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Home Working: le nostre case sono pronte al lavoro da remoto?

Emergenza sanitaria. Il Governo chiede ai cittadini di rimanere in casa e invita le aziende a facilitare le persone a lavorare dalla propria abitazione. Non parliamo di un ipotetico futuro fantascientifico, ma del presente. Si passa così in poco meno di una settimana dai 570mila smart worker censiti a ottobre dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, a 8 milioni di home worker.

Dopo quasi un mese trascorso in questa condizione obbligata, è possibile fare le prime valutazioni su vantaggi e svantaggi del lavoro da casa ed è quello che ha fatto l’Osservatorio Copernico sullo Smart Working, nuove tendenze  nei luoghi di lavoro e lifestyle.

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Home Working, Smart Working e le nostre case

L’home working funziona, il sistema sta reggendo ma ormai tutti abbiamo compreso che questo modo di lavorare e lo smart working non sono due facce della stessa medaglia, né due modi diversi di esprimere uno stesso concetto. Semmai il primo può essere una parte marginale del secondo perché praticare lo smart working solo tra le quattro mura domestiche non è efficace.

Se l’home working, grazie alle tecnologie che permettono di essere connessi anche dalla propria abitazione, ha fornito una risposta efficace a una condizione di emergenza, ha creato però anche alcune difficoltà.

Se da un lato la maggiore autonomia e responsabilità ha favorito nel lavoratore un certo senso di appagamento, dall’altro ha reso difficile il work-life balance e, soprattutto per chi abita in città o in un appartamento, la sensazione più comune è stata quella di vivere in una casa che scoppia.

Infatti, se con lo smart working possiamo decidere da dove lavorare e quali attività dedicare alle giornate fuori ufficio, ora siamo costretti a vivere lo spazio domestico in una soluzione di continuità e ad adattarlo perché risponda nel corso della giornata a molteplici funzioni, condividendolo anche con altre persone che possono avere bisogni diversi.

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Come dice Francesco Scullica, architetto, professore del politecnico di Milano e direttore scientifico del Master Interior Design del Politecnico gestito da POLI.design e autore del libro Living, Working, Travelling: “Il nostro spazio domestico è improvvisamente inadeguato: i modelli di open space, di spazi a pianta libera, che ha avvantaggiato negli ultimi anni la zona living a scapito di quella più privata, sono messi in discussione”.

La casa: un modello da rivalutare?

Le case, insomma, non si adattano molto bene al lavoro continuativo da remoto. Dopo anni in cui la casa era stata poco vissuta – soprattutto dai più giovani – a favore di spazi pubblici, luoghi culturali, ristoranti e palestre, ora invece tutto accade nelle quattro mura domestiche e l’intero nucleo familiare è costretto a vivere insieme ogni giorno. E sebbene sia una situazione temporanea (che durerà si spera solo ancora qualche settimana), è pur vero che in futuro l’home working inevitabilmente sarà sempre più diffuso.

Tuttavia, è bene ricordare che lo spazio abitativo è pensato per delle funzioni diverse dal lavoro: non possiamo progettare totalmente l’architettura delle nostre case in funzione dell’home working perché perderebbero la loro funziona principale: quella di accogliere noi e le nostre famiglie nei momenti informali, di relax, di vita domestica condivisa.

“La casa non può sostituire completamente un ufficio o uno spazio di coworking. Spesso per ragioni tecnologiche, ma soprattutto per la mancanza del fattore umano. Gli uffici sono infatti spazi relazionali dove si costruiscono comunità. Sono luoghi di incontri, opportunità e scambi di idee, sono acceleratori di relazioni. Ma è probabile che si lavorerà uno o due giorni a settimana da casa” continua Scullica.

E allora, come possiamo organizzare al meglio il lavoro da casa?

In questo specifico frangente, laddove possibile, si è optato per adibire una stanza o un angolo della casa per l’attività lavorativa (magari con una scrivania, una sedia ergonomica e la giusta illuminazione) ma è il massimo che si è potuto fare in una situazione di quarantena.

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Ripensare, trasformare, rendere flessibile

Se vogliamo in un futuro rendere le nostre case più adatte ad accogliere alcune nostre giornate lavorative, possiamo provare a ripensare la distribuzione degli spazi, in particolare la suddivisione tra quello pubblico e quello privato.

“Dovremmo innanzitutto stabilire quali potrebbero essere le stanze della casa aperte a tutti, sempre, e quali gli spazi dedicati al raccoglimento e al lavoro individuale” – ha dichiarato Isadora De Pasquale, architetto progettista di Copernico – “Non sarà come lavorare da un ufficio attrezzato o da uno spazio dedicato allo smart working – che abilita il networking, offre eventi e servizi, favorisce la creatività – ma sicuramente diventerà parte di un progetto più ampio che unisce agli uffici flessibili o agli uffici delle proprie aziende anche un momento tra le quattro mura di casa”.

La parola d’ordine del futuro nell’interior design sarà insomma flessibilità, negli spazi e negli arredi. Se negli ultimi anni il lavoro di architetti e designer si era concentrato per rendere gli uffici adatti sia al lavoro sia alle relazioni, in funzione di un migliore bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa, ora è il momento di fare lo stesso all’interno delle nostre abitazioni.

Ecco allora qualche proposta del Prof. Scullica e dell’Arch. Isadora De Pasquale per trasformare (dove possibile) le nostre case in funzione dell’home working, che sempre più farà parte delle nostre abitudini.

Trasformare la casa in un ufficio?

Se trasformare la casa in un ufficio è impossibile, possiamo però quantomeno cercare di trasferire in casa alcune delle buone pratiche che solitamente adottiamo nell’arredamento funzionale degli uffici. Ecco alcuni esempi:

  • Avere uno spazio personale dedicato al lavoro. Se in ufficio questo si traduce, nella maggior parte dei casi, in una scrivania, in casa significa trovare un angolino che possiamo allestire appositamente. Può essere anche uno spazio molto piccolo, ma deve essere accogliente e confortevole, adeguato al lavoro. Uno spazio in cui non ci siano disturbi esterni, per quanto possibile. E non dimentichiamoci di creare anche uno sfondo adatto alle videoconferenze! Lo sfondo dice molto di noi e delle nostre abitudini.
  • Dare importanza ai luoghi di transizione. Come le hall negli uffici, gli spazi condivisi e i corridoi sono luoghi “neutri” in cui la mente può cambiare orizzonte e riposare: Anche se si lavora da casa è bene avere uno spazio di transizione simile. Inevitabilmente, molto spesso nelle abitazioni questa funzione è svolta dall’ingresso e dai corridoi tra le stanze. Che riacquisiscono così l’importanza che avevano perso nel tempo, tanto che in molte case oggi vengono aboliti in virtù della creazione di soggiorni open più ariosi. Ecco che nella situazione attuale, l’ingresso delle case diventa fondamentale, perché funge da filtro, sia verso l’esterno, ma soprattutto rispetto alle altre stanze della casa (così come i corridoi). Diventeranno i “cuscinetti” tra la zona di lavoro e il resto dell’abitazione, e miglioreranno il famoso work-life balance.
  • Scegliere arredi ergonomici per le zone di lavoro, senza rinunciare però allo stile della propria casa. È importante ricordare ancora una volta che una cosa è l’ufficio, altra cosa è la casa: questa distinzione resterà fondamentale alla fine di questa emergenza, quando potremo tornare ai nostri usuali luoghi di lavoro. Quindi, la scelta migliore sarà, da un lato, rendere confortevole il luogo della casa deputato al lavoro – con una seduta adatta, uno schermo sufficientemente grande e una scrivania della giusta altezza – ma, dall’altro, non dimenticare che i colori e i materiali di questa zona devono integrarsi con quelli dell’abitazione, per non spezzare l’armonia generale dell’arredamento.
  • Scegliere arredi flessibili e mobili può essere un’idea funzionale agli spazi più piccoli o più aperti. Ad esempio, tavoli che possono essere anche scrivanie o sedute leggere che possono essere spostate facilmente. Non tutti hanno la possibilità di creare uno spazio dedicato esclusivamente al lavoro, ma già cambiare la sedia o trasformare il tavolo può aiutare la concentrazione.
    Introdurre degli elementi di verde. Piante verdi da interno, fiorite o grasse, oppure una vista dalla finestra su un parco o un giardino (per i più fortunati): gli elementi naturali aiutano la concentrazione, stimolano la creatività e l’energia. Dovrebbero essere presenti in ogni ufficio e in ogni casa.
  • Infine, ricordiamoci che anche l’arte è un acceleratore di creatività. In questi giorni di quarantena si possono sfruttare i tour virtuali messi a disposizione da tanti musei, ma si potrebbe anche pensare di introdurre elementi artistici in casa, come fonte d’ispirazione. Perché la bellezza, in casa o in ufficio, non è mai abbastanza.
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Come spiegare l’intelligenza artificiale ai propri nonni

  • Anche i nonni iniziano a fare i conti con la tecnologia, con molte difficoltà
  • L’AI fa parte delle nostre vite, ma siamo lontani dalla creazione di un sistema intelligente
  • L’intelligenza artificiale porterà ulteriori e notevoli vantaggi alla società attuale

 

Molti dei nostri nonni stanno iniziando a fare i conti con la comprensione della tecnologia e non solo con un uso passivo: guardandosi attorno è possibile notare che sono sempre di più gli over 65 che si iscrivono ai social network, navigano abitualmente sul web, fanno videochiamate e comprano smartphone all’ultimo grido. Anche le statistiche ISTAT lo confermano, almeno l’80% della popolazione over 60 ha usato internet una volta nella vita e circa un anziano su tre, tra i 65 e i 75 anni, ha navigato nel web nell’ultimo anno. Il 13% dichiara di usarlo addirittura tutti i giorni.

Tuttavia, è noto che il grey digital divide, ovvero il divario tra l’utilizzo delle nuove tecnologie da parte della popolazione anziana, rispetto al resto della popolazione, è ancora parecchio marcato. Ci sono barriere difficili da superare, legate sia a problemi attitudinali che alla difficoltà nell’apprendimento dell’uso dei nuovi strumenti di comunicazione. E spiegare determinati concetti per noi nativi digitali, non è per niente semplice.

Ci capita spesso di avere difficoltà a spiegare le nostre professioni a una persona che ha poca confidenza con il web, figuriamoci spiegare un concetto complesso come quello dell’intelligenza artificiale. Ma facciamo comunque un tentativo.

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Cos’è e come funziona l’intelligenza artificiale?

Il termine Artificial Intelligence (AI), coniato nel 1956 dall’informatico statunitense John McCarthy, sottintende un campo di studi che consente alle macchine di “pensare” e mettere in atto comportamenti tipici dell’uomo, ad esempio comprendere il linguaggio naturale, ragionare, interagire con le persone, le macchine e l’ambiente. Come? Tramite tecniche di apprendimento automatico

La nonna avrà capito? Mi sa di no. Proviamo con un esempio.

Immaginiamo di dover sistemare una serie di fotografie all’interno di diversi album e di doverle dividere in base al soggetto. A noi uomini basterebbe una semplice occhiata per poterle classificare ed inserire nel raccoglitore corrette. Ma se questo compito lo dovesse svolgere un computer, anziché una persona? Per poterlo fare, bisognerebbe rendere il computer capace di riconoscere e categorizzare le immagini. A questo scopo gli studiosi hanno inventato le reti neurali, soluzioni matematiche che, ispirandosi al funzionamento del cervello, agiscono imparando a selezionare l’immagine corretta, mediante le informazioni che sono in grado di raccogliere. Più informazioni riesce a memorizzare un computer, meno sarà difficile sbagliare le operazioni successive.

machine learning

Molto spesso, quando si sente parlare di intelligenza artificiale, siamo abituati a pensare ai robot che ci raccontano i film, come Terminator e Blade Runner, ma non ci accorgiamo che in realtà essa è già presente nelle nostre giornate quotidiane e vi interagiamo continuamente.

