Per capire chi è il Chief Digital Officer bisogna partire da un presupposto: negli ultimi anni è emerso un interrogativo comune tra i manager di PMI, istituzioni pubbliche o grandi aziende: “in che modo possiamo affrontare il cambiamento imposto dal digitale?”.
Rispondere in modo efficace a questa domanda presuppone lo sviluppo di un percorso di cambiamento organizzativo che deve essere guidato da una figura professionale capace di:
comprendere lo scenario del cambiamento in atto;
attuare un framework di transizione verso il digitale in grado di porre al centro le persone prima ancora delle tecnologie.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il processo di convergenza tra tecnologie e piattaforme digitali ha contribuito a cambiare radicalmente le esperienze quotidiane di ciascuno di noi, sia nella vita privata che sul lavoro. Oggi il rapporto tra ecosistema digitale e mondo imprenditoriale è caratterizzato da due fattori critici sui quali occorre lavorare:
da una parte troviamo le aziende. Molte delle innovazioni introdotte dalle nuove tecnologie contribuiscono a erodere quote di mercato consolidate in decenni di attività, se non addirittura a sfaldare modelli di business diventati rapidamente obsoleti perché non sono in grado di sostenere le rapide accelerazioni imposte sul mercato dal digitale;
dall’altro lato troviamo i professionisti, e in particolare le figure di middle e top management che sono chiamate a un urgente upskilling o reskilling in ambito digitale delle proprie competenze; azione indispensabile per non restare esclusi dalla competizione sul mercato del lavoro.
Upskilling nel mondo digitale
La trasformazione digitale alla quale ci troviamo di fronte determina una forte riduzione dei tempi di adozione delle innovazioni tecnologiche, che oggi tendono a raggiungere in tempi rapidi ampie quote di mercato, per poi decrescere altrettanto rapidamente sotto la spinta di prodotti/servizi aggiornati e, per questo, più competitivi.
Vuoi saperne di più sul ruolo del Chief Digital Officer?
Se vuoi approfondire l’argomento e saperne di più su chi è e quale è il ruolo del Chief Digital Officer, puoi scaricare la Guida Interattiva Ninja dedicata ai membri PRO.
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perché la tecnologia ci impone un nuovo mindset digital first;
dove stiamo andando e come stanno cambiando i modelli organizzativi e di business;
le aree di intervento del Chief Digital Officer in azienda;
quali sono gli step fondamentali per guidare il processo di Digital Transformation.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/04/chief-digital-officer-guida.jpg480693Redazionehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngRedazione2020-04-15 16:16:172020-04-16 17:08:15Qual è il ruolo del Chief Digital Officer in azienda? Scopri la Guida Interattiva Ninja
Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0 è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet of Things) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.
I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Leopoldo Angrisani, Professore Ordinario di Misure Elettriche ed Elettroniche presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie Informatiche della Federico II e Direttore del Centro CESMA (Centro Servizi Metrologici e Tecnologici Avanzati).
Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.
Il Professor Angrisani ritiene che il grande vantaggio nel poter utilizzare tecnologie IoT sia “avere una disponibilità di informazioni del mondo circostante molto più intensa, e soprattutto in tempi ristrettissimi, quasi in tempo reale. Perché le informazioni possono essere prelevate e possono essere trasferite in un arco temporale decisamente contenuto e quindi con possibilità di utilizzarle al meglio per compiere azioni e prendere decisioni […] l’importante è usare l’IoT dove realmente può servire, sulla base delle caratteristiche che in questo momento offre“.
Sulla possibilità di adattare tale tecnologie al contesto imprenditoriale del nostro territorio dice: “Per esempio, il settore dell’agrifood è certamente un settore che può beneficiare tantissimo di questa tecnologia, e di fatto lo sta già facendo. Infatti, avere una tracciabilità quasi in tempo reale dell’intero processo all’interno di un contesto agricolo, dal campo alla tavola, può certamente essere di aiuto al settore per promuovere il proprio prodotto su una platea sempre più vasta, che riesca a carpire questo significato e sia sensibile a questo tipo di messaggio […] Ciò che dobbiamo fare è dare il tempo alla tecnologia di trovare le risposte giuste agli scenari attuali, ma anche cercare di prevedere quelli futuri, in modo da farsi trovare preparati per quello che sarà”.
Sulla possibilità di avere un approccio “mediterraneo” all’innovazione, il Prof. aggiunge: “La tecnologia dell’IoT ha come caratteristica quella di essere aperta. Al suo sviluppo contribuiscono vari concorrenti, con azioni condivise un’ open architecture. Inoltre vi sono diversi livelli (e quindi diversi player) rappresentati, dai sensori, all’elaborazione, alle batterie, fino alla connettività. Questo rende la tecnologia molto con-flessibile e riconfigurabile”.
Approfondimenti sull’IoT
A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
L’uomo utilizza i propri sensi per conoscere il mondo esterno e reperire da esso informazioni. Grazie al tatto, all’udito, al gusto, alla vista e all’olfatto ottiene numerose e variegate informazioni (dati) che, grazie al sistema nervoso, sono trasferite al cervello e da quest’ultimo interpretate.
Internet of Things (IoT) è un neologismo, con il quale viene identificato un insieme di smart things capaci di comunicare tra loro, scambiandosi ed elaborando le informazioni raccolte, e operanti all’unisono per il raggiungimento di uno o più obiettivi prefissati. Il termine «connettività di rete» è spesso usato per indicare tale capacità di comunicazione.
Le informazioni sono raccolte grazie all’utilizzo degli “smart sensors“ (sensori intelligenti), capaci di rilevare grandezze fisiche, di trasformarle in informazione e di trasmetterle nella forma di segnali elettrici all’unità di elaborazione centrale dello smart thing, preposta all’elaborazione delle stesse e alla formulazione di possibili decisioni.
L’evoluzione delle tecnologie peculiari dell’IoT (micro/nanoelettronica, sensori, unità e software di elaborazione, apprendimento automatico, connettività di rete, batterie) è attualmente tumultuosa. L’IoT è infatti inserito nell’elenco delle tecnologie abilitanti del paradigma «Industria 4.0», di derivazione tedesca, o «ICT&Industry», di derivazione statunitense.
L’IoT mescola quattro elementi che sommati consentono di ottenere grandi benefici per le attività imprenditoriali: sensori, dati, algoritmi, applicazioni. I sensori sono ormai diffusissimi su macchinari di ogni dimensione: i costi di produzione e il loro fabbisogno energetico sono bassissimi. Dotare un macchinario di sensori consente non solo di raccogliere dati ma anche di trattarli e classificarli, e addirittura di far svolgere operazioni specifiche al macchinario da remoto. È possibile intervenire sui processi, per ottimizzarli e potenziarli, consentendo agli operatori, agli analisti e alle macchine stesse di prendere decisioni in maniera più consapevole.
L’espressione Internet of Things (IoT) o Internet delle Cose, indica propriamente l’estensione dellaconnettività a Internet a dispositivi fisici e oggetti del mondo quotidiano. Tale locuzione viene introdotta per la prima volta in un articolo del 1999 da Kevin Ashton, ingegnere britannico co-fondatore dell’organizzazione di ricerca globale Auto ID Center, afferente al Massachussetts Institute of Technology (MIT).
Ashton utilizzò l’espressione IoT per riferirsi ad un sistema complesso che grazie a specifiche tecnologie permettesse di oltrepassare il gap tra mondo fisico e mondo virtuale, e fosse in grado di potenziare i computer con modalità a loro appropriate di raccolta e scambio di dati, in modo da renderli più indipendenti dal ‘router umano’.
L’IoT dunque consiste in un sistema composto da tutti i devices che sono connessi a Internet e che, tramite tale connessione, sono in grado di comunicare tra loro, siano essi dispositivi digital first (ovvero per loro natura predisposti alla raccolta e allo scambio di dati, come smartphone e tablet), o al contrario physical first (non predisposti alla raccolta e allo scambio di dati se non trasformati opportunamente con specifiche tecnologie, come ad esempio un tradizionale libro su cui vengono implementati chip o sensori che abilitano la comunicazione).
Quello dell’Internet of Things, dunque, è un sistema estremamente complesso e composto da una lunga serie di tecnologie hardware e software: seppure non si possa considerare novità assoluta a tutti gli effetti- come si coglie dal fatto che i primi contributi accademici riguardo tale argomento risalgono a più di un ventennio fa- esso diventa realizzabile solo con la diffusione pervasiva delle rete Internet, iniziata negli anni ’90 grazie all’invenzione del World Wide Web di Tim Berners Lee e allo sviluppo di protocolli di rete, software e componenti hardware. Tutti elementi, di fatto, che concorrono a rendere possibile la comunicazione in tempo reale e lo scambio dei dati su scala di massa, elementi alla base al funzionamento dell’IoT.
Componente chiave dell’IoT è la tecnologiamobile. La diffusione di dispositivi mobili, in particolare degli smartphone, ha infatti inciso notevolmente non solo sulla quantità degli individui che fruiscono della rete Internet ma anche sulle modalità di tale fruizione: non a caso si può infatti parlare di quella che il ricercatore MIT David D. Clark definì nel 1999 ‘era post-pc’, indicando con questa espressione l’ampliamento della rete di connettività e interconnettività e il cambiamento del modo in cui gli individui si servono di Internet.
L’idea di realizzare la comunicazione tramite i dispositivi portatili risale al secolo scorso: dai walkie-talkie utilizzati in ambito militare, al primo telefono cellulare lanciato da Motorola nel 1973, sino al primo embrionale tentativo di smartphone digitale (il Simon della IBM del 1993), la storia della comunicazione umana è piena di esempi in quest’ambito. Tutte queste sperimentazioni hanno permesso di migliorare le componenti hardware e software, ottimizzando sempre di più questi devices, rendendoli più leggeri, aumentandone il raggio d’azione e dotandoli di sistemi operativi e interfacce sempre più user-friendly. Il vero e proprio decollo della portabilità può essere identificato con il lancio del primo iPhone Applenel 2007, data a partire dalla quale questi dispositivi iniziano a diffondersi a livello globale rivoluzionando in maniera significativa sia la vita quotidiana che l’ambito dell’impresa, di pari passo con la diffusione di altre tecnologie hardware e software, come le retiWi-Fi e il CloudComputing (ambienti di calcolo distribuiti sul network che erogano servizi on demand e in tempo reale come i sistemi di gestione dei dati).
Oggi gli smartphone sono oggetti a supporto della persona e rappresentano il primo step della rivoluzione che conduce all’IoT, la quale può essere considerata come una seconda ondata di rivoluzione digitale (considerando come prima ondata, invece, la diffusione di Internet e dei personal computer avvenuta attorno agli anni ’90).
Secondo Leopoldo Angrisani, docente di Misure Elettriche ed Elettroniche presso il DIETI(Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione)dell’Università di Napoli Federico II, gli smartphone sono passati ad essere strumento atto a realizzare la comunicazione tra le persone a strumento sfruttato per la comunicazione tra gli oggetti. La sola idea di far parlare le cose- sostiene Angrisani- apre scenari macroeconomici prima impensabili. Dotare gli oggetti della capacità di comunicare significa creare un nuovo ecosistema: Internet prima era uno spazio in cui potevano accedere solo le persone, mentre ora si configura come qualcosa di molto più evoluto, una piattaforma dai confini indistinti in cui si realizza la comunicazione tra individui e oggetti, a prescindere dalla natura degli attori in questioni.
