci siamo messi all’opera per produrre materiale concreto e utile per indirizzare le persone in questa situazione straordinaria, sia i clienti che soprattutto quelli che non lo sono, dato che sapevamo fin dall’inizio che non sarebbe stato un semplice caso di introduzione dello smart working“, ricorda Maria Vittoria Mazzarini, Senior Consultant della società.

 

“Noi lavoriamo in smart working da tanti anni e sappiamo bene che ci sono due cose che lo caratterizzano: la preparazione da parte dell’azienda, che deve prendersi il tempo necessario per studiare e implementare un’esperienza soddisfacente; e la possibilità per le persone di scegliere quando, come, dove lavorare.

Queste due caratteristiche definiscono lo Smart Working, e quindi è chiaro che, per forza di cose, ciò che stanno vivendo gli italiani oggi non lo è“.

Ciò che non è, e come dovrebbe essere, il lavoro da remoto in tempo di crisi

Qualcuno lo chiama allora telelavoro, sbagliando ancora di più in realtà perché i presupposti sono totalmente diversi: “per telelavoro si intende quando l’organizzazione per cui lavori ti ricrea in casa la postazione; è stata pensata negli anni ’80 per i lavoratori disabili, non è possibile che sia fatto per lo smart working, perché appunto questo non prevede il lavoro esclusivamente da un luogo o da un altro”, continua Maria Vittoria.

Semplicemente ciò che stiamo vivendo è lavoro svolto obbligatoriamente da casa in situazione di quarantena.

Non c’è la libertà di scelta, né possibilità di applicazione delle strategie e tecniche da parte delle aziende che è alla base dello smart working.

“In una situazione ideale e programmata di introduzione dello smart working, si parte dall’ascolto. Bisogna chiedere al dipendente come lavora, come vorrebbe lavorare, analizzando come si comporta lungo tutta l’employee journey experience, da come arriva in ufficio a come mangia, etc. In base ai risultati, si definisce la soluzione migliore e più smart. Si avviano dei test con piccoli gruppi di rappresentanti trasversali, oppure per singole funzioni, con alcuni giorni da remoto. Si raccolgono i feedback e, solo dopo averli analizzati e aver tratto le dovute conclusioni, si implementa per tutti, creando una policy che sia il più comprensiva possibile dei bisogni di tutti”.

Un lavoro lunghissimo, che può durare anche anni e, ovviamente, nella situazione attuale non c’è stato il tempo di fare. Così tanto i responsabili in azienda quanto i dipendenti si muovono alla cieca, e si comportano in due modi altrettanto deleteri: navigano a vista, nell’attesa di tornare alla normalità il prima possibile, e nel frattempo lavorano da casa come farebbero in ufficio.

Questa modalità di operare però è pericolosa: la situazione potrebbe protrarsi più a lungo di quanto le nostre rosee aspettative ci fanno credere, vedendo anche il decorso negli altri Paesi. Il rischio è non solo di vedere la produttività ridotta enormemente, ma anche di avere conseguenze pesanti sulla salute delle persone, sia sul piano fisico che mentale.

 

I rischi di lavorare da remoto senza l’adeguata preparazione

Dopo i primi giorni di caos, adesso che da qualche tempo ormai si lavora obbligatoriamente da casa si è trovata, nella maggior parte dei casi, una sorta di routine e stabilità. Alcuni problemi però, che tipicamente nello smart working correttamente implementato si manifestano in modo leggero, in questa circostanza si acuiscono; altri ancora sono totalmente nuovi.

Nella prima categoria c’è la difficoltà di integrare vita privata e professionale: quando si lavora da casa un giorno alla settimana si ha tutto il tempo per gestire questa difficoltà, non c’è il resto della famiglia a condividere lo spazio vitale e la libertà di movimento è massima. Ora invece sono tutti a casa, manca uno spazio dedicato; in più ci sono i figli, che se non sono abituati ad avere a casa mamma e papà fanno fatica a distinguere il tempo del gioco da quello del lavoro.

Un altro problema che si acuisce è mettere una fine alla giornata lavorativa. In una normale condizione di smart working si lavora magari di più, ma si riesce comunque a portare a termine altro e a organizzare una serie di cose che solitamente in ufficio non si riescono a fare. In questo periodo purtroppo invece è così tutti i giorni, e chi non è abituato non riesce a mettere fine al lavoro, che tra l’altro si è moltiplicato per tante figure. 

Altri problemi invece sono nuovi e legati strettamente all’emergenza che stiamo vivendo: il senso di isolamento per chi è solo, che è psicologicamente molto pesante.  Inoltre c’è il tema della stanzialità, non ci si muove nemmeno quel poco che si faceva nello spostamento casa-ufficio ed è deleterio per la salute fisica di tutti noi.

“Tutte queste cose, unite al senso di affaticamento psicologico che molti stanno vivendo, rende purtroppo l’esperienza nel complesso piuttosto negativa, quando invece lo smart working dovrebbe poter fare esattamente il contrario”, spiega Maria Vittoria.