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Com’è nata l’intelligenza artificiale?

Le prime tracce della cosiddetta “AI – Intelligenza Artificiale” come disciplina scientifica risalgono agli anni Cinquanta: in questo ambito ebbe un ruolo fondamentale Alan Turing. Nel suo articolo “Macchine e intelligenza informatica” spiegò un esperimento noto come “test di Turing”, secondo cui una macchina poteva essere definita intelligente dal momento in cui il suo comportamento sarebbe stato considerato indistinguibile da quello di una persona.

Come nacque l’interesse per questo tema? Negli anni ‘40 si scoprì che la struttura interna del cervello è composta da una rete di neuroni che trasmettono impulsi elettrochimici ed iniziarono a chiedersi: sarebbe possibile replicarne il funzionamento? Da questa idea ebbe origine il progetto di una macchina pensante, capace di parlare, ragionare, imparare, esattamente come una persona. A partire da quegli anni ci fu un periodo di incessante ricerca, che portò ad enormi successi: McCulloch e Walter Pitts crearono il primo modello di rete neurale ispirato al cervello (1943), Marvin Minsky e Dean Edmonds svilupparono il primo “neuro computer” (1951), mentre Allen Newell e Herbert A. Simpson svilupparono il primo vero sistema AI (1955).

Se inizialmente questa disciplina aveva nomi diversi (ad esempio “programmazione euristica” o “sistema intelligente”), nel 1956 prevale il termine “intelligenza artificiale. Questa definizione venne usata per la prima volta da John McCarthy, durante uno storico convegno dedicato, tenutosi a Dartmouth. Durante gli anni successivi alla nascita dell’Intelligenza Artificiale ci furono molte sperimentazioni e anche le aspettative iniziarono a crescere, ma i macchinari dell’epoca non disponevano di una capacità adeguata. Di conseguenza, a partire dagli anni ‘70 si passò ad un approccio più pragmatico. Oggi l’intelligenza artificiale non è più un’ipotesi, ma trova applicazione in diversi ambiti.

La strada da percorrere per creare un vero “sistema intelligente”, però, è ancora lunga.

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Come si può classificare l’intelligenza artificiale?

Anche se siamo ancora molto distanti dalla creazione di una vera e propria “intelligenza artificiale, i progressi ottenuti in questi anni non hanno precedenti: automobili che si guidano da sole, assistenti vocali, sistemi di riconoscimento delle immagini, orologi che monitorano i nostri parametri vitali, ma anche macchine in grado di sostituire i lavoratori per specifiche mansioni.

Due sono stati gli approcci perseguiti per raggiungere questo risultato: il primo consisteva nel costruire dei software capaci di replicare l’uomo nel modo di ragionare e nel comportamento; il secondo, invece, prevedeva di far assumere un determinato atteggiamento alla macchina basato su un problema posto dalla realtà. 

Di conseguenza sono state definite due tipologie di AI:

  • intelligenza artificiale debole, quando un software è in in grado di simulare alcune funzionalità cognitive dell’uomo, senza raggiungere le piene capacità intellettuali. I sistemi attualmente in uso possono essere classificati all’interno di questa categoria;
  • intelligenza artificiale forte, quando un software è in grado di sviluppare una propria capacità intellettuale, senza dover emulare l’uomo. I più ottimisti pensano che un giorno sarà possibile ottenere una macchina con queste capacità.

Artificial intelligence debole e forte stanno alla base della distinzione tra:

  • machine learning, o apprendimento automatico, consiste in un insieme di tecniche che permettono alle macchine di “imparare” dai dati e prendere decisioni. Alcuni esempi per questo tipo di sistema di intelligenza artificiale sono il riconoscimento facciale (Facebook), la classificazione degli oggetti, etc. L’apprendimento può essere svolto con tre modalità: mediante esempi (con supervisione didattica), mediante l’analisi dei risultati (senza supervisione didattica) e mediante un premio al raggiungimento di un risultato (reinforcement learning);
  • deep learning, o apprendimento approfondito, consiste in un insieme di tecniche che cercano di emulare la struttura e la funzione della mente umana (reti neurali artificiali). Se il nostro cervello, per formulare una risposta ad un quesito o arrivare alla risoluzione di un problema, mette in moto i propri neuroni biologici, il deep learning sfrutta le connessioni neurali. Alcuni esempi per questo tipo di sistema di intelligenza artificiale sono il riconoscimento automatico della lingua parlata, l’elaborazione del linguaggio naturale (NLP), etc.

come funziona l'intelligenza artificiale

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Opportunità e rischi dell’AI nel 2020 

L’intelligenza artificiale è uno strumento che potrebbe portare notevoli vantaggi alla società attuale. In primis perché è in grado di fornire soluzioni semplici per la vita di tutti i giorni. Basti pensare agli assistenti vocali e ai sistemi di smart home, come Siri, Google Home, Alexa, Cortana, che sfruttano l’intelligenza artificiale, sia per il riconoscimento del linguaggio naturale, che per l’analisi delle abitudini e dei comportamenti degli utenti, ma anche ai frigoriferi intelligenti che segnalano gli ingredienti che mancano, alle automobili a guida autonoma e ai sensori intelligenti, capaci di elaborare in tempo reale i percorsi più convenienti e veloci. Per non parlare degli assistenti virtuali, che potrebbero essere un valido sostegno per gli anziani, facendo compagnia, ricordando di mangiare e assumere farmaci, inviando richieste di soccorso in caso di necessità, etc.

Inoltre, l’AI troverebbe applicazione anche nell’ambito del lavoro. Molte attività, grazie all’intelligenza artificiale, potrebbero essere svolte con un grado di accuratezza molto più elevato, con un margine di errore inferiore e molto più rapidamente. Se, da un lato, l’automazione potrebbe lasciare alcuni impiegati senza lavoro (timore giustificato dal fatto che la metà delle attività lavorative potrebbe essere automatizzata entro il 2055, secondo il report “A Future That Works: Automation, Employment and Productivity”, realizzato dal McKinsey Global Institute), è altrettanto vero che potrebbero delinearsi nuove figure professionali, capaci di costruire, mantenere, operare e regolare queste tecnologie emergenti. Questo vantaggio è confermato da uno studio: un report di Capgemini intitolato “Turning AI into concrete value”. 

L’intelligenza artificiale applicata alle vendite, ad esempio mostra risultati davvero significativi: grazie all’utilizzo di sistemi esperti, le persone sono in grado di trovare risposte ai loro problemi, scegliere il prodotto più appropriato, senza richiedere l’intervento di un professionista. Il funzionamento è molto semplice: se si ha un problema, basta collegarsi al sito web o alla app per fare una domanda alla macchina ed ottenere una risposta immediata.

Ma non solo, in caso di difficoltà di scelta, il sistema è in grado di elaborare le risposte dell’utente per fare domande sempre più accurate e arrivare a definire una proposta commerciale valida. Quello che l’AI sta cercando di fare è rendere questi sistemi sempre più “umani”, lavorando sul tone of voice e sullo stile espressivo: in questo modo sarà possibile instaurare una connessione emozionale con gli utenti e aumentarne il coinvolgimento.

In terzo luogo, l’intelligenza artificiale potrebbe portare enormi vantaggi al sistema sanitario: può essere utilizzata per individuare precocemente un problema, per fare una diagnosi rapida di malattie rare, individuando dettagli che spesso sfuggono all’occhio umano, ma anche per trovare nuove cure e trattamenti sperimentali e per monitorare i parametri vitali. Già oggi sono disponibili sul mercato sistemi cognitivi in grado di attingere e analizzare una grande quantità di dati, e di dedurre soluzioni. Ma non solo, gli assistenti virtuali basati su AI stanno iniziando a supportare i servizi di primo soccorso, le sale operatorie, i disabili (in particolare quelli che non sono in grado di parlare, o di camminare).

Un esempio recente di applicazione dell’intelligenza artificiale nell’ambito medico si è visto a Wuhan, nel corso dell’emergenza Coronavirus, dove sono stati usati sistemi per le diagnosi precoci delle polmoniti e il monitoraggio della malattia, in grado di fornire una risposta attendibile al 98,5%, in soli 20 secondi. La capacità di analizzare grandissime quantità di dati in tempo reale e di “dedurre” attraverso correlazioni di eventi, abitudini, comportamenti, offre un potenziale enorme non solo per la medicina, ma anche per il miglioramento dell’efficienza della sicurezza pubblica, la prevenzione e la gestione della crisi in casi di calamità naturali.

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applicazioni IA

D’altra parte, però, esistono anche dei rischi da tenere in considerazione, oltre alla potenziale perdita di lavoro. Un ipotetico pericolo che molti temono è che l’essere umano possa essere sottomesso da una tecnologia dotata di un’intelligenza superiore, la cosiddetta “super intelligenza”. Altri, invece, non trovano rischi nell’inferiorità, ma nella dipendenza dalla tecnologia e nella salvaguardia della privacy. Questi timori, alimentati da personaggi di spicco come Stephen Hawking ed Elon Musk, potrebbero apparire eccessivi, ma sottovalutare gli impatti dell’Intelligenza Artificiale potrebbe rappresentare il primo fattore di rischio. Un ulteriore problema è rappresentato dalle cosiddette “bolle di filtraggio”. Se i contenuti suggeriti dagli algoritmi delle macchine influenzano l’utente (portandolo a cambiare atteggiamento), la sua visione delle cose che succedono nel mondo potrebbe essere destinata a restringersi e rischierebbe di rimanere intrappolato in una vera e propria “bolla ideologica”.

Capito nonna? L’intelligenza artificiale fa parte delle nostra quotidianità. È importante che si capisca come sfruttarla a nostro favore e non lasciarci sopraffare.

big data e gestione umana

Che cos’è la Big Data Analytics, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi ,sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

 

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato

Antonio Picariello, docente di Sistemi per l’elaborazione dell’informazione presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e di Tecnologie dell’Informazione) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II ed esperto di Big Data Analytics.Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Dove andremo a finire? Beh, il sistema di Big Data permette di fare previsioni, ma i miei algoritmi non sono ancora così accurati. Devo dire che sicuramente è un fenomeno che è nato, che è in continua evoluzione, e che non potrà sicuramente avere fine. Vivrà un continuo sviluppo, in svariati campi di applicazione e in diversi domini applicativi”, questo il pensiero del Prof. Picariello, esperto di Big Data, che ha una visione positiva rispetto all’utilizzo dei dati anche per quanto riguarda le piccole e medie imprese, che dovrebbero “cercare di capire quale aspetto del proprio processo produttivo può essere migliorato con l’Analytics dei dati. E quindi fare un’analisi serena di quelli che sono i propri processi produttivi, ma soprattutto di quello che è il mercato. A partire da questo, un buon team di Data Scientist, necessariamente formato da tecnologi, ma anche e soprattutto da esperti del dominio applicativo, riuscirà ad indirizzare quelle che sono le principali tecnologie che potranno essere usate”.