L’IoT, infatti, abilita la comunicazione tra cosa e cosa, ma anche tra le cose e gli individui connessi (Internet of Humans, IoH). L’incontro tra Internet of Things e Internet of Humans risulta nel cosiddetto Internet of Everything (IoE), espressione utilizzata per indicare il sempre più profondo e costante embedding tra realtà fisica e realtà virtuale.
Il sistema dell’Internet of Things, dunque, più che come una tecnologia, si definisce come un set di tecnologie sia hardware che software strettamente in relazione fra loro che realizzano un collegamento tra mondo fisico e mondo virtuale. Tali device- che compongono l’IoT- sono detti smartthings, ossia oggetti la cui smartness è definita in termini di capacità di connettività e di comunicazione. Le stesse smart things, inoltre, sono a loro volta costituite da diverse componenti tecnologiche specifiche, le quali concorrono a rendere ancora più complessa la struttura inerente all’Internet of Things.
La comunicazione abilitata dall’IoT è anche osservabile in quanto trasmissione di dati: poiché lo scambio dei dati è alla base di questo processo, sorge il problema del contenuto, vale a dire di quali siano le informazioni che tali dispositivi devono poter comunicare e, prima ancora, essere in grado di acquisire. Per questo motivo un ambito fondamentale per il funzionamento dell’Internet delle Cose è quello della sensoristica. Un sensore è un «dispositivo che fornisce in uscita un segnale che dipende dal valore di una determinata grandezza presente all’ingresso» allo scopo di «determinare il valore della variabile in ingresso a fini di regolazione o di controllo del sistema in cui il sensore opera».
Secondo Leopoldo Angrisani eseguire una misurazione significa associare un valore ad una grandezza fisica. Ciò equivale dunque a mettere in comunicazione due mondi diversi, quello delle grandezze fisiche e quello dei numeri reali, il mondo dei fisici e quello dei matematici. Da un lato vi è la realtà, e dall’altro invece i modelli e le rappresentazioni della realtà che noi creiamo, formulandoli in modo tale che essi siano estremamente favorevoli ad un nostro ragionamento logico e ai nostri processi cognitivi. Attraverso i sensori, le smart things acquisiscono le informazioni dal mondo reale: i sensori sono dunque quei dispositivi che svolgono per l’oggetto intelligente lo stesso ruolo che i sensi svolgono per l’essere umano. Oggi nell’ambito della sensoristica è particolarmente importante la scienza della microelettromeccanica, grazie alla quale sono stati implementati i cosiddetti MEMS: sistemi microelettromeccanici dalle dimensioni ai costi ridotti e che dunque si dimostrano particolarmente versatili e incorporabili in una lunga serie di devices diversi.
Ovviamente al giorno d’oggi la maggior parte dei sensori utilizzati sono sensori digitali i quali permettono una maggiore accuratezza e un più alto grado di approfondimento delle loro versioni analogiche. Inoltre, nelle loro versioni più aggiornate, tali sensori possiedono anche la cosiddetta capacità di contesto, la quale si divide in elaborazione contestuale passiva (misurazione continua di un fenomeno e feedback all’utente); elaborazione contestuale attiva (misurazione continua di un fenomeno e reazione automatica in base ai parametri registrati); personalizzazione (comportamento sulla base delle preferenze dell’utente specifico).
Oltre ai sensori, le smart things si basano su altre soluzioni tecnologiche. Ad esempio, tra le soluzioni software, vi sono i protocolli di comunicazione che assolvono il compito della comunicazione delle informazioni. Si tratta di set di convenzioni e standard che istruiscono circa le modalità in cui avviene la comunicazione. Essi sono estremamente importanti per lo sviluppo e il funzionamento dell’IoT e lo furono, a suo tempo, anche per il funzionamento di Internet stessa. Nel caso dell’IoT il ruolo è fondamentale vista la varietà nelle componenti hardware, nelle architetture software e nei formati dei file. Diversi enti a livello internazionale, come la Allseen Alliance e la Institute of Electrical and Electronics Engineers (IEEE), si sono impegnati a elaborare questi linguaggi, che sono necessariamente molteplici poiché variano sulle specifiche esigenze della determinata comunicazione da soddisfare.
È attraverso queste componenti- come i sensori, i protocolli di connettività, i sistemi di storage delle informazioni e molte altre- che l’oggetto diventa intelligente.
Applicazioni, questioni e futuri sviluppi dell’Internet of Things
Nel mondo dell’industria, l’IoT (nel suo sottosistema definito come Industrial Internet) viene annoverata tra le tecnologie abilitanti 4.0 perché è la tecnologia che abilita le macchine presenti nella filiera a comunicare ottimizzando operazioni e processi, realizzando risultati finali migliori e garantendo una condizione migliore per chi ad esempio lavora nella fabbrica. A differenza delle altre tecnologie abilitanti è sui generis perché è un set, un contenitore di varie tecnologie radunate sotto il cappello IoT con un atteggiamento omnicomprensivo.
Il discorso tecnologico alla base dell’Internet of Things- sostiene l’esperto Angrisani- non è nato tanto dalla ricerca accademica quanto piuttosto dal business, nel momento in cui si è resa evidente la saturazione del settore della comunicazione tra individui. Tale settore dunque ha cercato soluzioni in una diversa direzione, basandosi sulla realizzazione della comunicazione tra gli oggetti. A partire da questo presupposto si è cominciato a ragionare su quali fossero gli oggetti da dotare della capacità comunicativa e quali fossero i nuclei di attività, gli scenari e i contesti in cui la comunicazione fra gli oggetti- e fra oggetti e individui- potesse apportare beneficio.
Sono così emersi i più svariati approfondimenti: dalla domotica– l’applicazione delle tecnologie informatiche e digitali ai sistemi di abitazione- all’ e-health– l’applicazione delle tecnologie informatiche e digitali all’ambito della salute- oggi sono tantissimi i settori che traggono beneficio dalla smartness degli oggetti.
Poiché l’IoT rappresenta- più che un trend passeggero- una vera e propria rivoluzione, le sue implicazioni però non sono da dare per scontato. Lo scenario che si profila è sempre di più quello di una rete pervasiva, integrata e meno esplicita e, per la portata del cambiamento in atto, esistono ovviamente dei rischi. Basti pensare ad esempio alle questioni relative alla privacy, con i sempre più frequenti leaks, furti di identità e violazione dei dati, per cui è necessario da un lato attrezzarsi secondo modalità tecniche, dotando ogni dispositivo di sistemi di sicurezza e monitoraggio; dall’altro, si rendono necessari anche provvedimenti legislativi volti a regolamentare la proprietà delle informazioni e a definire le misure giuridiche circa i reati in merito.
Oppure, altro problema fondamentale è quello del digital divide: si tratta del divario sociale, economico e politico tra individui che hanno la possibilità di sfruttare tali tecnologie e individui che invece per questioni di limitazioni fisiche all’accesso o per mancanza di padronanza non ne possono trarre beneficio. A questo titolo, diventa un bisogno primario non solo sviluppare infrastrutture adeguate, pervasive ed efficienti per abilitare la connessione, ma anche- e soprattutto- permettere alla popolazione mondiale, a prescindere da parametri sociali e demografici, di acquisire le competenze necessarie per poter utilizzare queste tecnologie.
Oggi- sostiene infatti Angrisani- è compito sia dei singoli che delle istituzioni combattere l’ignoranza su tutti i livelli, divulgando, approfondendo, acquisendo competenze specifiche e investendo sulla cultura. E la tecnologia 4.0 fa parte di tale cultura.
Il CeSMA
Il CeSMA – Centro Servizi Metrologici e Tecnologici Avanzati – è la rete federiciana per misurazioni e tecnologie avanzate, ad accesso remoto, che vanta 30 laboratori dotati di strumentazione con caratteristiche esclusive e distintive. Vuole fornire supporto ai maggiori attori locali, nazionali e internazionali nelle attività di misurazione avanzata, e più in generale nella sperimentazione di nuove tecnologie, traendo anche vantaggio dalla presenza di ricercatori e tecnici esperti della Federico II.
In quanto Centro di ateneo, CeSMA ha un’identità multidisciplinare che garantisce osmosi costante di conoscenze attingendo alla ricchezza delle competenze dei Dipartimenti e traguardando i confini della integrazione più completa e complementare. La numerosità delle afferenze garantisce al CeSMA la disponibilità di ricercatori scientificamente qualificati in ogni settore, che forniscono risposte efficaci a complesse esigenze misuristiche e tecnologiche espresse dai settori dell’Industria e dei Servizi.
La sinergia dei modernissimi laboratori di Fisica, Chimica, Ingegneria, Biologia promuove il CeSMA come naturale e innovativa interfaccia tra accademia e imprese, nell’ambito del piano governativo Industria 4.0, per il presidio di settori strategici della vita quotidiana, quali l’ambiente e i territori, la vita e la salute, i prodotti e i processi industriali.
Il CeSMA opera lungo quattro direttrici tematiche:
Misure per la Qualità della Vita e la Salute;
Misure e Monitoraggi su Reti e Impianti;
Monitoraggio dell’Ambiente e del Territorio;
Qualificazione di Processi e Prodotti Industriali.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/10/Depositphotos_196649986_m-2015.jpg6671000Alex Giordanohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngAlex Giordano2020-04-13 17:27:022020-04-16 09:32:49Che cos'è l'Internet of Things, spiegato con una mini-serie TV
“Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.
I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Giuseppe Di Gironimo, Professore di Modellazione Geometrica e Prototipazione Virtuale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale della Federico II di Napoli, e responsabile del laboratorio IDEAinVR (Interactive Design and Ergonomics Applications in Virtual reality).
Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.
Il Prof. Giuseppe Di Gironimo nel fare il punto sulla pervasività delle tecnologie di realtà aumentata e virtuale sembra riscontrare ormai pochi limiti: “Quelli che erano limiti 10 anni fa, oggi li abbiamo già abbondantemente superati, grazie soprattutto allo sviluppo di dispositivi hardware in particolare schede grafiche, processori sempre più potenti che consentono di effettuare calcoli sempre più rapidamente. Per cui, non ci sono limiti sul ‘cosa’ simulare”, tuttavia aggiunge: “c’è sempre bisogno di un uomo che sappia interpretare i dati di quella simulazione in maniera corretta, facendo appello alle sue competenze, con il suo ingegno, con la sua dottrina e con il suo disegno, come ci insegna Martini Francesco Di Giorgio”.
Interessante il suo punto di vista anche sull’accessibilità: “Qualche anno fa, questa tecnologia era proibitiva in termini di costo, cioè era inaccessibile per le piccole e medie imprese […] Una grande mano l’abbiamo data noi con le università perché abbiamo potuto usufruire di finanziamenti pubblici per riuscire a studiare e fare ricerca su queste tecnologie […] Il fatto che oggi queste tecnologie costino sempre meno ha avvicinato le piccole imprese anche all’acquisizione della tecnologia e non più solo all’acquisizione delle competenze e quindi abbiamo la possibilità, anche in piccole aziende, di poter sfruttare queste tecnologie“.