Le regole per un lavoro davvero smart in quarantena

Come fare, allora? Possiamo disperarci, lamentarci della situazione terribile che stiamo vivendo, fagocitare ore e ore di contenuti spazzatura sui social e uscire a cantare sui balconi tutto il giorno. Oppure possiamo rimboccarci le maniche, e provare a vedere questa situazione per quella che è: un’opportunità per imparare e migliorare. Qualcosa che devono fare per primi i dirigenti.

La sfida iniziale per le aziende è stata quella di abilitare tutti in fretta e furia al lavoro da remoto, ma ormai è passata. Ora è mantenere la produttività senza andare a scapito di altro: bisogna comprendere un attimo qual è la situazione, quali sono le figure più stressate in questa situazione, e quali quelle che invece si sono viste svuotate dal carico di lavoro perché in queste settimane non possono più essere attive. I responsabili in azienda devono comprendere qual è il bilanciamento e poi capire come supportare adeguatamente le persone. È una situazione che non finirà domani, probabilmente ce la porteremo dietro a ondate per parecchi mesi: non si può far finta che non sia così e nascondere la testa sotto la sabbia”, ammonisce Mazzarini.

E per chi improvvisamente si ritrova a dover lavorare da casa per un periodo di tempo indeterminato, quali sono i consigli?

La verità è che è il singolo che deve essere bravo a prendere in mano la situazione; le aziende più attente magari provano a inventarsi qualcosa, come le lezioni di yoga da remoto mattutine o i pranzi virtuali tutti in videochiamata, ma alla fine è il lavoratore che deve organizzarsi per il proprio caso specifico.

Fondamentali quindi:

  • Orari di inizio e fine chiari, oltre a definire chiaramente delle pause. “È difficile, me ne rendo conto anche io che ero già abituata al lavoro da remoto, ma solo così è possibile viverlo bene e dedicare del tempo a se stessi e a chi si ha intorno”, ammette Maria Vittoria.
  • Prendersi dei momenti da dedicare a se stessi,  migliorando anche il nuovo ambiente di lavoro, rendendolo più confortevole. La sedia è scomoda e fa venire mal di schiena? È essenziale acquistarne una ergonomica, ed è un investimento anche per il futuro, e non andare a lavorare dal divano.
  • Per chi ha famiglia, magari bambini piccoli, bisogna prendersi delle pause da dedicare a loro, ma definire anche chiaramente i confini della giornata e degli spazi lavorativi dei genitori. Lo stesso vale per le situazioni di tensione in coppia: è essenziale ritagliarsi del tempo di qualità. 
  • Fare attività fisica è fondamentale: una postazione non ergonomica si fa sentire a fine giornata, e fare stretching o yoga diventa essenziale.
  • Bisogna ascoltare se stessi, comprendere la situazione ma non farsi nemmeno bombardare dalle notizie e dalla negatività. Tempo di qualità è anche questo, significa cercare di filtrare le informazioni, non lasciarsi trascinare dai media e soprattutto dai social network, ma prendersi del tempo per metabolizzarle.
  • Provare a ricreare la routine mattutina: svegliarsi, vestirsi, fare colazione, truccarsi, etc. Non tutti i giorni magari, ma provare a mantenere quelle abitudini che avevamo può aiutare a far fronte all’incertezza che stiamo vivendo, in una situazione ad alto impatto emotivo come questa. La giornata lavorativa è già stressante in questo momento, con processi e priorità che cambiano di continuo; ci sono tante sollecitazioni diverse, e ritrovare quelle piccole certezze quotidiane può far la differenza.
  • Cercare di ridurre le chiamate in favore di altri strumenti di lavoro, come Trello o Slack.
  • Creare momenti di socializzazione, anche se mediati dalla tecnologia, con colleghi e amici, e non lasciare che la situazione ci “abbrutisca” o ci faccia isolare.

 

Se riusciremo a fare queste cose, non solo saremo produttivi nonostante la situazione difficile, non solo ci sentiremo meno stressati e insicuri, ma riusciremo anche a trasformare questo momento di crisi in un’opportunità per il futuro.

“Dobbiamo leggere la situazione attuale e intercettare tutte quelle best practice, quei cambiamenti che sono stati apportati dai team e che stanno dando buoni frutti; se sapremo standardizzarle, portarle a normalità per quando torneremo in ufficio, allora avremo fatto un passo da gigante verso il lavoro veramente smart.

Anche quando tutto sarà finito, ci troveremo a vivere una nuova normalità, non la stessa di prima; bisogna individuare le competenze soft che ci supportano in tempi come questi (capacità di adattamento, di generare innovazione, etc) e farne tesoro, anche più che di quelle hard – continua Maria Vittoria.

Si entra nel tema molto ampio dell’anti-fragilità, un “nuovo” termine di cui si sta parlando tanto, che supera quello di resilienza; mentre questa ci dice “accusa il colpo e rialzati”, anti-fragilità significa “accusa il colpo, osserva ciò che puoi imparare da esso, mettilo a sistema e crea qualcosa di migliore di prima grazie alle informazioni acquisite”.

Insomma, cerchiamo di vedere cosa di buono possiamo portarci a casa, mettiamolo a valore e cerchiamo di diventare persone e organizzazioni migliori di prima.

Se ci riusciremo, tutto questo forse non sarà stato in vano