Sui limiti di tale tecnologia ritiene che “il grosso problema non è tecnologico, non è economico, ma dal mio punto di vista riguarda un cambio di mentalità. Un cambio di mentalità che deve necessariamente investire i manager e chi gestisce le PMI. Capire insomma che questi dati non devono essere persi, ma possono venire riutilizzati per migliorare il processo stesso. Se avverrà questo salto di mentalità, legato ai bassi costi e alla capacità oramai di uso di algoritmi sempre più performanti, per alcune tipologie di mercato, sono certo che le PMI colmeranno velocemente il loro gap con le Big Company”.

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Approfondimenti

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Al giorno d’oggi, l’accesso a Internet è considerabile un bene di prima necessità e la connessione ha raggiunto livelli di quasi ubiquità su scala globale. Difatti, secondo il Global Digital Report 2019, resoconto annuale circa i comportamenti di consumo nell’ambito delle tecnologie informatiche e digitali, gli utenti Internet sono cresciuti- e crescono- a un ritmo esponenziale, dando forma ad uno scenario planetario sempre più digitale e interconnesso.

Secondo il report, realizzato dalla creative agency internazionale We Are Social e dalla piattaforma di social media management Hootsuite, oggi gli utenti di Internet sono circa 4,39 miliardi, con un aumento del 9% (366 milioni) rispetto a gennaio 2018; inoltre, globalmente si registrano circa 5,11 miliardi di utenti unici di telefonia mobile, con un incremento nell’ultimo anno del 2% (vale a dire circa 100 milioni). 

La novità fondamentale degli ultimi anni, infatti, è la diffusione delle tecnologie digitali ed informatiche mobile (dispositivi come smartphone e tablet) e l’estensione della connettività a Internet a device fisici e di uso quotidiano, i quali vanno a formare vanno a formare il cosiddetto Internet of Things: il sistema composto da tutti i dispositivi connessi alla rete Internet che, grazie a tale connessione, possono interagire fra di loro ed essere controllati on remote.

Nel mondo dunque, si registra una crescita esponenziale e continua dei dispositivi che si servono della connessione a Internet per comunicare fra di loro e con gli utenti. Tali devices connessi funzionano anche come data points: ovvero, essi sono costantemente impegnati nella produzione, nella raccolta e nella condivisione di grandi quantità di dati in formato digitale.

È proprio per questo motivo che oggi si suole parlare di Big Data

Con l’espressione big data ci si riferisce alla vasta mole di dati che viene continuamente prodotta dai devices digitali connessi. Si tratta di dati in formato digitale di natura multimediale che possono essere sia strutturati (provenienti da database) che non strutturati (non provenienti da database). 

Il modello utilizzato dalla comunità scientifica internazionale per descrivere i big data è quello delle cosiddette ‘4+1 V’ : volume, variety, velocity, veracity, value (dove le prime quattro ‘v’ sono, rispetto all’ultima, di natura più strettamente tecnica).

Il termine volume (‘volume’), dunque, fa riferimento alla quantità di dati generati ogni secondo da sorgenti eterogenee: esseri umani, sensori e dispositivi mobili generano un‘enorme quantità di dati, il cui volume si espande fra il 50 e il 60% ogni anno. Secondo l’International Data Corporation nel 2020 esisteranno 40 zettabyte di dati (6 terabyte di dati per ogni persona vivente).

Con variety (‘varietà’) ci si riferisce alla grande diversità nella tipologia dei dati generati, raccolti ed utilizzati: essi infatti sono incredibilmente eterogenei fra di loro, essendo provenienti da una serie di fonti diverse, come web server, dati di borsa o dati ricavati da attività e interazioni social. In particolare la caratteristica della varietà è necessaria a sottolineare una delle principali novità dell’epoca dei big data, vale a dire il fatto che- a differenza di quanto avveniva precedentemente- oggi si prendono in considerazione anche dati semi strutturati e non strutturati, al fine di avere risultati d’analisi più accurati e profondi circa gli specifici fenomeni.

Il termine velocity (‘velocità’) fa riferimento alla rapidità con cui questi dati vengono prodotti, raccolti e trasmessi (il che, è chiaro, incide notevolmente sul volume: vale infatti la pena notare che le caratteristiche dei big data sono strettamente legate fra loro e inscindibili l’una dall’altra). La velocità, inoltre, è componente essenziale anche per la fase finale del ciclo di vita dei big data, vale a dire l’analisi: proprio per via del rapido tasso di crescita e, in generale, di cambiamento di statistiche e informazioni, è essenziale che i dati vengano raccolti e analizzati in tempo reale, al fine di non realizzare analisi i cui risultati vadano rapidamente incontro all’obsolescenza. 

Con veracity (‘veridicità’) si vuole indicare la precisione e l’esattezza dei big data: considerata la quantità e la varietà dei dati prodotti e scambiati e la velocità con cui si sommano gli uni agli altri, sarebbe impensabile non prendere in considerazione la qualità delle informazioni analizzate, poiché i risultati delle analisi sempre più spesso e in maniera decisiva condizionano processi decisionali di aziende, organizzazioni e istituzioni. 

Infine, l’ultima delle v è quella che rappresenta il value (letteralmente ‘valore’) legato ai big data. I big data hanno un grande potenziale in termini di generazione di vantaggio competitivo: essi producono valore poiché permettono di semplificare una serie di operazioni- o addirittura di realizzare task prima ineseguibili- attraverso l’informazione. Oggi si diffonde, infatti, l’Industrial Internet (anche detto Industry 4.0), ovvero il sottosistema dell’Internet of Things che si riferisce implementazione negli ambienti industriali con macchinari, dispositivi e software che permettono la comunicazione machine to machine (M2M, cioè fra i macchinari); human to machine (H2M, tra uomo e macchina); machine to smartphone (M2S, vale a dire tra macchina e smartphone). Così come l’IoT, di cui può essere considerato una componente, il sistema che si sviluppa con l’Industry 4.0 si basa estensivamente sulla capacità di raccogliere dati e trarre valore da questi analizzandoli: oggi si parla infatti di value of perfect information (cioè il valore dell’informazione perfetta) per indicare la capacità di ottimizzare i processi relativi alla raccolta e all’analisi dei dati, al fine di ricavare una conoscenza dei vari fenomeni osservati più immediata, approfondita e affidabile.

Con l’aumentare dei dati prodotti aumenta il loro potenziale in termini di conoscenza e, di conseguenza, aumenta il loro essere risorsa economica (ma anche sociale, politica e culturale) di primaria importanza.

Già da diversi anni- con la prima ondata della Rivoluzione Digitale, vale a dire con la prima diffusione globale di Internet- la letteratura sociologica ha introdotto la categoria temporale del Postindustriale. La principale novità di tale periodo rispetto al precedente – sulla quale si imperniano le ulteriori differenze- sarebbe proprio il fatto che il focus, prima posto sul consumo di beni e prodotti, oggi è costituito dall’informazione, la quale assurge a risorsa di sconfinata importanza e che esercita un’influenza decisiva sia nell’ambito del quotidiano che in quello dell’impresa. 

Data Science: analisi e applicazioni dei Big Data

Il valore dei big data è dunque legato all’utilizzo che ne viene fatto, vale a dire alla loro analisi. I processi di analisi che fanno parte della disciplina definita come data science consentono di estrarre informazioni dalle grandi moli di dati al fine di ricavarne supporto per guidare i processi decisionali; monitorare logistica e attività; elaborare modelli di reazione a imprevisti; valutare performance e tanti altri task. 

È possibile distinguere diverse tipologie base di Big Data Analytics applicate all’ambito del business: descriptive analytics; predictive analytics; prescriptive analytics.

La descriptive analytics (cioè l’analisi descrittiva) impiega gli strumenti analitici al fine di descrivere la situazione passata ed attuale del contesto di riferimento. Tale modello costituisce una risposta alla domanda ‘cosa è accaduto? /cosa sta accadendo?

La predictive analytics (analisi predittiva) è un modello atto a rispondere a domande circa il futuro e a restituire previsioni sulle possibili circostanze realizzabili. Essa è dunque volta a rispondere alla domanda ‘cosa è probabile che accada?’.

Infine, c’è la prescriptive analytics (analisi prescrittiva): anch’essa, come la precedente, getta uno sguardo al futuro e, nello specifico, si caratterizza per l’obiettivo di restituire soluzioni operative e strategiche sulla base delle analisi eseguite. Risponde dunque all’ipotetica domanda ‘come fare che questo accada?’.

Sebbene l’analisi dei dati non sia una disciplina completamente nuova, ciò che costituisce la novità risposta al passato è la grande disponibilità dei dati, la quale permette di applicare modelli più sofisticati e avere quindi risultati molto più accurati che in passato.

Il Professore Antonio Picariello, docente di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e di Tecnologie dell’Informazione) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sostiene che la vastità della mole di dati oggi disponibile è destinata a cambiare il mondo della ricerca e quello dell’impresa. La quantità delle informazioni continuamente prodotte sia dall’interazione degli oggetti connessi sia sotto forma di user generated content, è un fattore determinante – anche se non l’unico- nel dare forma e caratterizzare la moderna data science. Nel caso dei big data, dunque, la maggior parte delle volte bigger significherà anche smarter poiché, secondo Picariello, i grandi dataset permetteranno agli algoritmi di lavorare meglio, tollerando gli errori e scoprendo le long tails (modelli di distribuzione diffusi) e i corner cases (casi isolati e specifici). 

Più dati, di contro, significa (e significherà sempre di più) anche più problemi: maggiore eterogeneità da gestire, necessità di software e algoritmi più potenti, esigenza di sistemi di storage più capienti ed efficienti e, soprattutto, urgenza di misure di protezione della privacy estese e funzionali. 

In questo quadro, un approccio fondamentale sembra essere quello della collaborazione fra enti e organizzazioni: il modello peer-to-peer, l’ottica collaborativa e la logica open source costituiscono infatti un’importante risorsa per le imprese e le istituzioni che mirano a ottimizzare il loro operato nell’ambito della data science, come testimonia ad esempio la diffusione della piattaforma Apache Hadoop: si tratta infatti di un ormai popolare set di software utilities open-source il cui obiettivo è quello di facilitare l’utilizzo di una rete di calcolatori per risolvere problemi che implicano vaste quantità di dati.  

La vera sfida, dunque è comprendere l’utilità della mole di dati che ingloba il nostro pianeta in una rete interconnessa e, soprattutto, ottimizzare strumenti, metodi e modalità di sfruttamento. D’altronde- sostiene Picariello- ‘i dati hanno preso il posto del petrolio’ ma, a differenza del combustibile fossile estratto e sfruttato allo sfinimento nel corso dell’ultimo mezzo secolo, i dati possono essere considerati una risorsa rinnovabile e sostenibile. 

Vale dunque la pena di intensificare e proseguire le ricerche sul loro utilizzo. Bisogna inoltre che divulgare l’informazione in tale ambito e, da parte delle aziende, vi è la necessità di puntare sulle competenze specifiche di quello che dall’Harvard Business Review è stato definito come ‘The Sexiest Job of 21st Century’: quello del Data Scientist.

Che cos’è l’Intelligenza Artificiale, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0” è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Silvia Rossi, Assistant Professor al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione e Co-chief del PRISCA Lab – Intelligent Robotics and Advanced Cognitive System Projects.

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

La Prof.ssa Silvia Rossi ritiene che l’intelligenza artificiale “non può essere semplicemente una keyword che va di moda”, questo soprattutto in riferimento agli ambiti di applicazione per le imprese, infatti sostiene: “L’aspetto cruciale sta nel fatto che non si fa realmente comprendere alle aziende quali tipi di problemi potrebbero essere risolti, quali sono i reali campi di applicazione e quali aspetti un’azienda potrebbe migliorare grazie all’utilizzo dei sistemi di Machine Learning o Artificial Intelligence. Diciamo che, secondo il mio parere, l’utilizzo che se ne fa a livello industriale e aziendale è ancora minimo, è molto basso. Ma la mia idea è che nel prossimo futuro ci sarà una grossa rivoluzione in quest’ambito dovuta, appunto, all’utilizzo di sistemi di automazione e sistemi di Intelligenza Artificiale”.