Poi aggiunge “Sicuramente oggi, l’Italia che ha tante risorse turistiche e archeologiche e agro alimentare deve sfruttare tanto queste risorse e applicare queste tecnologie per realizzare progetti che consentano una loro migliore fruizione, e sarebbe da criminali non farlo”.
Approfondimenti su Realtà Virtuale e Realtà Aumentata
A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
L’Augmented Reality (Realtà Aumentata, o AR) consiste nell’implementazione di informazioni generate tramite computer le quali vengono sovrapposte e aggiunte agli oggetti del mondo concreto, arricchendo in maniera multisensoriale gli stimoli percettivi sperimentati dall’individuo. Con l’impiego di questa tecnologia si migliora l’interazione con l’ambiente e con i sistemi di produzione, permettendo di mostrare, attraverso visori o tablet, delle informazioni relative ad un oggetto reale semplicemente inquadrandolo. Nelle applicazioni industriali le informazioni possono riguardare, ad esempio, le condizioni di funzionamento o le istruzioni operative di montaggio, uso e manutenzione di un prodotto o di un sistema di produzione.
La Virtual Reality (Realtà Virtuale, o VR) consiste nella simulazione di un’esperienza immersiva in un ambiente digitalmente prodotto. Essa si differenzia dalla AR in quanto permette di “immergersi” in un mondo completamente digitale e slegato da quello esterno e fisico. L’accesso a questo mondo digitale è reso possibile da visori e da accessori (come joypad, sistemi di tracking, guanti) sviluppati appositamente per interagire e “vivere” all’interno della Realtà Virtuale.
Il punto di partenza per entrambe le tecnologie AR e VR è un modello tridimensionale del prodotto o processo, costruito in ambienti di modellazione CAD 3D, e sistemi di visualizzazione basati su schermi o visori, potenziati dall’utilizzo di dispositivi indossabili che permettono di navigare realisticamente nel modello ed interagire con esso attraverso opportuni feedback sensoriali.
Le tecnologie della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata costituiscono oggi un importantissimo elemento nel settore industriale. Non a caso, esse sono entrate a far parte della lista delle tecnologie abilitanti dell’Industry 4.0, cioè quegli strumenti hardware e software e quelle tecniche che – in stretta correlazione l’una con l’altra, creando un vero e proprio ecosistema tecnologico – sono alla base della Quarta Rivoluzione Industriale. In particolare, AR e VR svolgono un ruolo primario per il miglioramento delle condizioni di ergonomia e sicurezza in una fabbrica e per il raggiungimento di sempre più elevati livelli di qualità del prodotto finalizzati al soddisfacimento di bisogni reali della società in cui viviamo.
Giuseppe di Gironimo, Professore di Disegno e Metodi dell’Ingegneria Industriale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università Federico II, responsabile del centro MARTE (Misure Avanzate in Realtà virTualE) presso il CESMA-Unina e del Laboratorio IDEAinVR (Interactive Design and Ergonomics Applications in Virtual reality) nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico del Consorzio CREATE (Consorzio di Ricerca per l’ Energia, l’ Automazione e le Tecnologie dell’ Elettromagnetismo), si occupa di Realtà Virtuale sin dal 1999, anno in cui, sull’esempio di paesi come la Germania, anche l’Italia inizia a rincorrere questa nuova tecnologia.
Di Gironimo sostiene che è possibile osservare la progettazione industriale sulla base dei suoi tre elementi costitutivi fondamentali, distinti ma strettamente correlati tra di loro: l’ingegno, la dottrina e il disegno. Coloro che operano nell’ambito dell’ingegneria, infatti, devono essere prima di tutto dotati d’ingegno. Questo deve però necessariamente essere incanalato, attraverso specifici studi, con un’opportuna dottrina. A loro volta, ingegno e dottrina devono essere sintetizzati attraverso il disegno: tale termine si riferisce ad una rappresentazione grafica realizzata a partire da una specifica competenza, in grado di comunicare delle informazioni accurate e approfondite, che uniscono il fattore artistico e quello tecnico al fine di ottimizzare le possibilità di comprensione.
Prima dei modelli virtuali– che costituiscono l’output più attuale ed avanzato della disciplina del disegno- vi erano imodelli 3D i quali, rispetto alla ancora precedente tecnica del disegno 2D in scala, permettono una comprensione molto più approfondita degli oggetti e del loro comportamento e consentono di conseguenza la realizzazione di prodotti in tempi più rapidi e con più alti livelli di qualità, irraggiungibili- se non addirittura inconcepibili- prima dell’introduzione di tali tecnologie.
La Realtà Virtuale, quindi, ha lo scopo di ricreare tramite un computer mondi e oggetti che sono la trasposizionedigitaledi ambienti reali o di fantasia. La Realtà Aumentata, invece, consiste nella sovrapposizione di immagini digitali a immagini reali. Il funzionamento di queste tecnologie, sempre secondo il parere di Di Gironimo- che per il suo lavoro e la sua esperienza in questo campo rappresenta un interlocutore privilegiato- si basano su quattro ingredienti principali: il fotorealismo; la grafica in tempo reale; l’immersione; l’interattività.
Ilfotorealismo consiste nella riproduzione più esatta possibile delle immagini. Questa componente è particolarmente importante quando AR e VR vengono applicate nel settore industriale, poiché permette una sperimentazione più accurata ed efficace dei modelli virtuali. Uno dei parametri principali per l’elaborazione delle immagini è infatti la qualità visiva dei risultati, per cui si utilizzano specifici programmi di rendering e ray tracing.
Il fotorealismo ha costituito in ambito sperimentale un ostacolo significativo, per via dei tempi e dei costi di realizzazione di queste immagini. Al giorno d’oggi, ad ogni modo, è molto più semplice procurarsi tali tecnologie e realizzare questi prodotti, grazie all’innovazione nel settore dei calcolatori e dei processori e al consequenziale abbassamento dei costi.
La grafica in tempo reale è essenzialmente la fluidità dell’ambiente prodotto digitalmente e dei suoi cambiamenti di stato sulla base, ad esempio, dei cambiamenti di stato del nostro corpo nel mondo fisico. La fluidità dello scenario virtuale si consegue quando il sistema nervoso dell’utente viene ingannato in maniera esatta (una sorta di versione più innovativa di ciò che accade nel caso del montaggio cinematografico). Il sistema è quello di riprodurre le specifiche immagini ad una velocità superiore a quella che è la permanenza dell’immagine sulla retina. Per conseguire questo risultato, è evidente, occorrono capacità di calcolo molto elevate e schede grafiche estremamente performanti.
La qualità dell’immersione– caratteristica basilare delle tecnologie AR e VR- è una qualità insita nello specifico sistema di output o visualizzazione, oggi esistente in varie forme: ad esempio i più user-friendly smartphone e televisori, ma anche i più tecnici powerwall (larghi schermi ad altissima risoluzione composti da una matrice di altri display) e CAVE (Cave Automatic Virtual Environment, un ambiente immersivo di realtà virtuale in cui le immagini vengono proiettate su tutte le pareti di una stanza cubica).
L’immersione è direttamente dipendente dalla stereoscopia: tale termine si riferisce alla modalità di visione binoculare (a due occhi) che ci permette la percezione visiva delle tre dimensioni. La visualizzazione stereoscopica, dunque, prevede la visualizzazione in contemporanea di due immagini (una per occhio). In una delle varie tecniche di realizzazione della stereoscopia- quella che viene detta visione stereoscopica attiva- vengono utilizzati degli occhiali ad otturatori i quali, al posto delle tradizionali lenti, hanno impiantati dei filtri a cristalli liquidi. Le immagini, quindi, vengono mostrate in sequenza sullo schermo, alternando i frame destinati all’occhio destro e quelli destinati all’occhio sinistro in maniera continua e ripetuta. Allo stesso tempo, viene inviato un segnale agli occhiali in modo che questi possano oscurare l’occhio cui di volta in volta non è rivolta l’immagine. Ovviamente per realizzare questa tecnologia- il cui risultato è quello di un’elevata definizione grafica- c’è bisogno di macchine e sistemi di elaborazione molto veloci.
Infine, vi è l’ingrediente dell’interattività, il quale caratterizza l’esperienza risultante dalle tecnologie di Realtà Virtuale e Aumentata trasformando queste in dei media del tutto rivoluzionari. Gli scenari di AR e VR, infatti, non si limitano a sfruttare la visione stereoscopica per far sì che l’individuo si ritrovi in una condizione di immersione in questi ambienti: essi, infatti, sono sviluppati anche per prestarsi ad un’interazione con l’utente. Tutto ciò al fine di restituire un’esperienza cognitiva importante e portare l’utente oltre il semplice ruolo di spettatore. L’interattività, da un punto di vista tecnico, viene realizzata tramite sistemi di tracciamento e manipolazione, che consentono ad esempio di catturare in tempo reale il movimento spaziale di un corpo fisico e di elaborarlo al computer.
Realtà aumentata, realtà virtuale e industry 4.0
È comune associare le tecnologie in grado di realizzare e riprodurre scenari di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata all’universo dell’entertainment. Dal mondo del cinema a quello del gaming, infatti, tali tecnologie sono ormai da decenni sfruttate in maniera notevole e significativa al fine di rendere l’esperienza del fruitore più performante possibile. Oggi però queste tecnologie possono essere associate anche al cuore del settore industriale, in particolare se si parla dell’Industry 4.0, la quale è da inquadrare come una realtà non più tanto appartenente al futuro, ma piuttosto al presente.
Industry 4.0 significa non solo aumentare l’efficienza dei processi, ottimizzando il funzionamento delle componenti industriali attraverso la digitalizzazione. Tale espressione infatti indica una vera e propria ridefinizione dei confini del settore dell’industria. Questa ridefinizione è, sostanzialmente, basata sui cyber-physical systems (sistemi informatici in grado di interagire in maniera autonoma e funzionale con il sistema fisico che lo accoglie o in relazione a cui opera), il cui meccanismo risulta nell’embeddingdi mondo reale e virtuale (si parla infatti di embedded reality, per indicare la condizione di pervasività di questo processo).
Tecnologie come l’AR e la VR, dunque, che rappresentano anche un crocevia tecnologico tra ingegneria ed entertainment, sono fondamentali in questa ridefinizione di confini e di paradigma.
Non a caso oggi si parla di Human o User Centred Design, indicando con questa espressione il design elaborato sulla base delle preferenze e delle attese dei consumatori. Si tratta di modelli derivati dalla disciplina, di matrice nipponica, definita come Kansei Engineering: tale termine si traduce con l’espressione ‘ingegneria delle emozioni’ e vuole indicare lo sviluppo di prodotti e servizi a partire dai bisogni e dalle esigenze psicologiche del consumatore o dell’utente, le quali vengono traslate all’interno del product design. L’implementazione dei sistemi di Realtà Virtuale e Aumentata, dunque, costituisce un significativo passo in avanti verso questa direzione.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/03/realtà-aumentata-3.jpg16002331Alex Giordanohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngAlex Giordano2020-04-10 19:10:222020-04-16 09:41:35Che cosa sono la Realtà Virtuale e la Realtà Aumentata, raccontato con una mini-serie TV
La link building per molti è considerata un argomento ostico, quasi esoterico. Passatemi iltermine soltanto per far capire il livello di complessità che questa disciplina porta con sé.
Le regole sono certamente cambiate nel corso del tempo e coloro che non sono stati in grado di apprendere e adattarsi alle regole in continua evoluzione e ai requisiti crescenti in termini di competenze, strumenti, dettagli, hanno dovuto rinunciare ai loro “trucchi per la creazione di link del tutto artificiali”.
Link Building e Tecniche white hat
Iniziamo a dire che la link building è morta per coloro che non sono riusciti ad adattarsi alle novità e ai cambiamenti che Google stesso ha imposto in tutti questi anni.
Si è parlato molto dei link come fattore di posizionamento. Molti SEO si sono concentrati soltanto sulla parte on-site e sulla parte contenutistica, tralasciando o sottovalutando altri aspetti.
Come Google Penguin, nel 2012 cambia il modo di lavorare
Prima di aprile 2012, si poteva facilmente migliorare la propria posizione nelle SERP comprando link di ogni tipologia e fattura poiché il famoso concetto attuale della qualità non era per nulla presente. Grazie a Dio, tutto ciò non è più possibile adesso fare link building diventa un’attività molto difficile e soprattutto dispendiosa in termini di effort da dedicare.
I link di pessima qualità, ormai, possono rappresentare un rischio e dovresti sapere come evitare di incappare in pesanti penalizzazioni se non addirittura essere bannati.
Un link è una semplice connessione tra A e B
Un collegamento ipertestuale è una connessione dalla pagina di riferimento alla pagina di destinazione. Purtroppo però per troppo tempo, i SEO sono stati ossessionati dal concetto di Pagerank o qualunque metrica del sito da quale prendere un link.
Stato dell’arte della Link building
Per i vari motivi che abbiamo citato la link building ormai è diventata un’attività per professionisti, basti pensare che ci sono persone che di lavoro nascono come link builder, magari anche senza nozioni di SEO tecnica. Non a caso sono nate anche piattaforme che permettono di fare outreach in maniera semplice garantendo elevati standard di qualità.
Infatti rispetto al passato dove tutto era lecito, perché spendere molti soldi per link che probabilmente prima o poi ti faranno molto, ma molto male?
Cosa intendi veramente quando senti parlare di link building?
Quando ci riferiamo a un backlink intendiamo un riferimento da un’altra pagina web alla tua pagina web. Questo è molto diverso dai link “in uscita” o in uscita dalla tua pagina. Non confondere i due. Un backlink viene anche chiamato link in entrata (IBL), a volte e questi link sono molto importanti nel determinare la popolarità (o l’importanza) di un sito web per i motori di ricerca come Google.
Perché i link sono così importanti?
I link sono il primo fattore di ranking di Google
I collegamenti sono il Web
I link indicano ottimi contenuti (che meritano un buon posizionamento)
I link passano juice
I collegamenti passanotrust
Google ha confermato che sarebbe innaturale trovare un sito web senza backlink
Attraverso i link Google scopre il sito
Nel marzo 2016, in un Q&A, Andrey Lipattsev, Search Quality Senior Strategist di Google, questi ha affermato che i primi due fattori di ranking sono link e contenuti:
I can tell you what they are. It is content. And it’s links pointing to your site.
I backlink non sono tutti uguali
Prima di parlare di qualità dei link, bisognerebbe subito abbattere un vecchio preconcetto: più link sono, meglio è!
Invece non è affatto così meglio ricevere pochi link, ma tutti di qualità. Vedremo dopo cosa intendiamo per qualità, perché ricevere una marea di link da siti di dubbia qualità avranno come risultato solo quello di farci penalizzare da Google.
I link non sono per nulla tutti uguali. Il punto è capire:
su quali pagine far puntare i link?
Quanti link al mese?
Che tipo di link (dofollow, No Follow, Reindirizzamenti, Javascript, Frame, ..)?
Con quali anchor text linkare (“money keywords” o “Brand”)?
Che rischio ci prendiamo con questo link?
Inoltre, questi fattori possono essere valutati in modo diverso in casi diversi. Un link può anche essere buono o cattivo a seconda del settore, del paese, della lingua e delle parole chiave. Sfortunatamente, non esiste una regola generica. Ad esempio, NON è lo stesso se un dominio si collega a 1.000 sottopagine o se 1.000 domini si collegano a una sottopagina. Ecco perché consiglio sempre di utilizzare tool come Majestic, Ahrefs o SEMrush.
Caratteristiche di un link buono
Per essere considerato positivo, un link dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:
Proveniente da fonte autorevole
Alto valore DOM/POP
Elevato TRUST
Lingua
Variazione di IP e Classe C
Appartenenza alla stessa nicchia
Distribuzione ragionata Anchor Text
No link a raffica
No scambio link
Presenza o meno del tag nofollow
Indirizzare i link in profondità e non solo verso la home
Come fare Outreach
Esistono diversi modi per intercettare link e qui ne riportiamo alcuni.
Richiedere backlink
Questo è un buon modo per iniziare, soprattutto se sei agli inizi in questo settore. Pensa ai tuoi amici, parenti, colleghi, partner, clienti che hanno un blog o un sito. Tutto quello che devi fare è chiedere un backlink. Richiedi sempre link nel contenuto anziché link nella sidebar o nel footer.
Ma fai attenzione e assicurati che il backlink provenga da un sito web pertinente per la tua nicchia. Altrimenti, non avrà un impatto ottimale e potrebbe persino essere dannoso.
Costruire relazioni
Per ricevere buoni link, è necessario costruire buone relazioni. Ci sono molte opportunità per creare nuovi contatti. Dovresti iniziare con community correlate alla nicchia: forum, blog o gruppi sociali.
Fai il primo passo e inizia a contribuire con commenti e post interessanti e pertinenti, fornendo valore contestuale a ogni discussione.
Partecipando attivamente a queste comunità online incentrate sulla tua nicchia, non solo otterrai alcuni buoni backlink, ma avrai sempre accesso alle ultime novità del settore e sarai in grado di collegarti ad alcune persone interessanti che condividono le tue passioni.
Avviare un blog
Non creare un blog con un post e un backlink al tuo sito. Se lo fai, non solo hai perso tempo, ma probabilmente hai anche creato un altro link rischioso per te stesso. Se vuoi avere il tuo blog, devi tenerlo in vita.
Scrivi post su base regolare. Concentrati sul tuo settore e sulle esigenze del tuo cliente. Con il tempo, molto probabilmente acquisirà autorità. Assicurati che i tuoi contenuti siano pertinenti, utili e ben strutturati.
Questo è l’unico modo per garantire che il mondo vorrà navigare il tuo blog più volte.
Scrivere un buon guest post per altri
Ci sono molti siti e blog che accetteranno di pubblicare il tuo articolo. Prima di scrivere un articolo da qualche parte, assicurati che:
Il sito web o il blog è pertinente al tuo argomento
L’articolo non riguardi quanto sei grande o la tua azienda
Focalizzati sulla qualità (ben scritto, professionale e interessante)
Tieni presente che un articolo scadente può avere un effetto contrario
È importante creare link che aiutino il tuo sito web e non link che possono influire negativamente sul posizionamento del tuo sito nei risultati di ricerca.
Se cerchi i tuoi concorrenti, noterai probabilmente che hanno alcuni backlink in comune che non hai ancora. Bene, se sono riusciti a ottenere questi backlink, perché non dovresti farlo anche tu? Strumenti come SEMrush e Majestic ti aiuteranno a farlo.
Ottieni un backlink indiretto dal tuo competitor
È abbastanza comune che alcuni dei tuoi competitor ricevano link dagli stessi siti. Trova questi siti ed inserisciti in questo schema. Questi siti hanno generalmente grande authority nel tuo settore.
Recupera i backlink persi
A volte potresti trovare collegamenti rotti al tuo sito web. Questo può accadere se la posizione della tua pagina cambia o se un altro webmaster ha sbagliato a scrivere il tuo link. In entrambi i casi, questi backlink restituiranno un errore 404.
Tali problemi possono anche verificarsi comunemente dopo il riavvio o la migrazione di un sito in un altro dominio. Dovresti quindi reindirizzare questi backlink verso un’altra pagina presente.
Trasforma le tue menzioni in backlink
Questo è probabilmente uno dei modi più semplici per ottenere alcuni backlink nuovi. Qualcuno ha già scritto qualcosa su di te. Hanno menzionato il tuo brand o prodotto, ma non hanno messo un link al tuo sito web. In situazioni come queste, di solito è sufficiente contattare il webmaster e chiedergli di convertire quella menzione in un backlink.
Hai ma sentito parlare di link earning?
La link building è sicuramente ancora una delle tecniche SEO più utilizzate ed efficaci. Come detto in precedenza, richiede investimenti in strumenti affidabili per fare outreach, tuttavia, richiede anche molto lavoro manuale.
Non tutti i link creati però sono uguali. Quelli ricevuti da siti autorevoli possono migliorare il tuo posizionamento in maniera importante, mentre altri possono danneggiare il tuo sito su più livelli. Per non parlare del fatto che qualsiasi attività di link building fatta male può farti addirittura penalizzare e danneggiare le prestazioni a lungo termine del tuo sito.
Proprio per questo motivo, la SEO off-site è una questione abbastanza delicata e dovrebbe sempre essere fatta da professionisti. Questa è in realtà la principale differenza tra comprare link e/o guadagnarseli naturalmente, stiamo parlando del concetto di link earning.
Il guadagnarsi link può essere definito come una nuova forma più saggia di accrescere il proprio trust nei confronti di Google. Il tutto ruota intorno alla creazione di risorse pertinenti e coinvolgenti che apportano valore sia ai motori di ricerca che ai loro utenti. Il concetto di link earning ruota sulla strategia di creare contenuti dall’alto valore, così alto che la gente deve avere voglia di farne share. Da questo buzz dovresti ottenere dei link in entrata.
L’obiettivo principale di Google è, proprio come per qualsiasi altra azienda, guadagnare denaro. E Google non può guadagnare nulla se non fornisce una buona esperienza utente. Una buona esperienza utente, a sua volta, arriva con risultati di ricerca validi e pertinenti.
Crea contenuti eccezionali
Va bene, è ovvio, ma nella sua banalità è incredibilmente importante. Oggi, creare un pezzo di qualità non si riduce a scrivere un articolo di 500 parole e chiedere a un blogger di pubblicarlo. Al contrario, si tratta di investire tempo e sforzi nella conduzione di una ricerca approfondita e nella creazione di contenuti di alta qualità, coinvolgenti e interattivi.
Non limitarti ai soli articoli. Sperimenta diversi tipi di contenuti, dai video alle infografiche, guarda cosa risuona con il tuo pubblico di destinazione. Assicurati che ogni post sia supportato da ricerche pertinenti. I tuoi contenuti devono rispondere alle domande del pubblico e consentire loro di partecipare attivamente alla “conversazione”.
Una volta che iniziano a notare la qualità dei tuoi contenuti, i tuoi lettori ti vedranno come una fonte affidabile di informazioni e link al tuo blog, senza che tu debba alzare un dito.
Che cosa significa contenuti di qualità per Google?
Un contenuto è di qualità quando è:
Desiderabile
Trovabile
Utile
Accessibile
Credibile
Prezioso
Google controlla le caratteristiche tecniche del tuo sito come la velocità di caricamento del sito, la navigazione, il design, i metatag o la complessità.