E ancora, a proposito del laboratorio PRISMA aggiunge: “Molte delle tematiche che affrontiamo in questo laboratorio, in realtà, hanno una ricaduta nell’ambito di quella che chiamiamo Industria 4.0, perché la possibilità di poter interagire con l’uomo e aumentare le capacità di un processo produttivo (sia dal punto di vista dell’efficienza che dell’esperienza del lavoratore) può essere sviluppata tenendo conto di algoritmi di apprendimento automatico, oppure dei cosiddetti metodi di Machine Learning, in cui tanti dati e tanti esempi vengono dati in pasto ad una macchina che è in grado di generalizzare sulle caratteristiche e di apprendere quali sono quelle più rilevanti per un determinato argomento. Questo dà la possibilità alla macchina di poter interagire con l’utente in tempo reale e comprendere cosa quest’ultimo vuole, come poterlo aiutare”.

Poi avverte anche sui possibili rischi: Sono le piccole aziende che devono capire come tutelarsi, ma anche noi dobbiamo capire come proteggere la nostra privacy, oppure come fornire i dati soltanto a chi vogliamo e come vogliamo, quindi in maniera più oculata, in modo tale che, chi ne ha bisogno, può avere l’usufrutto di questi dati”.

Sulla possibilità di un approccio mediterraneo all’innovazione, la ricercatrice ritiene che c’è una caratteristica dell’essere mediterraneo, ovvero la capacità di essere flessibile, che è proprio una delle cose che cerca l’AI, cioè rendere i processi flessibili ed adattabili all’uomo. Quindi è proprio in questo incontro con l’uomo che io vedo la visione mediterranea dell’Industria 4.0: l’interazione e la possibilità che macchina e uomo siano entrambi flessibili e possano trovare dei compromessi durante l’esecuzione dei compiti”.

LEGGI ANCHE: È possibile conciliare produttività individuale e produttività aziendale?

Approfondimenti sull’Intelligenza Artificiale

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’Intelligenza Artificiale– anche conosciuta con il suo acronimo AI– può essere generalmente indicata come l’intelligenza delle macchine. Questa espressione si riferisce a quei sistemi che vengono dotati di software in grado di incrementare l’automazione, la capacità di decision making e quella di elaborazione contestuale della specifica macchina o dispositivo.

Per automazione si intende la realizzazione di una tecnologia e la sua implementazione al fine di controllare e monitorare -in maniera autonoma appunto- la produzione e l’erogazione di beni e servizi: si tratta, generalmente, di compiti precedentemente eseguiti dagli esseri umani. La capacità di decision making, invece, consiste nella facoltà della macchina di trovare soluzioni e reagire correttamente a imprevisti, emulando l’attitudine decisionale umana. Infine, la capacità di elaborazione contestuale, consiste nel carpire più informazioni possibile riguardo al contesto di riferimento del dispositivo e si divide in contestualizzazione passiva (monitorare continuamente l’ambiente e raccogliere informazioni); contestualizzazione attiva (monitorare, raccogliere informazioni e reagire in base a queste); personalizzazione (comportarsi sulla base delle preferenze dell’utente specifico). 

La branca della computer science che si occupa dell’AI mira dunque a progettare e produrre macchine intelligenti di diversa tipologia, in grado prima di tutto di detenere informazioni: sono infatti le grandi quantità di informazioni a costituire il bagaglio di conoscenza delle macchine, e sono fondamentali perché esse possano agire e reagire sul modello umano. Inoltre, tali dispositivi devono essere in grado di condurre operazioni di problem solving, percepire le caratteristiche del contesto circostante, manipolare oggetti ed eseguire tanti altri task diversi. 

Uno dei principali settori del campo dell’AI riguarda il Machine Learning- anche conosciuto con l’acronimo ML– ovvero il sistema attraverso il quale le macchine imparano a gestire nuove situazioni, grazie all’analisi dei dati, l’allenamento, l’osservazione e l’esperienza. È proprio grazie al Machine Learning che è possibile avere computer sempre più intelligenti.  

La ricerca e le applicazioni dell’AI

Oggi gli studi sull’Intelligenza Artificiale costituiscono il cuore dell’innovazione tecnologica grazie alla vastità e alla varietà degli ambiti di applicazione dei sistemi che se ne servono. L’Artificial Intelligence può essere implementata in una serie di dispositivi diversi e per vari utilizzi. Ciò appare evidente dall’osservazione di una delle realtà di ricerca più avanzate ed innovative del panorama italiano: il PRISCA Lab del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione (DIETI) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. 

Il PRISCA Lab (Projects of Intelligent Robotics and Advanced Cognitive Systems), che si definisce come una realtà che promuove attivamente ‘la connessione umana tra studenti e ricercatori’ è un laboratorio di ricerca riguardo le avanguardie tecnologiche e la loro implementazione per progetti innovativi, come per i social robots Pepper, Nao e Sanbot, solo alcuni dei dispositivi robotici che il laboratorio ospita al suo interno.

Questo laboratorio, che rientra nel più ampio progetto dell’ ICAROS Center (Interdepartmental Center for Advances in Robotic Surgery), comprende un’ampia gamma di attività di ricerca che ruotano attorno allo sviluppo di sistemi dotati di Artificial Intelligence: Machine Learning, interazione H2M (Human to Machine), Mobile Robotics

A colpire maggiormente, però, è la quantità e soprattutto la varietà degli ambiti di applicazione per tali tecnologie, tra cui spiccano il Cultural Heritage (beni culturali), l’e-Health (la salute), quello relativo alle Smart Cities e quello dell’implementazione delle tecnologie per la Gamification (vale a dire l’utilizzo di elementi e modelli mutuati dai giochi per ambiti esterni a quello ludico). 

Silvia Rossi, co-chief del laboratorio e docente presso il DIETI si occupa dell’ambito dell’e-Health e dell’assistenza sanitaria, in cui l’hi-tech costituisce una svolta in termini di qualità dei servizi e riduzione dei costi. Ad esempio, una delle applicazioni di maggior successo riguarda i robot utilizzati durante specifiche terapie di riabilitazione di bambini con deficit motori, questo ne aumenta l’engagement e la motivazione durante il percorso. Ancora, questi device si dimostrano incredibilmente utili nel lavoro con bambini affetti da autismo, poiché stimolano l’interazione e facilitano la valutazione e il monitoraggio dei risultati: ‘per una macchina del genere– sostiene Silvia Rossi- riconoscere un sorriso è la cosa più facile del mondo’.

Ma al di là di banalizzazioni e fanatismi l’implementazione ad hoc di tali tecnologie non riguarda solo i progressi in termini di processori e computazione: la vera sfida tecnologica, afferma la docente, sta nel comprendere le dinamiche di interazione fra uomo e macchina (la cosiddetta interazione H2M, Human-To-Machine) e progettare quest’ultima di conseguenza. È proprio per questo che l’interdisciplinarietà costituisce un aspetto essenziale del PRISCA Lab, tra le cui mura si incontrano medici, psicologi, psichiatri, informatici, linguisti ed esperti provenienti dagli ambiti più disparati. Il tutto in un’ottica di integrazione e collaborazione volta al generale obiettivo di comprendere le necessità dell’utente, valutare l’utilità della tecnologia e progettarla in base a questi parametri. Tale approccio, alla base del PRISCA Lab, costituisce anche il cuore della ricerca del settore AI.

Franco Cutugno, professore di glottologia e linguistica anch’egli del DIETI, che si definisce come un ‘docente anomalo, una via di mezzo fra un linguista ed un informatico’, è un esperto di linguistica computazionale, disciplina che descrive le caratteristiche formali del linguaggio naturale al fine di trasporlo in software eseguibili dal computer. La linguistica computazionale, spiega il professore, è un ambito piuttosto vasto, che si potrebbe sintetizzare in due macrosettori: il trattamento automatico della lingua parlata e il trattamento automatico dei testi. 

Per quanto riguarda il trattamento automatico della lingua parlata, questo comprende macchine parlanti, sistemi di sintesi vocale e riconoscimento automatico del parlato. Sebbene si tratti di tecnologie innovative e avanzate è essenziale non commettere l’errore di sopravvalutarle: questi sistemi di dialogo, ci tiene a precisare Cutugno, come Siri, Alexa e Cortana, non permettono il dialogo fine a se stesso: essi funzionano se, e solo se, il dominio semantico della richiesta rivolta alla macchina è limitato ai compiti normalmente eseguibili dal dispositivo. 

L’impressione che un’Intelligenza Artificiale come Siri possa fare qualsiasi cosa, dunque, è soltanto un’idea di marketing. Brillante, certo, ma pur sempre un’idea di marketing. Da Alan Turing– che ipotizzò un test basato sull’irriconoscibilità fra interlocutore umano e non umano per individuare una macchina pensante- a Philip Dick – che in Do Androids Dreams of Electric Sheep mette in scena un universo in cui tra robot e umani non vi è più nessuna differenza- l’ irriconoscibilità tra intelligenza umana e tecnologica ha sempre costituito un tema di grande speculazione, ma per ora – sostiene Cutugno – è ancora appannaggio della fantascienza. 

Arrivando invece al secondo settore della linguistica computazionale, quello relativo ai testi, il professore la definisce come quella disciplina atta a riconoscere gli elementi fondamentali della grammatica e che prova, dato uno specifico testo, a estrarre da esso tali informazioni. Attraverso questo sistema è possibile la realizzazione di software di sintesi automatica, traduzione automatica, estrazione di informazione, sentiment analysis e molto altro ancora. 

I vari ambiti di applicazione delle tecnologie sviluppate grazie al supporto teorico e pratico della linguistica computazionale forniscono un ottimo spunto di riflessione circa il non così raro incontro fra hard e soft sciences: uno degli ambiti di ricerca di Franco Cutugno e gli altri membri del team PRISCA Lab, infatti, riguarda l’impiego dell’avanguardia tecnologica nell’ambito del Cultural Heritage, dalle tecnologie museali utilizzate per ampliare e arricchire l’esperienza culturale del museo, ai software che definiscono gli standard di conservazione digitale del patrimonio artistico e culturale (vale la pena a questo proposito di citare le piattaforme online Europeana e Iccu). 

Elena Dell’Aquila, ricercatrice presso il PRISCA, è una psicologa specializzata in Psicologia Organizzazionale e Scienze Psicologiche e Pedagogiche. Il suo principale ambito di studio risiede nell’incontro tra tecnologie avanzate e innovative e modelli psicologici riguardo a metodologie educative e tecniche di insegnamento. In particolare tale incontro risulta nello sviluppo di giochi di ruolo virtuali (serious games) finalizzati allo sviluppo delle soft skills

Punto di partenza sono le teorie di Jacob Levi Moreno, psichiatra austriaco che elaborò una metodologia terapeutica fondata sul gioco di ruolo. Mettendo dunque in pratica una particolare declinazione della metodologia del gioco di ruolo moreniano, la dottoressa Dell’Aquila e i suoi collaboratori hanno sviluppato una serie di RPG (Role Playing Games) virtuali. Un esempio di serious games simula una situazione di conflitto in una classe e mette alla prova l’insegnante riguardo la sua modalità di gestione della difficoltà. Attraverso un complesso framework psicologico viene testata la capacità del docente di affrontare l’imprevisto. Inoltre, il software presenta un elevato grado di accuratezza nella comunicazione che si compone infatti secondo una struttura multimodale: verbale, paraverbale e non verbale. Dopo aver presentato la situazione all’utente e avergli fatto compiere le proprie scelte l’RPG genera un feedback e restituisce al docente una sintesi del suo comportamento. 