Ma c’è qualcosa di più; un fatto davvero semplice: un buon contenuto ti porterà molti backlink naturali. E anche Google guarda i link. In effetti, i collegamenti sono il fattore di ranking primario per Google, come più volte detto.
Quindi il tuo obiettivo sarà quello di creare contenuti che la gente avrà voglia di linkare.
I limiti della Link earning
In primo luogo, tra i limiti, vi è un dato statistico: solo le anchor text esatte spostano posizionamento, mi sembra di poter affermare in maniera abbastanza decisa che sono in pochi coloro che ti linkano con anchor text in maniera naturale e quindi non otterrai miglioramenti di ranking se non solo, per modo di dire, miglioramento di trust (fiducia) e juice (valore che passa da un sito all’altro).
Un altro forte dubbio deriva dal fatto che i link naturali solitamente puntano solo esclusivamente verso l’home page o una landing sola del tuo sito quindi non ne beneficia il sito nella sua globalità in termini di posizionamento.
L’ultimo dubbio deriva dal fatto che non tutti lavorano per brand sexy, così sexy che tutti vorranno fare share di quei contenuti. In queste situazioni viene sempre voglia di pensare ad un povero marketing manager di un’azienda di bulloni che deve creare contenuti così ammalianti da scatenare un buzz incredibile, difficile no?
Siti dropped si o siti dropped no?
Prima di tutto stabiliamo subito cosa è un dropped site. Si tratta di siti che sono scaduti, quindi il proprietario non ne ha rivendicato la proprietà rinnovando il servizio di hosting per esempio. Vi sono piattaforme come nidoma.com o match.it che permettono di comprare questi domini.
Comprandoli recuperi più o meno il loro trust e i backlink in entrata, ma lato SEO possono aiutare? La questione è piuttosto annosa, per far sì che il sito possa esser preso in considerazione sarebbe fondamentale recuperare la struttura precedente e continuare con il core business precedente, questo succede spesso? Ahimè no! Molti tramutano tutto il core del sito e secondo me questi siti non sono buoni e non ha senso prendere link da qui.
Link building: conclusioni finali
Ti invito a iniziare a creare la tua prima campagna di link building. Ma prima di farlo, assicurati di fare un controllo dettagliato dei link e rinnegare tutti i link di spam che hai acquistato in passato e utilizzare tool che ti permetteranno di fare una link audit per fare in modo che Google esegua la scansione dei link nel tuo file di disavow più velocemente. Rinuncia a tutti i link ad alto rischio. Non vuoi che Google li trovi, vero?
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/03/social-media-intelligence-2.jpg649948Gaetano Romeohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGaetano Romeo2020-04-10 12:34:162020-04-13 19:30:00Outreach e link earning: come fare link building di qualità
Il Bonus Pubblicità è una interessante agevolazione fiscale per le aziende e il decreto Cura Italia introdotto in occasione dell’emergenza Covid-19 ha introdotto alcune novità;
Il bonus pubblicità viene ora concesso sul 30% dell’intero investimento effettuato nel 2020. Ecco tutti i dettagli.
Creato con la Legge di Bilancio del 2018, il Bonus Pubblicità offre interessanti agevolazioni fiscali ad organizzazioni e professionisti che decidono di investire in campagne pubblicitarie per raggiungere i propri obiettivi di comunicazione e business.
Infatti aziende, enti non commerciali o lavoratori autonomi che pianificano advertising su testate anche online, televisioni, radio possono richiedere un’agevolazione erogata sotto forma di credito d’imposta corrispondente al 75% della spesa incrementale sostenuta in pubblicità rispetto all’anno passato.
L’investimento pubblicitario deve superare almeno dell’1% l’importo investito nell’anno precedente.
Naturalmente, il credito d’imposta si ferma alle spese relative alla pura pianificazione di campagne: non sono ammesse spese accessorie o spese per advertising su piattaforme digitali che non siano testate editoriali, come ad esempio i social media.
Tutti i titolari di partita iva possono beneficiarne: dalla grande azienda multinazionale con sede in Italia all’agenzia di comunicazione, dal consulente libero professionista all’esercente commerciale, dalle aziende industriali a quelle agricole di cui è costellato il nostro paese.
Cosa cambia per il Bonus Pubblicità con il Cura Italia
L’emergenza Coronavirus ha imposto cambiamenti sostanziali per sostenere anche la ripresa delle aziende dopo questo periodo di stasi: infatti l’articolo 98 del decreto legge del 16 marzo 2020 apporta modifiche eccezionali al Bonus Pubblicità valide solo per il 2020.
I cambiamenti principali che abbiamo individuato sono due:
Il bonus pubblicità viene concesso sul 30% dell’intero investimento effettuato nel 2020 e non più sul 75% del valore incrementale dall’anno precedente. L’investimento deve essere sempre di almeno l’1% rispetto all’anno precedente e il limite di spesa è di 27,5 milioni di euro. Quindi a fronte di un investimento in pubblicità di € 10.000 + IVA per una campagna su una testata editoriale online, un’azienda potrà diminuire le proprie imposte di € 3.000 + IVA.
Le nuove domande potranno essere presentate online sul sito dell’Agenzia delle Entrate tra il 1° ed il 30 settembre 2020. Restano valide quelle già presentate nel mese di marzo 2020. Periodo e scadenze cambiano in via eccezionale e solo per quest’anno.
Come richiedere il Bonus Pubblicità
Le aziende e i professionisti potranno fare domanda accedendo ai servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate.
Come prima cosa, andrà caricata il documento di “Comunicazione per l’accesso al credito d’imposta” prevista dall’articolo 5, comma 1, del D.P.C.M. n. 90 del 2018, che illustra i dati degli investimenti pubblicitari da realizzare nell’anno di riferimento (o già realizzati) per il quale si chiede l’agevolazione. A questo link è possibile scaricare il modello per presentare la propria richiesta.
Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria elabora l’elenco dei soggetti che hanno fatto domanda.
Dal 1° al 31 gennaio dell’anno successivo è necessario inviare la “Dichiarazione sostitutiva relativa agli investimenti effettuati”, ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante l’effettiva realizzazione degli investimenti realizzati nell’anno presentati e che gli stessi soddisfano i requisiti di cui all’articolo 3 del D.P.C.M. n. 90 del 2018.
Dopo questo passaggio, sarà pubblicato sul sito del Dipartimento l’elenco dei soggetti ammessi: chi risulterà idoneo potrà usare il credito d’imposta dopo il quinto giorno lavorativo successivo alla pubblicazione del provvedimento di ammissione, solo in compensazione con il modello F24 che deve essere presentato sempre attraverso i canali online dell’Agenzia delle entrate. Attenzione: se l’investimento è consistente e la somma supera i € 150.000, sarà necessario attendere una comunicazione di abilitazione.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/03/Depositphotos_108077808_s-2019-min.jpg7071000Federica Bulegahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFederica Bulega2020-03-31 15:35:172020-04-02 10:49:46Bonus Pubblicità: cosa cambia con il decreto Cura Italia e quali sono le opportunità per il tuo business
a cura di Thomas Ducato, giornalista di Impactscool
Secondo un rapporto su alcune componenti, Tesla avrebbe un vantaggio tecnologico di 6 anni sui concorrenti
Il mercato dell’auto sta provando ad adattarsi al cambiamento ma la strada potrebbe essere lunga e complessa
Per i suoi utenti Tesla è molto più di un’auto: chi la sceglie non torna indietro
Il 5G potrebbe spingere verso la guida autonoma. Prima però, ci sono aspetti etici e normativi da affrontare
Al netto degli ultimi sviluppi dell’emergenza Coronavirus, la crescita di Tesla pare inarrestabile. La casa automobilistica di Elon Musk ha chiuso il 2019 mettendo a segno il miglior trimestre di sempre e ha raggiunto, nell’arco dell’anno, quota 367.500 vetture consegnate, in crescita del 50% rispetto al 2018. Sono tanti i fattori che hanno contribuito a questo risultato, dal livello tecnologico dell’azienda alla maggiore sensibilità della popolazione verso la tematica ambientale, che sta contribuendo all’accelerazione della conversione all’elettrico da parte degli automobilisti. Inoltre, c’è il tema della guida autonoma (anche se per il momento dovremmo definirla assistita), che potrebbe beneficiare in modo importante delle reti 5G e potrebbe spingerci verso un nuovo modo di vivere la mobilità.
Tesla sta propiziando una rivoluzione nel mercato dell’auto: quali sono i fattori di cambiamento? Ma soprattutto, siamo pronti?
Un successo costruito sulla tecnologia
Qualcuno ha attribuito i risultati ottenuti da Tesla a un’ottima strategia di marketing e alle grandi capacità di storyteller del suo CEO e fondatore Elon Musk. È innegabile che ci sia anche questo dietro al successo della casa americana, ma c’è anche molto altro. La capacità di innovare di Tesla è, dalla sua fondazione nel 2003, una delle caratteristiche chiave dell’azienda, che le ha permesso di attrarre investimenti e conquistare una leadership difficile da intaccare, anche dai colossi del settore. Basti pensare che aziende come Toyota e Volkswagen, che vendono ogni anno 10 milioni di auto, sul piano dell’innovazione sono ancora distanti dalle vetture di Musk.
L’editore Nikkei Business Publications sostiene che l’elettronica di Tesla abbia addirittura 6 anni di vantaggio rispetto a quella delle concorrenti. È il risultato di un rapporto realizzato dallo stesso editore, che ha evidenziato le profonde differenze di progettazione e utilizzo di sistemi tecnologici tra Tesla e i concorrenti. Secondo gli ingegneri che hanno curato il documento alcune componenti, come l’hardware che gestisce i sistemi di ausilio alla guida, potranno essere presente sui modelli degli altri costruttori non prima del 2025. Un vantaggio competitivo enorme che trova origine in scelte strategiche ben definite: Tesla ha creato il suo successo sull’innovazione e il motore elettrico, rendendo potenzialmente obsoleto il mercato dell’auto come lo conosciamo oggi. E le grandi aziende del settore non possono ancora permettersi questa rivoluzione sotto diversi punti di vista.
L’uragano Tesla e il mercato dell’auto
La crescita di Tesla e l’aumento della fetta del mercato dell’elettrico, complice un maggior interesse verso le tematiche ambientale, obbliga anche le case automobilistiche storiche a rivedere le proprie strategie. Ma le loro possibilità economiche e la conseguente capacità di innovare in poco tempo, spingono a credere che il motivo del ritardo non sia solo di tipo tecnologico: l’utilizzo su larga scala di sistemi elettronici tipo quelli di Tesla ridurrebbe drasticamente il numero di centraline elettroniche in auto, con effetti catastrofici su moltissimi fornitori delle grandi case e sui loro dipendenti. Oggi, però, il mercato inizia a risentirne e il caso della Germania in questo senso è emblematico: alla fine del 2019 prima Audi e in seguito Daimler, la casa madre della Mercedes, hanno annunciato il taglio di decine di migliaia di posti di lavoro.