Attualmente il programma, rivolto soprattutto a insegnanti di istituti di secondo grado, è distribuito in classi interetniche in 5 diversi Paesi dell’UE: Italia, Belgio, Germania, Austria e Spagna. I trial saranno molto utili per cominciare a varare i risultati e le tendenze che poi saranno analizzati e confrontati al fine di ottenere una prospettiva più accurata della dimensione psicologica del conflitto multiculturale. Più in generale, in ogni caso, si tratta di un ottimo esempio di come gli elementi del gioco possano essere traslati al di fuori dell’ambito strettamente ludico per generare un tipo di conoscenza innovativa e approfondita. 

Come illustrato dall’esempio del PRISCA Lab, dunque, quello della robotica intelligente e dei sistemi cognitivi avanzati è un ambito di ricerca che oggi risulta più che attuale e nel pieno del suo sviluppo, grazie soprattutto alla grande varietà delle sue possibilità di applicazione che vanno dall’industria manifatturiera, alle istituzioni culturali fino ad arrivare, infine, all’assistenza della persona. Inoltre, nei suoi 250 mq di struttura, il PRISCA Lab dimostra come la spinta all’innovazione sia particolarmente favorita da un approccio peer-to-peer che si concretizza in uno scambio intellettuale tra ricercatori, docenti e studenti e una solida impostazione collaborativa interfacoltà. 

Considerazioni sul futuro dell’Intelligenza Artificiale

Riguardo all’argomento AI i dubbi e le incertezze non sono pochi. Dall’influenza dell’automazione sul mercato del lavoro ai rischi riguardo privacy e cybersecurity dei sistemi connessi, diverse preoccupazioni sono legate all’ottimizzazione dell’Intelligenza ArtificIale. Inoltre, tale espressione, sembra essere rientrata nell’interminabile elenco di buzzword che animano le discussioni online e non.

È dunque necessario sostenere una divulgazione ampia e accurata di tale argomento, poiché la comprensione di cosa è e cosa non è AI e delle sue caratteristiche principali è fondamentale per favorire il suo pieno sviluppo. Si tratta infatti di tecnologie che se comprese bene nel loro funzionamento, nella loro utilità e nelle loro modalità di implementazione, potranno avere un effetto a dir poco incisivo- non a caso si può parlare di ‘quarta rivoluzione’- in tanti e vari ambiti industriali e non solo, come è dimostrato ad esempio dai social robots. 

La sfida, dunque, è quella di non restare ancorati ad un livello superficiale della tecnologia e di riuscire a perfezionare l’interazione uomo-macchina la quale, come ogni altro tipo di interazione, si basa sul compromesso e sulla flessibilità

digital divide

Digital Divide e competenze digitali in Italia: a che punto siamo

  • I motivi di esclusione dalle cosiddette ICT, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, possono essere molteplici: la condizione economica, l’età, la mancanza di competenze digitali e la provenienza geografica
  • È importante non lasciare indietro nessuno, fornendo le stesse possibilità digitali a tutti, formando le persone all’utilizzo di questi nuovi strumenti e fortificando le skill di chi è già dentro il mondo digitale

 

In un momento delicato e di isolamento, come quello che sta attraversando da febbraio tutta Italia, le possibilità di connettersi con le persone care o di poter condividere un hashtag o una battuta per sdrammatizzare la situazione, rappresentano un barlume di speranza e stanno mettendo in risalto il lato più caloroso e orgoglioso del popolo italiano: ci si fa compagnia dai balconi e da tutte le terrazze e si organizzano contest sui social network, pur di non darla vinta a questo nemico invisibile.

Connessione è unione, e come recita il famoso detto “l’unione fa la forza”.

Il Digital Divide in Italia

Purtroppo oggi, ma anche in altri momenti, una parte della popolazione italiana non può accedere a questi servizi. Questa disuguaglianza sociale è conosciuta come Digital Divide e con una formula ormai standard, è possibile definirlo come “il divario esistente tra chi ha possibilità di accesso effettivo alla tecnologia e chi invece no, parzialmente o completamente”.

Secondo il Report dell’Istat “Cittadini e ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), pubblicato a dicembre 2019, la percentuale di famiglie italiane che dispongono di una connessione a banda larga è pari al 74,7%, mentre la percentuale degli individui che hanno utilizzato Internet, negli ultimi 3 mesi precedenti l’intervista, è pari al 67,9% (entrambi dati in crescita rispetto alla medesima rilevazione dell’anno precedente).

Indipendentemente dal numero o dalla percentuale, nel 2020 tutti dovrebbero avere accesso a questo genere di opportunità, colmando questo gap, in quanto il non poterlo fare comporta una serie di conseguenze negative su questa parte di popolazione, che possono essere sintetizzate in due enormi svantaggi:

  • il primo di natura culturale: si immagini di non poter ascoltare un interessante podcast, di non poter leggere un quotidiano digitale o di non conoscere gli ultimi trend sui social network (anche un meme ritrae l’attualità e l’attualità è cultura)
  • il secondo di carattere economico: dall’implementazione di una suite mail fino all’installazione di un repositor file condiviso con i colleghi, passando per tutti gli strumenti che rendono possibile lo smart working. Beh, le conclusioni in questo caso sono ancora più immediate.

I motivi di esclusione dalle cosiddette ICT, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, possono essere molteplici: la condizione economica, l’età, la mancanza di competenze digitali e la provenienza geografica.

Ad esempio, una delle categorie più colpite dal Digital Divide è la fascia che comprende i soggetti anziani (65+): questo fenomeno è anche conosciuto come “digital divide intergenerazionale”. Infatti tra le famiglie composte esclusivamente da persone ultrasessantacinquenni, solo il 34,0% ha accesso a una connessione internet a banda larga.

Una sorta di paradosso se si pensa che una delle categorie che più avrebbe bisogno dei vantaggi del digitale, è quella che ne ha meno accesso.

Gli italiani e il mondo digitale

A sostenere l’importanza della connessione fra le persone, è un altro dato emerso dall’ultimo Report dell’Istat “Cittadini e ICT, secondo cui i servizi di messaggeria istantanea rappresenterebbero le attività digitali più diffuse fra le famiglie italiane.

Indipendentemente dal device (smartphone, pc, tablet o wearable), le attività legate all’utilizzo di servizi di comunicazione, che consentono di entrare in contatto con più persone contemporaneamente, sono le più comuni, forse perché sono quelle che riescono a far sentire gli utenti come parte di un unico mondo: più di otto internauti su dieci hanno utilizzato, nei tre mesi prima della rilevazione Istat, servizi di messaggeria istantanea e circa il 64,5% ha effettuato chiamate via Internet.

A seguire in questa classifica sui servizi del web più utilizzati dalle famiglie italiane:

  • Lettura di informazioni e notizie (57,0%)
  • Intrattenimento (film, musica e/o giochi) (47,3%)
  • Home banking (46,4%).

Inoltre più della metà degli utenti di Internet (di almeno 14 anni) ha effettuato almeno un acquisto online: precisamente il 57,2%, pari a 20 milioni 403 mila persone.

Ora chi vuol provare ad immaginare questo periodo di isolamento domestico, senza la possibilità di connettersi ad una linea veloce internet? Questo vuol dire senza serie tv on demand, senza videochiamata multipla (un must di questo periodo), senza tutto quello che prevede una connessione con una certa potenza.

Le competenze digitali

Altra storia sono poi le competenze digitali.

Si può partire da questo dato (Istat 2019): fra le famiglie che per scelta non hanno a casa una connessione a banda larga, la maggior parte indica come principale motivo la mancanza di capacità (56,4%) mentre il 25,5% di esse non considera Internet uno strumento interessante.

Osservando i dati del Report emerge che gli utenti (che invece hanno una connessione internet domestica) che hanno competenze digitali basse sono il 41,6%, di base il 25,8% e nulle il 3,4% (pari a 1 milione e 135 mila). Il 29,1% ha competenze digitali elevate.

Va ricordato che dal 2015 la Commissione Europea, in accordo con gli Istituti nazionali di statistica, ha definito un metodo per calcolare la qualità delle competenze digitali degli utenti. Infatti le capacità degli utenti devono corrispondere (con una graduatoria da 0 a 2) a quattro domini di competenza:

  • Information skill: identificare ed utilizzare di informazioni digitali
  • Communication skill: comunicare in ambienti digitali (attraverso strumenti digitali)
  • Problem solving skill: risolvere problemi tecnici, aggiornare le proprie e le altrui competenze.
  • Software skills for content manipulation: creare ed elaborare contenuti digitali.

Ad esempio per essere un utente con capacità digitali avanzate, bisogna ottenere un livello 2 per tutti i domini di competenza.

L’Italia sta percorrendo la strada della digital transformation, implementando le ultime tecnologie in molti campi professionali e nei servizi al cittadino.

Sarebbe altrettanto importante non lasciare indietro nessuno, fornendo le stesse possibilità a tutti, formando le persone all’utilizzo di questi nuovi strumenti e fortificando le skills di chi già fa parte di questo meraviglioso meccanismo tecnologico.

Anche chi ha competenze elevate può aiutare gli altri: forse ora è proprio il momento giusto.

rebranding marzo

Rebranding di marzo: OnePlus, BMW, Qvc e WINDTRE

  • Il restyling soft di OnePlus per comunicare in maniera più coerente con i propri consumatori
  • Dopo oltre 20 anni, il marchio BMW ha una nuova identità aziendale per la comunicazione online e offline
  • Qvc cambia volto dopo 10 anni con un logo in linea con i nuovi trend digitali
  • WINDTRE lancia il nuovo brand unico e si prepara alla sfida del 5G

 

Sono diverse le ragioni per cui un’azienda decide di attuare un processo di rebranding, prima fra tutte la necessità di comunicare meglio al pubblico i propri valori e la propria filosofia; ma anche la possibilità di emergere in un mercato sempre più saturo e creare un’esperienza costantemente positiva e di alta qualità tra il brand e i consumatori.

Scopriamo nel dettaglio le riprogettazioni del mese appena concluso.

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Il rebranding soft di OnePlus

Fondata nel 2013, OnePlus è diventata presto popolare per la progettazione, produzione e vendita al dettaglio del proprio smartphone.

La società con l’operazione rebranding intende assicurarsi che l’immagine e il messaggio siano più coerenti in tutti i punti di contatto. Le modifiche sono poche, infatti la composizione principale del logo rimane la stessa.

rebranding

“Sappiamo che la nostra community ama il nostro logo, quindi il nostro obiettivo era chiaro: mantenere il design generale risolvendo alcuni dei problemi che abbiamo identificato che renderebbero il nostro logo più accessibile a più persone” si legge sul loro forum.

In generale emerge un forte senso di fiducia che intende valorizzare ancora di più al posizionamento premium del brand.

Le modifiche hanno lo scopo principale di creare un’associazione chiara tra il logo e il marchio migliorando la leggibilità e la visibilità. Per raggiungere questo obiettivo, è stato aumentato lo spessore del logo, dando al numero 1 una curva in più per renderlo riconoscibile.