Secondo l’opinione di analisti ed esperti i costruttori tedeschi stanno iniziando a pagare i ritardi nello sviluppo della mobilità green e la mancata capacità di prevedere in anticipo la volontà dei consumatori di convertirsi all’elettrico. La mobilità green è un trend ben avviato, come confermato anche dai dati sulle vendite del 2019 dove in Germania si è registrato un +75% di nuove immatricolazioni di auto a motorizzazione alternativa, dato che a livello europeo si è attestato al +41%. E il 2020 è iniziato sulla scia del precedente con un incremento sensibile delle vendite di auto elettriche pure.
Se ne è accorta la General Motors, che da qualche settimana ha presentato la sua strategia per i veicoli elettrici, con l’obiettivo di comunicare a clienti e investitori quanto sia decisa ad abbracciare l’elettrico nel prossimo futuro.
Ma qualcuno non sembra essere pronto: Audi, a fine febbraio, ha annunciato di aver interrotto la produzione del suo SUV E-Tron per risolvere i problemi di produzione, compresi quelli legati alla fornitura di batterie, sottolineando le difficoltà che le case tradizionali affrontano per potenziare la loro gamma elettrica. Volkswagen, dal canto suo, ha annunciato che investirà 60 miliardi di euro entro il 2024 per sviluppare l’auto del futuro, attraverso ibridizzazione, mobilità elettrica e digitalizzazione.
La sfida a Tesla, dunque, è stata lanciata e possiamo dire che Elon Musk l’ha raccolta e ha rilanciato: ha scelto (non a caso) l’area di Berlino per costruire la sua prima fabbrica europea.
Molto più di un’auto per i suoi clienti
“I possessori di Tesla non condividono solo la stessa auto, ma abbracciano una visione comune che permette di creare un forte senso di appartenenza. Chi sceglie Tesla difficilmente torna indietro”. Sono le parole di Federico Lagni, Fondatore e Presidente di Tesla Club Italy, associazione no profit indipendente rispetto alla casa automobilistica, che riunisce attorno a sé persone da tutta Italia: una vera e propria community, nata con l’obiettivo di informare sul mondo dei motori elettrici e sensibilizzare le persone sulla mobilità green.
Si tratta del primo club Tesla in Italia e tra i primissimi al mondo, fondato circa 10 anni fa quando l’azienda di Musk muoveva i suoi primi passi sul mercato. “Tesla ha preso un foglio completamente bianco e ha iniziato a costruirci sopra un progetto – ci ha spiegato -. È questo uno degli aspetti che attrae di Tesla: nonostante sia una casa giovane è riuscita in poco tempo a creare un qualcosa di completamente nuovo e i risultati le stanno dando ragione. Dall’altro lato i clienti apprezzano moltissimo gli obiettivi di Tesla sul fronte ambientale e la maggiore sensibilità verso queste tematiche sta contribuendo alla sua crescita, anche se non è l’unica ragione”. A chi critica le auto elettriche perché utilizzano energia prodotta da fonti non esclusivamente pulite, Lagni risponde: “È vero, ma anche considerando ciò, un’auto elettrica è di gran lunga più sostenibile rispetto ad un’auto endotermica, visto che, ricordiamolo, oltre la CO2 (che comunque un’auto elettrica non emette) un altro aspetto fondamentale è l’emissione di polveri sottili nell’aria che respiriamo. Le auto elettriche permettono di ridurre l’inquinamento, è un grande successo”.
Ma la missione di Tesla, secondo la community italiana, va oltre la sostenibilità: “Alla base del progetto – prosegue Lagni – parte da diverse necessità: non solo quella di limitare l’inquinamento, ma anche garantire la sicurezza. Grazie alla tecnologia sta cercando di risolvere una serie di problemi”.
Performance delle batterie e smaltimento
Le batterie sono oggi considerati uno dei grandi limiti per la diffusione su larga scala del mercato elettrico: l’autonomia limitata spinge gli automobilisti verso un nuovo modo di vivere il viaggio, da organizzare in funzione della necessità di caricare l’auto. Inoltre, proprio il costo delle batterie incide in misura importante sul prezzo. Per questo Tesla ha deciso di lavorare molto su questa componente, con l’obiettivo di produrne di più economiche, sostenibili ed efficienti. Nel frattempo un primo passo verso un miglioramento delle prestazioni è stato annunciato da Musk attraverso Twitter, suo canale preferito: è in arrivo un aggiornamento software Over-The-Air, quello di gestione della carica, che aumenterà l’autonomia di Model S e Model X. Ma guai a considerarla come un’auto con cui non si può viaggiare: “Un’analisi che abbiamo fatto nel 2017 su circa 50 possessori di Tesla – prosegue Lagni – ha dimostrato come questa sia a un’ auto anche per lunghe percorrenze: la media dei chilometri percorsi durante un anno è di 52mila, un dato decisamente elevato. Il campione è piccolo ma è già indicativo e con queste cifre il risparmio economico diventa considerevole”.
L’altra perplessità è legata allo smaltimento di queste batterie: hanno una vita media di 8-10 anni e rappresentano un rifiuto molto inquinante, infiammabile e quindi pericoloso. Potremmo dunque trovarci con meno emissioni, ma tra circa un decennio potremmo avere un nuovo problema da affrontare. Un brevetto italiano, però, potrebbe permettere di riciclare le componenti delle batterie a ioni di litio esauste, con benefici non solo per l’ambiente ma anche economici dato che si tratta di materiali molto costosi, la cui estrazione ha anche un costo sociale molto elevato.
Il futuro della mobilità intelligente e le reti 5G
Non sono elettrica e green, ma anche tecnologica e “intelligente”. Il sistema di guida assistita di Tesla offre già oggi prestazioni ben al di sopra rispetto a quelle dei competitor.
Tutto questo potrebbe fare un ulteriore scatto in avanti grazie alla diffusione delle reti 5G. “In generale – ha spiegato a Impactscool Magazine Roberto Riggio, a capo dell’unità Wireless and Networked Systems del centro di ricerca CREATE -NET di FBK – il 5G non porterà solo a una connessione più veloce ma è un vero e proprio cambio di paradigma, non una semplice evoluzione. Aprirà la strada a servizi che erano prima impensabili. Il parallelo che si può fare è con l’arrivo del 3G, che ha permesso la diffusione degli smartphone e del video streaming. Il 5G, oltre a portare un’evoluzione di questi servizi di base, consentirà la nascita di nuovi servizi avanzati e verticali, specifici ad esempio per l’industria 4.0 o il settore automotive. Oltre alla maggiore capacità della rete, il 5G offre la possibilità di supportare servizi e applicazioni che vengono chiamati a bassa latenza e alta affidabilità: una rete che può rispondere in pochi millisecondi a diverse esigenze, come quelle che arrivano da auto autonome e intelligenti, che potranno condividere informazioni in tempo reale e creare una visione dettagliata di quello che accade intorno a loro”.
Riggio, con la Fondazione Bruno Kessler, è coinvolto nel progetto 5G Carmen, finanziato attraverso il programma Horizon 2020 con 18,5 milioni di euro, che ha l’obiettivo di testare la mobilità autonoma e connessa nel corridoio Monaco-Bologna. “Il progetto – ci ha spiegato – coinvolge diverse realtà industriali e enti di ricerca ed è stato il primo progetto dedicato al 5G che sarà transnazionale (è partito a fine 2018 e proseguirà fino a fine 2021 nrd).
L’obiettivo è quello di validare le reti cellulari di quinta generazione in un contesto automotive, per realizzare casi d’uso innovativi legati alla mobilità connessa. Il progetto riguarderà sia vetture a guida autonoma, in cui il 5G sarà a supporto della macchina per fornire informazione e migliorarne le prestazioni, sia quelle non autonome, toccando ambiti come la sicurezza e il soccorso stradale”. In questo senso si va verso una mobilità collaborativa, in cui le auto si parlano tra loro, comunicano attraverso sensori e dati, e garantiscono una maggiore efficienza e funzionalità della mobilità
Restano però da affrontare una serie di questione di natura etica e legale, come dimostrano le polemiche ancora vive e accese legate all’incidente che ha coinvolto una Tesla con guida assistita attiva nel 2018 e che ha portato alla morte di un uomo.
“Il fatto che una macchina diventi un agente autonomo, – ci ha detto Cristina Pozzi, CEO e Co-founder di Impactscool – un oggetto in grado di muoversi senza istruzioni precise, ma reagendo al contesto, ci pone di fronte a un tema di responsabilità e sicurezza enorme. E anche se i dati ad oggi in nostro possesso mostrano che le auto a guida semi-autonoma che esistono sul mercato hanno meno incidenti per kilometro percorso, resta il fatto che non possiamo deresponsabilizzare gli esseri umani addossando le colpe di un errore alle macchine. Per questo in Europa è stata istituita una vera e propria personalità giuridica per le macchine – Electronic Personhood – che ci metta in grado di garantire il giusto quadro legale (e etico anche se le due cose non coincidono) e di stabilire doveri, diritti e responsabilità dei soggetti coinvolti, con trasparenza.”
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/11/tesla-space.jpg358642Impactscoolhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngImpactscool2020-03-25 16:22:552020-03-27 10:54:08La crescita di Tesla, tra vantaggio tecnologico e politiche green
Il lavoro da casa dovuto alla quarantena non è smart working né telelavoro, e non andrebbe trattato come tale
Maria Vittoria Mazzarini, senior consultant di Methodos Spa, spiega le trappole e i rischi di questo tipo di implementazione forzata
Per fortuna è possibile fare buon viso a cattivo gioco con dei semplici accorgimenti da applicare nella nostra quotidianità del lavoro da casa
Ironico. Siamo stati per anni il fanalino di coda del mondo, per quanto riguarda la tendenza al lavoro da remoto.
In un mondo in cui molte aziende passano addirittura all’approccio remote-first, e fioriscono società totalmente dislocate nello spazio senza quasi uffici fisici, in Italia molto spesso la conquista maggiore sembra essere un giorno a settimana di smart working.
Ironico che adesso, da un giorno con l’altro, a causa dell’esplosione dei casi di Covid-19 in Italia e della quarantena forzata imposta su tutto il Paese, il lavoro da remoto sia diventato l’unico modo di lavorare per la maggior parte delle aziende in Italia.
Un risultato per cui, lo ammetto, qualcuno come me ha inizialmente ben sperato. Chi si è da anni auto-proclamato un advocate dei vantaggi del remote work, ha visto d’improvviso anche i più restii abbracciarlo con slancio e ha pensato che fosse un passo nella giusta direzione.
Ma è durato poco, perché ci è voluto un attimo per capire che questo NON è smart working. Che le aziende italiane non avrebbero avuto il tempo o la capacità di adattarsi così velocemente a un modo di lavorare che non è semplicemente “lo stesso dell’ufficio, ma da un’altra parte”. Che i dipendenti non avrebbero potuto godere delle gioie dello smart working, ma solo dei suoi dolori, reclusi e preoccupati a causa di una situazione di emergenza.
E che stavamo correndo il rischio di fare l’opposto: demonizzare lo smart working per qualcosa che non è, con strascichi negativi che rischiano di inficiare la nostra capacità di lavorare e restare al passo nel mondo sempre più digitalizzato e remoto del futuro.
Il paradosso dello smart working ai tempi del Covid-19
Persone e aziende che, invece, già da tempo hanno abbracciato questa nuova modalità di lavoro, in condizioni normali basata su maggiore libertà, fiducia, adattabilità, vedono chiaramente la situazione attuale per ciò che è: un ibrido, necessario ma non piacevole; ma anche un’opportunità di apprendimento, se vissuta nel modo corretto.
È quello che alcune aziende sanno bene. Sia perché lo smart working, quello vero, è una modalità abituale di lavoro per loro. Sia perché si occupano appunto di change management organizzativo e culturale, ovvero di supportare le aziende nelle trasformazioni più critiche dei nostri tempi come M&A, Digital Transformation, New Ways of Working, Integrated Thinking, etc.
“In Methodos abbiamo colto fin da subito il rischio di ciò che stava succedendo: immediatamente ci siamo messi all’opera per produrre materiale concreto e utile per indirizzare le persone in questa situazione straordinaria, sia i clienti che soprattutto quelli che non lo sono, dato che sapevamo fin dall’inizio che non sarebbe stato un semplice caso di introduzione dello smart working“, ricorda Maria Vittoria Mazzarini, Senior Consultant della società.
“Noi lavoriamo in smart working da tanti anni e sappiamo bene che ci sono due cose che lo caratterizzano: la preparazione da parte dell’azienda, che deve prendersi il tempo necessario per studiare e implementare un’esperienza soddisfacente; e la possibilità per le persone di scegliere quando, come, dove lavorare.
Queste due caratteristiche definiscono lo Smart Working, e quindi è chiaro che, per forza di cose, ciò che stanno vivendo gli italiani oggi non lo è“.
Ciò che non è, e come dovrebbe essere, il lavoro da remoto in tempo di crisi
Qualcuno lo chiama allora telelavoro, sbagliando ancora di più in realtà perché i presupposti sono totalmente diversi: “per telelavoro si intende quando l’organizzazione per cui lavori ti ricrea in casa la postazione; è stata pensata negli anni ’80 per i lavoratori disabili, non è possibile che sia fatto per lo smart working, perché appunto questo non prevede il lavoro esclusivamente da un luogo o da un altro”, continua Maria Vittoria.
Semplicemente ciò che stiamo vivendo è lavoro svolto obbligatoriamente da casa in situazione di quarantena.
Non c’è la libertà di scelta, né possibilità di applicazione delle strategie e tecniche da parte delle aziende che è alla base dello smart working.
“In una situazione ideale e programmata di introduzione dello smart working, si parte dall’ascolto. Bisogna chiedere al dipendente come lavora, come vorrebbe lavorare, analizzando come si comporta lungo tutta l’employee journey experience, da come arriva in ufficio a come mangia, etc. In base ai risultati, si definisce la soluzione migliore e più smart. Si avviano dei test con piccoli gruppi di rappresentanti trasversali, oppure per singole funzioni, con alcuni giorni da remoto. Si raccolgono i feedback e, solo dopo averli analizzati e aver tratto le dovute conclusioni, si implementa per tutti, creando una policy che sia il più comprensiva possibile dei bisogni di tutti”.
Un lavoro lunghissimo, che può durare anche anni e, ovviamente, nella situazione attuale non c’è stato il tempo di fare. Così tanto i responsabili in azienda quanto i dipendenti si muovono alla cieca, e si comportano in due modi altrettanto deleteri: navigano a vista, nell’attesa di tornare alla normalità il prima possibile, e nel frattempo lavorano da casa come farebbero in ufficio.
Questa modalità di operare però è pericolosa: la situazione potrebbe protrarsi più a lungo di quanto le nostre rosee aspettative ci fanno credere, vedendo anche il decorso negli altri Paesi. Il rischio è non solo di vedere la produttività ridotta enormemente, ma anche di avere conseguenze pesanti sulla salute delle persone, sia sul piano fisico che mentale.
I rischi di lavorare da remoto senza l’adeguata preparazione
Dopo i primi giorni di caos, adesso che da qualche tempo ormai si lavora obbligatoriamente da casa si è trovata, nella maggior parte dei casi, una sorta di routine e stabilità. Alcuni problemi però, che tipicamente nello smart working correttamente implementato si manifestano in modo leggero, in questa circostanza si acuiscono; altri ancora sono totalmente nuovi.
Nella prima categoria c’è la difficoltà di integrare vita privata e professionale: quando si lavora da casa un giorno alla settimana si ha tutto il tempo per gestire questa difficoltà, non c’è il resto della famiglia a condividere lo spazio vitale e la libertà di movimento è massima. Ora invece sono tutti a casa, manca uno spazio dedicato; in più ci sono i figli, che se non sono abituati ad avere a casa mamma e papà fanno fatica a distinguere il tempo del gioco da quello del lavoro.
Un altro problema che si acuisce è mettere una fine alla giornata lavorativa. In una normale condizione di smart working si lavora magari di più, ma si riesce comunque a portare a termine altro e a organizzare una serie di cose che solitamente in ufficio non si riescono a fare. In questo periodo purtroppo invece è così tutti i giorni, e chi non è abituato non riesce a mettere fine al lavoro, che tra l’altro si è moltiplicato per tante figure.
Altri problemi invece sono nuovi e legati strettamente all’emergenza che stiamo vivendo: il senso di isolamento per chi è solo, che è psicologicamente molto pesante. Inoltre c’è il tema della stanzialità, non ci si muove nemmeno quel poco che si faceva nello spostamento casa-ufficio ed è deleterio per la salute fisica di tutti noi.
“Tutte queste cose, unite al senso di affaticamento psicologico che molti stanno vivendo, rende purtroppo l’esperienza nel complesso piuttosto negativa, quando invece lo smart working dovrebbe poter fare esattamente il contrario”, spiega Maria Vittoria.
Le regole per un lavoro davvero smart in quarantena
Come fare, allora? Possiamo disperarci, lamentarci della situazione terribile che stiamo vivendo, fagocitare ore e ore di contenuti spazzatura sui social e uscire a cantare sui balconi tutto il giorno. Oppure possiamo rimboccarci le maniche, e provare a vedere questa situazione per quella che è: un’opportunità per imparare e migliorare. Qualcosa che devono fare per primi i dirigenti.
“La sfida iniziale per le aziende è stata quella di abilitare tutti in fretta e furia al lavoro da remoto, ma ormai è passata. Ora è mantenere la produttività senza andare a scapito di altro: bisogna comprendere un attimo qual è la situazione, quali sono le figure più stressate in questa situazione, e quali quelle che invece si sono viste svuotate dal carico di lavoro perché in queste settimane non possono più essere attive. I responsabili in azienda devono comprendere qual è il bilanciamento e poi capire come supportare adeguatamente le persone. È una situazione che non finirà domani, probabilmente ce la porteremo dietro a ondate per parecchi mesi: non si può far finta che non sia così e nascondere la testa sotto la sabbia”, ammonisce Mazzarini.
E per chi improvvisamente si ritrova a dover lavorare da casa per un periodo di tempo indeterminato, quali sono i consigli?
La verità è che è il singolo che deve essere bravo a prendere in mano la situazione; le aziende più attente magari provano a inventarsi qualcosa, come le lezioni di yoga da remoto mattutine o i pranzi virtuali tutti in videochiamata, ma alla fine è il lavoratore che deve organizzarsi per il proprio caso specifico.
Fondamentali quindi:
Orari di inizio e fine chiari, oltre a definire chiaramente delle pause. “È difficile, me ne rendo conto anche io che ero già abituata al lavoro da remoto, ma solo così è possibile viverlo bene e dedicare del tempo a se stessi e a chi si ha intorno”, ammette Maria Vittoria.
Prendersi dei momenti da dedicare a se stessi, migliorando anche il nuovo ambiente di lavoro, rendendolo più confortevole. La sedia è scomoda e fa venire mal di schiena? È essenziale acquistarne una ergonomica, ed è un investimento anche per il futuro, e non andare a lavorare dal divano.
Per chi ha famiglia, magari bambini piccoli, bisogna prendersi delle pause da dedicare a loro, ma definire anche chiaramente i confini della giornata e degli spazi lavorativi dei genitori. Lo stesso vale per le situazioni di tensione in coppia: è essenziale ritagliarsi del tempo di qualità.
Fare attività fisica è fondamentale: una postazione non ergonomica si fa sentire a fine giornata, e fare stretching o yoga diventa essenziale.
Bisogna ascoltare se stessi, comprendere la situazione ma non farsi nemmeno bombardare dalle notizie e dalla negatività. Tempo di qualità è anche questo, significa cercare di filtrare le informazioni, non lasciarsi trascinare dai media e soprattutto dai social network, ma prendersi del tempo per metabolizzarle.
Provare a ricreare la routine mattutina: svegliarsi, vestirsi, fare colazione, truccarsi, etc. Non tutti i giorni magari, ma provare a mantenere quelle abitudini che avevamo può aiutare a far fronte all’incertezza che stiamo vivendo, in una situazione ad alto impatto emotivo come questa. La giornata lavorativa è già stressante in questo momento, con processi e priorità che cambiano di continuo; ci sono tante sollecitazioni diverse, e ritrovare quelle piccole certezze quotidiane può far la differenza.
Cercare di ridurre le chiamate in favore di altri strumenti di lavoro, come Trello o Slack.
Creare momenti di socializzazione, anche se mediati dalla tecnologia, con colleghi e amici, e non lasciare che la situazione ci “abbrutisca” o ci faccia isolare.
Se riusciremo a fare queste cose, non solo saremo produttivi nonostante la situazione difficile, non solo ci sentiremo meno stressati e insicuri, ma riusciremo anche a trasformare questo momento di crisi in un’opportunità per il futuro.
“Dobbiamo leggere la situazione attuale e intercettare tutte quelle best practice, quei cambiamenti che sono stati apportati dai team e che stanno dando buoni frutti; se sapremo standardizzarle, portarle a normalità per quando torneremo in ufficio, allora avremo fatto un passo da gigante verso il lavoro veramente smart.
Anche quando tutto sarà finito, ci troveremo a vivere una nuova normalità, non la stessa di prima; bisogna individuare le competenze soft che ci supportano in tempi come questi (capacità di adattamento, di generare innovazione, etc) e farne tesoro, anche più che di quelle hard – continua Maria Vittoria.
Si entra nel tema molto ampio dell’anti-fragilità, un “nuovo” termine di cui si sta parlando tanto, che supera quello di resilienza; mentre questa ci dice “accusa il colpo e rialzati”, anti-fragilità significa “accusa il colpo, osserva ciò che puoi imparare da esso, mettilo a sistema e crea qualcosa di migliore di prima grazie alle informazioni acquisite”.
Insomma, cerchiamo di vedere cosa di buono possiamo portarci a casa, mettiamolo a valore e cerchiamo di diventare persone e organizzazioni migliori di prima.
Se ci riusciremo, tutto questo forse non sarà stato in vano.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/03/laptop-4248869_640.jpg427640Ilaria Cazziolhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngIlaria Cazziol2020-03-25 00:13:062020-11-12 11:30:00Non chiamatelo smart working: come affrontare il lavoro in quarantena
L’epidemia di Coronavirus sta mettendo a dura prova il tessuto economico del nostro Paese, ed è probabile che questo non sia che un antipasto. Il Covid-19 sta infatti diffondendosi anche in Europa e America, intaccando le certezze e cambiando le abitudini e probabilmente rimetterà al centro delle agende di tutto il mondo il dover pensare a come ripartire dopo una grave crisi.