Rebranding di marzo: OnePlus, BMW, Qvc e WINDTRE

Un rebranding soft che prevede tra i piccoli ritocchi anche la rimozione del box dietro la parola “OnePlus”. Anche il peso dell’intero logo è stato rivisto per migliorare l’equilibrio generale.

Nella sua interezza, il logo è molto più bilanciato e uniforme. Il posizionamento sui vari punti di interazione appare giocoso, colorato e cool, con applicazioni interessanti e del tutto inaspettate.

Un’altra modifica sostanziale riguarda lo slogan, di cui è stato aggiornato lo stile e il carattere, avvicinando le lettere e scambiando le maiuscole con le minuscole.

Il rebranding è anche l’occasione per cambiare il carattere tipografico. Partendo da OnePlus Slate, altamente funzionale e versatile, sono stati inseriti una gamma di caratteri diversi per garantire una migliore esperienza di lettura per l’utente.

Tutti questi elementi sono stati combinati per ottenere un’immagine più coerente, unica e riconoscibile. Il risultato è un migliore utilizzo dei colori del marchio che trasmette una finitura audace ma di alta qualità, mantenendo un approccio visivo fresco e vivace.

BMW presenta il nuovo logo di comunicazione

Dopo oltre 20 anni, il marchio BMW ha una nuova identità aziendale per la comunicazione online e offline. Il nuovo logo segna il più grande cambiamento nel marchio dell’azienda da quando l’emblema iconico è stato introdotto nel 1917.

rebranding bmw

I loghi di comunicazione della casa automobilistica tedesca sono stati completamente rielaborati, con un nuovo logotipo e nuovi principi di progettazione. L’estetica è moderna e si ispira allo stile di tendenza ultra-minimalista e flat.

Il nuovo marchio BMW non delude le aspettative e lo stile visivo contemporaneo è adatto all’era digitale.

Il design è espressione dell’identità rivisitata del brand che pone il cliente al centro di tutte le attività. Ridotto e bidimensionale, trasmette apertura e chiarezza. BMW ritorna a un design più piatto ed elimina gli effetti e le ombre 3D molto datate.

“BMW sta diventando un marchio di relazione. Il nuovo logo di comunicazione è sinonimo di apertura e chiarezza” afferma Jens Thiemer, Vicepresidente senior per il cliente e il marchio BMW.

La versione trasparente del logo è un invito aperto ai clienti a unirsi al mondo BMW. Il cambiamento riflette la transizione dell’azienda dal centrarsi esclusivamente sul mondo automobilistico a quello della tecnologia e delle connessioni.

Un’identità orientata alle sfide e alle opportunità della digitalizzazione. Il logotipo ridisegnato esprime apertura e forza del carattere per garantire una presenza contemporanea, a prova di futuro, sia online che offline.

rebranding

Il cambiamento più grande è la perdita dello sfondo nero, che ha reso l’immagine di BMW così iconica ed elegante durante il corso del tempo. Questo nuovo contrasto ha destato subito lo stupore del pubblico, abituato al vecchio emblema, che è intervenuto sui social.

Il lancio globale del nuovo design è partito i primi di marzo e si completerà a maggio 2021. Il nuovo logo è un nuovo marchio multimediale e verrà utilizzato in aggiunta al logo esistente.

Sul loro sito è possibile scoprire il significato dell’emblema BMW e come il cambiamento del marchio si riflette nel nuovo logo di comunicazione.

Qvc cambia volto dopo 10 anni

Nel mese di marzo cambia aspetto anche Qvc. Presente in nove paesi, il retailer multimediale coinvolge ogni giorno milioni di acquirenti in un viaggio alla scoperta di nuovi marchi e prodotti: dagli oggetti per la casa all’abbigliamento, passando per bellezza, elettronica e gioielli.

Rebranding Qvc

La strategia di rebranding prevede il rinnovo del logo e dell’identità su tutte le piattaforme: TV, eshop e social.

Dopo aver analizzato le abitudini d’acquisto dei suoi consumatori, ormai sempre più multiscreen e mobile, Qvc ha creato un’immagine in linea con i nuovi trend digitali.

Al centro di tutto c’è il cliente sempre più informato e propenso ad adottare nuove tecnologie. Questa strategia è indirizzata a utenti sensibili al video storytelling che rappresenta lo strumento per scoprire e conoscere al meglio i prodotti dei loro desideri.

I nuovi elementi del rebranding di Qvc sono progettati per catturare l’attenzione già dallo schermo dello smartphone.

Il nuovo logo combina tre elementi geometrici: un quadrato che rappresenta i diversi schermi attraverso i quali i clienti entrano in contatto con il mondo Qvc; un cerchio che riflette l’idea di networking e di dialogo costante con i consumatori; una linea che fa eco e rimanda all’immagine di una porta aperta sulla vasta community del retailer, al contempo ricorda l’impugnatura di una lente di ingrandimento che simboleggia ricerca e innovazione.

Rebranding di marzo: OnePlus, BMW, Qvc e WINDTRE

Il risultato è una “Q” reinventata in un formato elegante e ottimizzato per dispositivi mobili e una combinazione di colori che sottolinea l’approccio social-first e shopping video di Qvc.

Il nuovo brand unico WINDTRE

WINDTRE lancia il nuovo brand unico e la nuova infrastruttura ‘Top Quality’ di ultima generazione per prepararsi alla sfida del 5G.

“Il lancio di WINDTRE in un unico nuovo marchio rappresenta una svolta decisiva per la nostra azienda, l’inizio di una nuova fase per i nostri clienti consumer e business” dichiara il Ceo Jeffrey Hedberg.

rebranding windtre

Sul sito corporate, così come su tutti gli altri principali touchpoint digitali dell’azienda, è online da marzo una pagina dedicata al brand unico che permette di esplorare la genesi del marchio, i suoi valori, la forza del suo network e la capillarità della sua rete vendita.

Il nuovo marchio consumer WINDTRE e la nuova veste grafica di WINDTRE Business puntano al concetto di tecnologia più vicina alla vita quotidiana delle persone. Forme arrotondate e liquide consolidano il posizionamento valoriale dell’azienda anche grazie al colore arancione, eredità del vecchio logo Wind.

Il risultato del rebranding è un vero e proprio mix tra i loghi precedenti delle aziende, da notare le striature che hanno contraddistinto il marchio TRE sin dalla sua nascita diventano più lineari e vengono applicate anche sulla W.

 

La nascita del nuovo brand unico WINDTRE è annunciata da una campagna media on air dai primi marzo. Il primo spot, diretto da Gabriele Muccino, proietta lo spettatore in una storia emozionante che descrive come la tecnologia possa avvicinare generazioni e riunire un gruppo di amici da tempo lontani. Tra gli storici brand ambassador ritroviamo Rosario Fiorello.

 

Il claim ‘molto più vicini’ è in linea con il posizionamento valoriale del marchio:

“Il ruolo di un’azienda di tlc come la nostra deve essere quello di facilitatore delle relazioni umane. Con il nuovo brand unico e l’infrastruttura mobile più grande d’Italia, potremo proporre nuove ed efficaci soluzioni commerciali, attraverso una rinnovata rete di negozi su tutto il territorio nazionale” afferma Gianluca Corti, Chief Commercial Officer.

tecnologia 4.0

Che cos’è la Robotica, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (dalla Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano, tra i massimi esperti di trasformazione digitale in Italia.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Bruno Siciliano, Professore di Automatica presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione), Coordinatore del PRISMA Lab (Projects of Industrial and Service Robotics, Mechatronics and Automation) e Direttore del Centro ICAROS (Interdepartmental Center for Advances in Robotic Surgery).

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Il Prof. Siciliano ritiene che sia necessario pensare alla robotica come una tecnologia di supporto all’uomo. Non c’è nulla di più falso di attribuire all’automazione la perdita di posti di lavoro, quelli che saranno sostituiti saranno lavori pericolosi, alienanti o ripetitivi”.

Un aspetto questo che suscita le preoccupazioni di chi vede in generale, nell’avvento delle tecnologie all’avanguardia, un problema e non un’opportunità per l’uomo. L’idea del Prof. è molto stimolante: Se pensiamo alla robotica, essa consentirà, da qui a qualche anno, una forma di nuovo umanesimo digitale, avremo molto più tempo per essere creativi, per pensare, per realizzare, e creare degli oggetti che possono portare al miglioramento della nostra vita”.

Una visione che vede certamente proficuo il rapporto tra uomo e tecnologia e aggiunge: “La scommessa della robotica e la sua direzione guardano verso dei sistemi sempre più intelligenti, grazie alla tecnologia e agli algoritmi di intelligenza artificiale che comunque saranno sempre il frutto dell’ingegno e della creatività di chi li ha progettati. È questa la vena creativa che rende la robotica così affascinante tra i giovani, da quelli che giocano col kit di Arduino e realizzano in casa un sistema di tipo artigianale, a quelli che sviluppano sistemi più avanzati”. Il suo pensiero infatti va ai giovani: Il mio compito da professore non è solo quello di formare ricercatori, ma anche quello di formare i giovani che saranno i futuri professionisti dell’economia del Paese”.

E a proposito di economia, il Prof. Siciliano pensa che la tecnologia, la robotica, nello specifico, possa essere d’aiuto anche alle piccole e medie imprese: La robotica è diventata di grande interesse per le piccole e medie imprese da circa 5 anni perché il robot può essere personalizzato in base alla particolare applicazione senza che l’operatore debba conoscere come programmarlo, dal momento che è possibile sviluppare un’applicazione in maniera intuitiva con un livello di intuitività pari all’utilizzo di uno smartphone. Tutto ciò sta diventando sempre più allettante per le piccole e medie imprese, perché con un investimento modesto che riguarda il costo della macchina e magari un costo di integrazione, installazione e manutenzione, l’operatore può eseguire delle lavorazioni utilizzando il cobot in maniera intuitiva alla stregua della robotica domestica”.

Alla domanda sulla possibilità di trovare un approccio mediterraneo alla robotica, il Prof. precisa: Il fatto che mi interessi di robotica e che lo faccia a Napoli, una città che allena alla complessità, ha permesso che fosse proprio la mia città e la sua gente a fornirmi ispirazioni per alcune delle idee più creative”.

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Approfondimenti

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

La robotica è nata come quel settore dell’ingegneria che si occupa della realizzazione di macchine (robot) e dello sviluppo di metodologie che consentono a queste ultime di eseguire compiti specifici atti a riprodurre il lavoro umano in ambienti vari e per scopi diversi. Nella robotica confluiscono sia discipline scientifiche come l’elettronica, l’informatica, l’intelligenza artificiale, la meccatronica, la bioingegneria, le nanotecnologie, le neuroscienze, sia umanistiche come l’etica, la sociologia, la filosofia, la giurisprudenza, l’etologia e, pertanto, ha assunto via via la connotazione di una scienza interdisciplinare.

Uno dei manuali punti di riferimento del settore è il monumentale (229 gli autori coinvolti), “Springer Handbook of Robotics”. Il volume curato da due esperti di fama internazionale: il professor Bruno Siciliano, dell’Ateneo di Napoli Federico II e Oussama Khatib, dell’Università di Stanford, ha ottenuto il maggior riconoscimento per l’editoria scientifica: 2008 PROSE Award for Excellence in Physical Sciences & Mathematics. In un passo del manuale si prefigura tutta la portata della robotica che è: “fortemente coinvolta nelle sfide crescenti dei nuovi settori emergenti. Interagendo, esplorando e lavorando con gli umani, la nuova generazione di robot è destinata a entrare sempre di più in contatto con gli individui e le loro vite quotidiane”, costantemente alla ricerca di nuovi utilizzi e applicazioni “mirando a raggiungere e oltrepassare i limiti umani”.