Una delle chiavi che probabilmente potrebbero essere rivelatrici per il futuro sta però non tanto nella capacità delle aziende di costruire nuove opportunità di ricavo, quando nel portarsi dietro con chiarezza che ruolo si è recitato in questa fase critica.
Viviamo infatti in un’epoca in cui le aziende, per forza di cose, devono recitare un ruolo all’interno della società andando probabilmente oltre anche il concetto di Sostenibilità, che è riduttivo. Un’impresa infatti, al di là della sua vocazione al ricavo, oggi è più che mai un attore che svolge un ruolo attivo nella società, e che è responsabile della crescita della stessa.
Una sfumature particolare e decisiva, che però rimarca molto come da solo un approccio “sostenibile” non basti.
Negli anni infatti abbiamo assistito, al di là delle discutibili azioni di Greenwashing che talvolta ci è capitato di osservare, a molte aziende che ritenevano di fare il proprio limitando l’impatto della propria azione sulla collettività, sull’ambiente, sulle proprie persone.
Questo può dirsi a tutti gli effetti solo il primo passo da compiere. Un aspetto scontato e dovuto, non più un valore aggiunto.
Perché il futuro sta in quelle aziende che riescono a impattare positivamente anche su ciò che non le riguarda direttamente.
Il trionfo del Purpose e l’emergere della vera applicazione dello Storytelling
Se in questi anni non avessimo contribuito a svuotare di significato la parola Storytelling, allora oggi potremmo comprendere fino in fondo come questo sia un passaggio estremamente attinente al mondo della narrazione.
La concretizzazione del purpose, inteso come proposito massimo di un’azienda, va oltre il principio di mission e tocca un po’ tutti gli elementi fondativi di un’impresa: un’idea del proprio futuro, una serie di valori in cui si crede, un orizzonte nuovo per sé e per le persone che collaborano con l’azienda, oltre che ovviamente per la società.
Si capisce bene quanto tutto questo non corrisponda a miraggio astratto, quanto a un progetto concreto, che non può esistere autonomamente e che per essere raggiunto deve necessariamente esser pensato per interagire con il resto del mondo.
Una capacità richiesta dal mercato: secondo la ricerca di Deloitte “2020 Global Marketing Trends”, le imprese che si lasciano guidare dal “Proposito principe” oggi hanno un guadagno concreto, parametrato su una proporzione che fa impressione: le aziende purpose-driven guadagnano quote di mercato e crescono in media tre volte più velocemente rispetto ai loro concorrenti.
I consumatori le preferiscono, anzi le cercano, tanto che l’80% dichiara di esser disposto a spendere di più per prodotti e servizi se chi li produce si impegna ad agire allo scopo di contribuire a migliorare il mondo, responsabilizzandosi verso la società, le persone e l’ambiente.
Per queste ragioni le azioni di attivismo di marca, o brand activism, risultano essere una delle forme più autentiche e concrete che oggi le aziende hanno di agire allo scopo di rendere realtà il proprio “purpose”: perché come le persone si attivano per rendere reali i propri valori e agiscono concretamente, così le marche -e le aziende che le sostengono- devono dar seguito ai propri intenti, con azioni tangibili.
E allora, tornando all’inizio: qual è il legame con il tema narrazione? Perché se ogni storia è esperienza, allora la costruzione di esperienze memorabili, di marca e non, che impattino sul mondo e spostino gli equilibri è a tutti gli effetti un processo narrativo. Non a caso, infatti, al Purpose viene associato il termine “StoryDoing”.
Peccato non aver dato il giusto peso a una parola che oggi servirebbe più che mai a spiegare certi cambiamenti…
Brand Activism: agire per cambiare le cose
L’attivismo di marca, quindi. In questo periodo, dicevamo, può essere questa la leva utile per azionare il cambiamento e cominciare a dare solidità e concretezza al proprio purpose. Il Coronavirus, da poco definito dall’OMS pandemia, è un’occasione che in molti stanno cogliendo per fare i primi passi in un processo che certamente non potrà limitarsi a questo momento di crisi.
Il Ministero dell’Innovazione ha lanciato recentemente un’iniziativa in questo senso meritevole di citazione: Solidarietà Digitale. Aziende e professionisti vengono chiamati a offrire soluzioni per favorire lo smart working, l’eLearning o anche banalmente un diversivo, come un abbonamento a un periodico o a un servizio streaming.
In molte aziende hanno già aderito: dalle telco come FastWeb e Vodafone agli editori come Gedi con La Repubblica e La Stampa, da Google fino a Connexia, Amazon e Infinity.
Sono segnali da cogliere, un po’ come nel caso di Calzedonia.
In questo caso, la scelta di chiudere i propri negozi diventa una mossa che anticipa un’ordinanza probabile del governo, ma che è anche un segnale: l’azienda, in nome del bene comune, sceglie di fermarsi, nonostante questo costi evidentemente un mancato guadagno.
Questa è una situazione di crisi, e il confine fra ciò che è marketing puro, semplice buon senso e vero sviluppo del Purpose non è così definito.
Per capire cosa intendiamo esattamente con brand activism, dobbiamo andare al 2018, quando la Nike punta su Colin Kaepernick come suo testimonial. Il video proposto per i Lions di Cannes del 2019 riassume benissimo cosa questo configuri:
“Don’t ask if your dreams are crazy. Ask if they’re crazy enough“, la frase con cui il giocatore dell’NFL chiude lo spot, è una sintesi perfetta non solo dell’immaginario di marca, ma anche lo spirito con cui lui stesso si è mosso nella realtà, sfidando la politica americana.
La marca, come ci mostra la case study, non ha paura di perdere terreno anche dal punto di vista commerciale per rendere concreti i propri valori: si muove come fosse un movimento, esattamente come fece la stessa azienda qualche tempo prima nel caso della nota legge Muslim Ban, quando fu il CEO Mark Parker a prender parola e a rifiutare, civilmente ma con fermezza, quella norma così discussa.
Lettera di Mark Parker CEO di Nike
Ciò che ha fatto Nike ci lascia una serie di indicazioni molto importanti, che possiamo far nostre a maggior ragione se consideriamo come il risultato sia, alla fine di tutto, una reale posizione di leadership sul mercato.
Se dovessimo stilare un piccolo prontuario di quali siano le caratteristiche delle azioni di brand activism pure, potremmo soffermarci su alcuni punti indispensabili. Li elenchiamo di seguito.
Non importa il guadagno, ma la coerenza
Ogni posizionamento strategico concepisce come fattori determinanti il pubblico cui si parla e il tipo di prodotto che si vende: intrecciando questi valori, si ottengono i fattori identitari che distinguono il marchio.
L’identità è diventata una chiave indispensabile nei processi di marketing, tanto da diventare lo specchio in cui si riflettono anche i particolari quali gli spazi di lavoro o il work-life balance dei dipendenti, la scelta di un fornitore o di un canale di promozione.
Questa identità oggi si è tradotta in tanti elementi espressivi: dal tono di voce al carattere del brand, che si declina nelle comunicazioni e nella relazione con gli stakeholder.
L’attivismo di marca si sviluppa correttamente quando le scelte che vengono compiute sono in continuità con questo carattere: Nike non ha mostrato alcuna sbavatura rispetto al “Just do it” che abbiamo imparato a conoscere nel suo difendere la scelta di Kaepernick. Sarà stata la scelta giusta per noi? Si saranno chiesti i decision maker aziendali guardando la flessione delle stock option.
Sì, si saranno risposti, e allora… fallo e basta.
Senza paura che questo possa comportare momentanee perdite. Chi ti ha seguito fino a quel punto, non avrà paura di seguirti ancora.
Bisogna essere coraggiosi
Altro tema interessante è quello del coraggio: per essere veramente coerenti è necessario a volte superare la paura di non esser capiti, o peggio di esser rifiutati. Se si vuole mettere in condizione un’azienda di mettere i mattoni per edificare il proprio Purpose, allora non bisogna dimenticare che questo richiederà, evidentemente, dei sacrifici.
Perché? Perché stiamo parlando di un qualcosa che richiede un cambiamento, una trasformazione degli equilibri, e nel mondo in cui viviamo è evidente quanto sia necessario ripensare il proprio ruolo secondo paradigmi diversi.
In questo è indicativa la scelta di quelle aziende che scelgono di incamminarsi anche su territori scivolosi come quello politico, contestando apertamente ciò che non credono giusto allo scopo di offrire una lettura dell’esistente diversa, talvolta progressista.
Citiamo ad esempio la campagna di Ben & Jerry’s, datata 2018, sempre critica contro l’amministrazione Trump.
In questo caso, lasciamo al lettore il compito di decidere se sia una presa di posizione giusta o sbagliata. Non è nostro compito, infatti, giudicare se una presa di posizione basata su valori precisi sia giusta e sbagliata. Essendo un fattore di coscienza, come tale va trattato: certamente, è indubbio che un’azienda che si muove a favore di coscienza, più che di convenienza, si sta muovendo secondo una logica di activism.
Il futuro è l’unica cosa che conta
Infine, ciò che spinge una marca a mettersi in discussione non può che essere un valore nobile e indiscutibile: il domani. L’azienda deve prendere posizione su ciò che ci aspetta, e lottare non solo per ciò che la riguarda direttamente affinché questo possa essere garantito per tutti.
Ecco allora emergere casi interessanti di movimenti interni alle aziende e ai grandi marchi, non solo tollerati ma talvolta supportati con orgoglio dalle stesse aziende: un esempio sono i lavoratori di Google e di Amazon che hanno recentemente deciso di schierarsi apertamente a favore degli scioperi per il clima di Greta Thumberg.
Sempre per contrastare il Climate Change, Lush ha scelto nel settembre scorso di chiudere tutti i propri negozi per sensibilizzare la clientela al problema.
Sono solo esempi di azioni suffragate da una necessità: quella di schierarsi a favore di un ideale fortemente connotato dalla spinta al domani.
Uniti contro il Coronavirus (e ciò che verrà dopo)
Coerenza, coraggio, futuro: ci va molto impegno per muoversi secondo queste linee guida. Oggi più che mai, però, le aziende possono assolvere con azioni concrete un ruolo fondamentale, che sarà sempre più centrale negli equilibri cui siamo abituati. Le aziende, e i marchi, hanno un ruolo sociale sempre più centrale e ispiratore, talvolta in grado di abbattere confini e differenze e unire più dei legami nazionali.
La crisi che stiamo vivendo, per esser superata, chiede alle persone molto senso civico e sacrificio: le aziende, attraverso scelte coraggiose e prese di posizione veramente innovative, possono supportare questa traversata aiutando la società a uscirne migliorata.
Non sarà semplice, ma neanche impossibile. Anche perché purtroppo la storia è fatta anche di momenti difficili: non sarà l’ultima volta che purtroppo l’umanità dovrà affrontare una crisi tanto epocale. Meglio essere allenati, per superarle. Insieme.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/03/Depositphotos_342826284_s-2019-min.jpg667999Francesco Gavatortahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFrancesco Gavatorta2020-03-18 16:57:002021-06-07 12:10:55Come fare brand activism e diventare aziende protagoniste del futuro
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