La robotica attualmente rappresenta uno degli ambiti di maggiore investimento in termini di ricerca e costituisce, nell’interazione con altre tecnologie come i big data e l’intelligenza artificiale, il futuro dell’innovazione tecnologica o meglio dire il presente, dal momento che a detta di molti esperti tra cui il prof. Siciliano: “oggi, siamo nel pieno dell’era della robotica”.     

Esordi e cenni storici sulla Robotica

Ciò che definisce meglio la robotica nel suo progredire sta nella definizione di “connessione intelligente tra percezione e azione”. Grazie a sensori e attuatori i robot raccolgono informazioni dall’ambiente circostante, le elaborano e compiono le azioni utili a raggiungere i compiti loro assegnati. Questo tipo di “intelligenza” conferisce ai robot ampi margini di autonomia. Tali margini diventano sempre maggiori con l’avanzare della ricerca scientifica e della tecnologia, all’insegna di una storia che parte da lontano.

La prima tappa si colloca attorno al 1200, quando il matematico e ingegnere arabo Al-Jazari, primo pare ad aver realizzato macchinari dotati di forme umane, mise a punto un sistema con sembianze di donna per il lavaggio delle mani. Dall’automa cavaliere di Leonardo da Vinci (1495) alle Karakuri dolls, bambole meccaniche tradizionali del Giappone (XVII-XIX secolo) la storia dei robot si caratterizza per una dicotomia fondamentale: quella tra il bisogno dell’uomo di realizzare delle macchine utili e il sogno di replicare se stesso.

Il termine robot fu coniato nel 1920 dal commediografo ceco Karel Čapek nell’opera I robot universali di Rossum. Non ci deve sorprendere che la parola robot, (dal ceco robota, cioè lavoro esecutivo) sia comparsa per la prima volta nella sua accezione moderna in un’opera teatrale: per via della doppia faccia di questa tecnologia, tra ricerca di soluzioni di questioni meramente pratiche e  tentativo di forgiare un alter ego dell’uomo, essa ha stretto sin dall’inizio un legame indissolubile con l’immaginario collettivo. 

Dal teatro ai film, 2001: Odissea nello spazio, Blade Runner, fino ad arrivare al film d’animazione Wall-e, e non solo, i robot hanno popolato pagine di libri, serie tv e videogiochi. Il mondo dei media si è da sempre occupato del tema declinandolo in maniera diversa, contribuendo però il più delle volte a trasmettere una rappresentazione distopica delle società tecnologiche.

Nella storia recente, dal 1960 al 1980, la robotica si è andata affermando nel settore manifatturiero per via di una sempre maggiore automatizzazione dei processi produttivi

Nei decenni successivi, la nuova generazione di robot ha iniziato a esplorare pianeti, a compiere operazioni di salvataggio, a entrare nelle case per aiutare nelle faccende domestiche, in sala operatoria, nelle strade, addosso ai nostri corpi. “Viviamo in una nuova era robotica, un’era in cui i robot convivono con noi, ci aiutano, ci connettono, a volte ci sostituiscono”. Queste le parole del prof. Siciliano che aggiunge: “per quanto riguarda il futuro (che è alle porte) il trend principale sarà quello della robotica personale.”

Bill Gates, fondatore di Microsoft, in un articolo pubblicato nel 2006 su Scientific American, sostiene che la robotica, di lì a poco, sarebbe diventata l’hot topic del momento. L’articolo non a caso s’intitola “A robot in every home” e in esso Gates spiega la sua prospettiva riguardo i futuri sviluppi del settore. “Nonostante le difficoltà – scrive il fondatore di Microsoft – quando parlo con persone coinvolte nella robotica, siano essi ricercatori universitari, imprenditori, hobbysti o studenti delle superiori, il livello di eccitazione e aspettative mi ricorda incredibilmente dei tempi in cui Paul Allen e io osservavamo la convergenza delle nuove tecnologie e sognavamo un mondo in cui ci sarebbe stato un computer su ogni scrivania e in ogni casa. E guardando alle tendenze che ora stanno iniziando a confluire, non mi riesce difficile immaginare un futuro in cui i devices robotici diventeranno una componente praticamente ubiquitaria nelle nostre vite quotidiane”.     

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Service Robotics: il futuro (prossimo) della robotica e le implicazioni etiche

Per una tecnologia che promette di essere così diffusa, integrata e pervasiva nelle nostre vite i potenziali problemi non sono di certo pochi, né di poco conto: a tal proposito, centrale è il tema della sicurezza —si pensi ai pericoli fisici per gli individui a stretto contatto con questi dispositivi— e le diverse controversie etiche riguardanti l’utilizzo degli automi.

Tali questioni sono oggetto della roboetica, ovvero l’etica applicata ai robot. Nata ufficialmente in Italia, nel 2004 con il primo Simposio Internazionale di Roboetica, affronta una serie di argomenti che nascono dalla fondamentale differenza tra i robot e la maggior parte delle altre innovazioni: i robot infatti non sono soltanto oggetti tecnologici ma sono, sempre di più, ‘soggetti dotati di capacità decisionali‘. 

Durante il Simposio Internazionale di Roboetica, organizzato in collaborazione con la Scuola di Robotica e l’Arts Lab della scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Gianmarco Verruggio, scienziato robotico sperimentale, ha ideato il concetto di roboetica per indicare il “rapporto positivo che dovrebbe intercorrere fra progettista/produttore/utente di robot e queste macchine intelligenti. Non solo norme negative, dunque, ma la complessa relazione che collega gli umani ai loro artefatti intelligenti e autonomi”. Ciò che è emerso dal simposio a cui hanno partecipato filosofi, giuristi, sociologi, antropologi e scienziati robotici provenienti da Europa, Stati Uniti e Giappone, e che ancora oggi costituisce il nucleo di base della disciplina, è il dovere degli specialisti del settore di accrescere la consapevolezza del pubblico circa le problematiche legate all’utilizzo dei robot. Scopo della roboetica è quello di attuare una divulgazione estesa “affinché la società possa prendere parte attiva nel processo di creazione di una coscienza collettiva, in grado di individuare e prevenire un uso errato della tecnologia. La speranza è che si possa giungere a un’etica condivisa da tutte le culture, tutte le nazioni e le religioni, così che la costruzione e l’impiego di robot contro gli esseri umani sia considerato un crimine contro l’umanità”.

Una delle domande della roboetica riguarda la “titolarità della responsabilità” a proposito dell’eventuale errore o danno provocato da una macchina. In particolare, le inquietudini e le perplessità si moltiplicano con l’aumentare delle applicazioni degli automi in ambiti come l’assistenza medica, personale, la biorobotica e la robotica militare. 

Oggi, è evidente, la roboetica e le sue questioni costituiscono un tema di discussione centrale in una società in cui aumentano sempre di più le applicazioni dei robot in ambienti cosiddetti antropici, in coabitazione con gli esseri umani. È proprio per la natura della robotica, sostiene l’esperto Siciliano, per le molte questioni che solleva e per la varietà delle forme che essa può e potrà assumere nel futuro prossimo, che tale disciplina chiama in causa tutta una serie di studi e considerazioni diverse. L’ingegneria, l’informatica, la fisica, la biologia e anche la sociologia, la filosofia e la cultura d’impresa

Il PRISMA Lab

Da trentacinque anni il laboratorio PRISMA del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione della Federico II si occupa di progetti di robotica industriale e di servizio, meccatronica e automazione. Vincenzo Lippiello, professore associato di Automatica, racconta la storia del laboratorio, partendo dai primi robot entrati in loro possesso, dei COMAU di prima generazione, con cui si è perseguito l’intento di far progredire i sistemi di controllo di tali robot con tecniche di evoluzione sempre più avanzate.

Con il tempo la robotica è progredita verso tecnologie sempre più sofisticate, che hanno la capacità di misurare interazioni fisiche lungo tutta la propria struttura, percependo le forze con cui interagiscono. I robot presenti in laboratorio diventano sempre più piccoli e leggeri, sicuri e intelligenti.

Dal più conosciuto RoDyMan, piattaforma semi-umanoide, capace di manipolare oggetti deformabili grazie alla sua facoltà di comprendere quanta forza applicare durante il trattamento, a robot di piccole dimensioni che riescono a percepire il contatto non solo attraverso i loro bracci meccanici, ma anche attraverso la propria base, fino alla MERO Hand di Fanny Ficuciello, ricercatrice di Bioingegneria Industriale: progetto di una mano antropomorfa, soluzione di particolare rilievo e interesse nell’ambito della ricerca sulle protesi robotiche della mano.

Il PRISMA Lab si occupa anche di robotica aerea, disponendo di un’arena di volo a San Giovanni a Teduccio. Vanta una collaborazione con Eni, azienda che ha dimostrato interesse verso lo sviluppo di nuove tecnologie robotiche.

In particolare la ricerca si concentra sullo sviluppo di droni ibridi, composti da un multimotore, una base mobile e un braccio robotico per l’ispezione di impianti petrolchimici.

google my business covid 19

COVID-19: come gestire la chiusura temporanea delle schede di Google My Business

  • Google ha contrassegnato le schede GMB “temporaneamente chiuse”
  • I proprietari possono aggiornare le schede con le info suggerite
  • Intanto è aumentato il tempo necessario per l’assistenza e il supporto

 

Causa COVID-19,  “chiuse temporaneamente” o “chiuse definitivamente”, gettando nel panico moltissimi proprietari di attività e marketer.

A quanto si legge nei thread dei forum delle Community di Google My Business si tratterebbe di un’azione intrapresa dal motore di ricerca per verificare quali esercizi commerciali non aggiornano le informazioni relative alla propria attività da tempo, a maggior ragione dopo l’emergenza sanitaria. Sono sempre di più le persone che cercano online quali sono le attività aperte:

Aperto ora Google Trends

Google vuole lasciare spazio alle attività aperte, per aiutare le aziende, ma soprattutto gli utenti che vogliono usufruire del prodotto o del servizio.

La cura della scheda è da sempre fondamentale, ma in questo periodo di emergenza è molto utile fornire informazioni accurate, perché possono risultare molto preziose per i potenziali fornitori o clienti.

Per definire la chiusura di un’attività la società ha affermato sfruttare i dati ricevuti dalle fonti autorevoli, come ad esempio i governi nazionali, le amministrazioni locali, le organizzazioni non-profit, le istituzioni educative, etc. Alla fine dell’emergenza, questo status verrà tolto in automatico tuttavia, in qualsiasi momento, la singola attività può collegarsi al pannello di controllo e riaprirla immediatamente.

Perché è un problema avere la scheda “chiusa”? Contrassegnare la scheda con questo status può causare la perdita di traffico, ranking e visibilità. Una volta riaperta la scheda riacquisterà il proprio posizionamento, seppur con qualche fluttuazione iniziale.

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Google My Business vs covid19

Quali sono le modifiche da fare sulla scheda?

Riaprire la scheda Google My Business

In caso la scheda risultasse “chiusa definitivamente” riaprite la sede della vostra attività, cliccando sul messaggio che appare nella tab “informazioni”. Successivamente segnalarla come “chiusa temporaneamente” (nel caso l’attività sia soggetta a chiusura a causa dell’ordinanza), oppure lasciare aperta segnalando le variazioni.

Scheda GMB chiusa

Modificare gli orari dell’attività

Se il vostro orario di lavoro è cambiato modificatelo, in modo che i clienti sappiano se la vostra attività è normalmente aperta o usufruisce di orari ridotti (orari speciali). Se gestite molte località, potete utilizzare il caricamento collettivo o utilizzare l’API Google My Business.

orari speciali GMB

 

Gestire le informazioni personali

Spiegate se la vostra attività è influenzata dall’emergenza sanitaria: grazie agli attributi e alla descrizione potete condividere informazioni su eventuali precauzioni extra che la vostra azienda sta prendendo, come lavorare a porte chiuse e passare al take away, oppure se state riscontrando ritardi nelle consegne.

descrizione GMB

 

Creare uno o più post di aggiornamento

Condividi gli aggiornamenti più dettagliati e tempestivi sulle scelte intraprese dall’attività, tramite dei post: in questo modo sarà più chiaro se il business è aperto e come opera in questo periodo.

Google ha anche lanciato una nuova tipologia di post dedicata al COVID-19, che al momento è solo testuale, ma non è escluso che possa subire variazioni nel corso delle prossime settimane.

Vi suggerisco di creare un messaggio formale, comprensivo di recapiti, ad esempio “In ottemperanza al DPCM dell’11 marzo 2020 e fino a cessata emergenza operiamo a porte chiuse. Contattateci al numero xxxxxxx”.

Attualmente questa tipologia di post sarà disponibile per 14 giorni, ma potrà variarne la durata in base alle effettive necessità dipendenti dal virus. Ad esempio, Fastweb ha lanciato questo messaggio:

Fastweb Coronavirus

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Le modifiche su Google My Business sono immediate?

Come affermato da Google, verrà data precedenza alla modifica delle schede delle attività relative alla salute, in secondo luogo alle modifiche essenziali, ovvero relative agli orari, allo status, alle descrizioni e agli attributi, delle restanti attività verificate.

Queste modifiche potrebbero subire ritardi, ulteriori a tre giorni. In seguito alla riduzione del team di assistenza di Google, a causa della situazione, infatti, è aumentato il tempo necessario per l’assistenza, come riportato ufficialmente da Google nella pagina di supporto.

Le recensioni e le domande, invece, non saranno disponibili per tutto questo periodo. Vista la costante variabilità della situazione raccomandiamo di verificare gli aggiornamenti sull’argomento sulla pagina del Centro Assistenza.

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8 campagne che mostrano l’importanza del copy nella pubblicità

  • Ci aspettiamo che le grandi campagne pubblicitarie vivano prima di tutto di un grande lavoro di elaborazione grafica. Non sempre però è così: spesso basta un buon copy per decretare il loro successo
  • Grazie ad un concept forte ed una frase ben studiata è possibile costruire una pubblicità di effetto e così le copy based campaign vengono ricordate per molto tempo

 

Chi ha detto che le campagne pubblicitarie di successo sono solo quelle super elaborate? Di certo, visual affascinanti, tecniche innovative e contenuti di impatto rendono il messaggio completo e avvincente. Ma in alcuni casi abbiamo visto che la semplicità di un copy sortisce effetti di notevole impatto e che vengono ricordati più a lungo.

Il minimalismo di alcune campagne, inoltre, conferma la riconoscibilità del brand: spesso non è difficile riconoscere il marchio, anche se non esposto. Il font, i colori, il mood e la modalità di comunicazione a cui i marchi ci hanno “assuefatto” fanno sì che a colpo d’occhio riusciamo a riconoscere ogni distinta e univoca identità: anche questa è la forza di un brand. E senza bisogno di mostrare il prodotto.

Negli anni, le copy based campaign hanno decretato il successo di alcune brand. A dimostrazione che anche un semplice testo ben fatto, senza troppe “distrazioni” grafiche, può ancora essere vincente.

Abbiamo scelto alcune delle campagne il cui focus è il copy: immediato, riconoscibile e di impatto.

1. McDonald’s

Il famoso fast food lo è anche in fatto di creatività delle campagne pubblicitarie. L’agenzia Leo Burnett UK in collaborazione con il tipografo David Schwen ha ideato una serie di billboard realizzati attraverso un elenco di parole.

Parole immediatamente riconoscibili e che rimandano agli ingredienti dei panini e delle altre leccornie McDonald’s. Nella la campagna Type Sandwiches, i colori del font accompagnano ogni ingrediente, in ordine di composizione dei prodotti.

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2. Nike

Di pochi giorni fa, la campagna – o meglio l’invito – di Nike e della agenzia Wieden + Kennedy Portland a restare a casa in questo drammatico momento che tutto il mondo sta vivendo. Per debellare il Covid-19, tutti gli Stati raccomandano di rimanere a casa. Nike manda un messaggio ai runner, agli amanti del calcio e agli sportivi in generale, esortando tutti a continuare ad allenarsi ma senza uscire di casa. Sui social media, il marchio ha pubblicato il messaggio: “Se hai sognato di giocare per milioni di persone in tutto il mondo, ora è la tua occasione. Gioca dentro, gioca per il mondo”. 

Poche parole, un copy semplice, ma di grandissimo effetto. Un’esortazione a sfidare come sempre i propri limiti, a sognare in grande. Questa volta però è una sfida di tutto il mondo, da casa, contro un unico avversario.

 

3. Swiss Life

Ancora un lavoro tutto di parole, questa volta di Leo Burnett per Swiss Life. La campagna “twist and turn” per il marchio di assicurazioni svizzero, gioca con le parole sui cambiamenti improvvisi della vita.

Frasi con duplice e invertibile senso grazie anche alla mancanza di punteggiatura, che suggeriscono di essere pronti ad ogni “colpo di scena” della vita. La campagna, graficamente minimal (per non dire nulla), si è aggiudicata un Oro ai Cannes Lion del 2013.

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4. Wonderbra

Nel lontano 1996, l’agenzia TBWA France ha realizzato una campagna per Wonderbra, celeberrimo brand di reggiseni push-up che da sempre sfida con rigide impalcature la forza di gravità.

Dunque, quale messaggio più semplice ma di super sostegno per il brand?

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LEGGI ANCHE: Il progetto di design di questo artista ci mostra la vera forza di un logo

5. Durex

Durex non sbaglia mai un colpo, sia nelle sue campagne visual che in quelle più semplici, in cui pochissime righe riescono a far arrivare il messaggio in modo diretto e divertente.

L’agenzia Lowe di Cape Town nel 2016, in occasione della festa del papà, fa gli auguri a modo suo. Ancora oggi è una delle campagne solo copy che ricordiamo con piacere.

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6. Penguin Books

L’agenzia Young & Rubicam nel 2014 per la casa editrice brasiliana ha ideato una campagna copy based, per stimolare la fantasia dei lettori.

L’invito alla lettura è riassunto in modo semplice, diretto, simpatico ed efficace.

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7. Moulinex

Come dimostrare di essere il miglior frullatore elettrico in cucina? Semplice, basta frullare il concept e il copy è servito.

Agenzia BBR Saatchi & Saatchi Tel Aviv, 2010.

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8. Volkswagen

La campagna 2015 del brand di auto e dell’agenzia Ogilvy & Mather Cape Town è completa e immediata.

Non c’è bisogno di visual o elaborazioni grafiche per un messaggio tanto semplice quanto importante dato da un breve copy.

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Una campagna efficace non sempre necessita di grandi elaborazioni. A volte solo poche e mirate parole possono bastare. Come abbiamo visto, un concept forte e una frase ben studiata sono sufficienti per diventare memorabili.

Bonus Pubblicità: cosa cambia con il decreto Cura Italia e quali sono le opportunità per il tuo business

  • Il Bonus Pubblicità è una interessante agevolazione fiscale per le aziende e il decreto Cura Italia introdotto in occasione dell’emergenza Covid-19 ha introdotto alcune novità;
  • Il bonus pubblicità viene ora concesso sul 30% dell’intero investimento effettuato nel 2020. Ecco tutti i dettagli.

 

Creato con la Legge di Bilancio del 2018, il Bonus Pubblicità offre interessanti agevolazioni fiscali ad organizzazioni e professionisti che decidono di investire in campagne pubblicitarie per raggiungere i propri obiettivi di comunicazione e business.

Infatti aziende, enti non commerciali o lavoratori autonomi che pianificano advertising su testate anche online, televisioni, radio possono richiedere un’agevolazione erogata sotto forma di credito d’imposta corrispondente al 75% della spesa incrementale sostenuta in pubblicità rispetto all’anno passato.

L’investimento pubblicitario deve superare almeno dell’1% l’importo investito nell’anno precedente.

Naturalmente, il credito d’imposta si ferma alle spese relative alla pura pianificazione di campagne: non sono ammesse spese accessorie o spese per advertising su piattaforme digitali che non siano testate editoriali, come ad esempio i social media.

Tutti i titolari di partita iva possono beneficiarne: dalla grande azienda multinazionale con sede in Italia all’agenzia di comunicazione, dal consulente libero professionista all’esercente commerciale, dalle aziende industriali a quelle agricole di cui è costellato il nostro paese. 

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Cosa cambia per il Bonus Pubblicità con il Cura Italia

L’emergenza Coronavirus ha imposto cambiamenti sostanziali per sostenere anche la ripresa delle aziende dopo questo periodo di stasi: infatti l’articolo 98 del decreto legge del 16 marzo 2020 apporta modifiche eccezionali al Bonus Pubblicità valide solo per il 2020.

I cambiamenti principali che abbiamo individuato sono due: 

  • Il bonus pubblicità viene concesso sul 30% dell’intero investimento effettuato nel 2020 e non più sul 75% del valore incrementale dall’anno precedente. L’investimento deve essere sempre di almeno l’1% rispetto all’anno precedente e il limite di spesa è di 27,5 milioni di euro. Quindi a fronte di un investimento in pubblicità di € 10.000 + IVA per una campagna su una testata editoriale online, un’azienda potrà diminuire le proprie imposte di € 3.000 + IVA.
  • Le nuove domande potranno essere presentate online sul sito dell’Agenzia delle Entrate tra il 1° ed il 30 settembre 2020. Restano valide quelle già presentate nel mese di marzo 2020. Periodo e scadenze cambiano in via eccezionale e solo per quest’anno.

Come richiedere il Bonus Pubblicità

Le aziende e i professionisti potranno fare domanda accedendo ai servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate.

Come prima cosa, andrà caricata il documento di “Comunicazione per l’accesso al credito d’imposta”  prevista dall’articolo 5, comma 1, del D.P.C.M. n. 90 del 2018, che illustra i dati degli investimenti pubblicitari da realizzare nell’anno di riferimento (o già realizzati) per il quale si chiede l’agevolazione. A questo link è possibile scaricare il modello per presentare la propria richiesta. 

Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria elabora l’elenco dei soggetti che hanno fatto domanda. 

Dal 1° al 31 gennaio dell’anno successivo è necessario inviare la “Dichiarazione sostitutiva relativa agli investimenti effettuati”, ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante l’effettiva realizzazione degli investimenti realizzati nell’anno presentati e che gli stessi soddisfano i requisiti di cui all’articolo 3 del D.P.C.M. n. 90 del 2018.

Dopo questo passaggio, sarà pubblicato sul sito del Dipartimento l’elenco dei soggetti ammessi: chi risulterà idoneo potrà usare il credito d’imposta dopo il quinto giorno lavorativo successivo alla pubblicazione del provvedimento di ammissione, solo in compensazione con il modello F24 che deve essere presentato sempre attraverso i canali online dell’Agenzia delle entrate. Attenzione: se l’investimento è consistente e la somma supera i € 150.000, sarà necessario attendere una comunicazione di abilitazione.