Circa 1 milione di persone erano attese per l’evento del presidente Donald Trump a Tusla. La risposta all’invito online aveva subito reso chiaro che l’arena per il comizio con una capacità di 19 mila persone non sarebbe bastata a contenere il pubblico.
E così in Oklahoma l’organizzazione della campagna Trump era corsa ai ripari attrezzando mega-schermi all’esterno del palazzetto e prevedendo tutto l’apparato di sicurezza necessario in caso di eventi così affollati.
Peccato però, che l’evento sia andato praticamente deserto rispetto alle attese.
Molti dei potenziali partecipanti, infatti, erano utenti dei social, soprattutto millennial, che si erano abilmente organizzati suTikTok per trollare il presidente.
La settimana scorsa, Trump aveva twittato “Quasi un milione di persone hanno richiesto i biglietti per il Rally del sabato sera a Tulsa, Oklahoma” e un funzionario locale aveva dichiarato che erano attese 100.000 persone nell’area. Ma sabato, i partecipanti registrati non hanno riempito l’arena del Bank of Oklahoma Center di Tulsa, costringendo di fatto il team Trump ad abbandonare i piani di gloria.
Uno sforzo coordinato era in corso su TikTok: si invitavano le persone a registrarsi online per l’evento gratuito e poi a non presentarsi.
TikTok si stava trasformando in uno strumento di azione politica e di protesta.
Il responsabile della campagna Trump 2020, Brad Parscale, ha dichiarato alla CNN domenica: “I troll di sinistra e i troll online che fanno un giro di vittoria, pensando di aver in qualche modo influenzato la partecipazione ai rally, non sanno di cosa stanno parlando o come funzionano i nostri rally”. Aggiungendo poi che “iscriversi a un rally significa rispondere con un numero di cellulare. Abbiamo costantemente eliminato i numeri falsi, come abbiamo fatto con decine di migliaia di persone al rally di Tulsa, per calcolare il nostro possibile bacino di partecipanti. Queste richieste di biglietti fasulli non sono mai state prese in considerazione“.
A beffare la squadra di Trump è stata una signora, Mary Jo Laupp, che vive a Fort Dodge, Iowa, e ha un migliaio di follower su TikTok. La donna ha incoraggiato dal social media le persone ad andare sul sito web di Trump, registrarsi per partecipare all’evento e poi non partecipare.
Così accanto a balli, sfide comiche e scherzi, l’appello della signora è diventato una challenge a sè. Gli utenti hanno iniziato a pubblicare video che mostravano che anche loro si erano registrati all’evento. Post simili anche su Instagram e Twitter hanno registrato migliaia di “Mi piace”.
In particolare un video, con più di un quarto di milione di visualizzazioni, ha invitato i fan della musica pop sudcoreana ad unirsi alla campagna di trolling. I follower della musica, nota come K-pop, sono una forza sui social media – solo l’anno scorso hanno postato oltre 6 miliardi di tweet. E hanno una storia di azioni a favore della giustizia sociale. All’inizio di questo mese,si erano radunati anche intorno al movimento Black Lives Matter.
Così, alla fine sabato sera, mentre le immagini mostravano l’arena semivuota, i giovani festeggiavano su TikTok e anche la rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez ha twittato sul tema taggando il responsabile della campagna di Trump.
Actually you just got ROCKED by teens on TikTok who flooded the Trump campaign w/ fake ticket reservations & tricked you into believing a million people wanted your white supremacist open mic enough to pack an arena during COVID
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/trump-tiktok-tusla.jpg397848Daria D'Acquistohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngDaria D'Acquisto2020-06-22 09:13:032020-06-23 09:16:04Trump trollato dal popolo di TikTok e dai fan del K-Pop
Obbligatorie da indossare nelle aree pubbliche in base alle ultime direttive dell’OMS, le mascherine sono una necessità contro il Covid-19;
Anche le statue in giro per il mondo hanno dato l’esempio, in questi mesi lanciando il messaggio: “Hey, ti sei ricordato di indossare la mascherina?”;
Sempre le statue sono al centro di grandi polemiche in questi giorni in relazione alla protesta Black Lives Matter.
Anche loro con la mascherina, poi imbrattate, decapitate, al centro delle polemiche. Le statue, simbolo o fantaccio della storia e della memoria, sono tornate ad aver un ruolo importante nella società odierna.
Negli ultimi giorni è stato il movimento internazionale seguito alla morte di George Floyd a entrare “nella storia” con un messaggio forte: “liberarci da una concezione dell’eredità europea che ci rende arretrati e ci impedisce di comprendere il mondo”. E per farlo ha utilizzato i simboli tangibili della memoria collettiva, facendo cadere, nel vero senso della parola, le statue nelle piazze di tutto il mondo.
Poi ci sono le altre statue, quelle che negli ultimi mesi si sono vestite di mascherine, per comunicare un altro messaggio importante: la necessità delle misure di distanziamento e di prevenzione sanitaria.
Le proteste del Black Lives Matter
Da Colston a Churchill, dai generali sudisti a Indro Montanelli, le statue di tutto il mondo sono state oggetto della protesta.
La svolta simbolica delle contestazioni ha investito l’universo delle immagini, i monumenti celebrativi di personaggi storici razzisti, che in molte città statunitensi ed europee sono stati vandalizzati, abbattuti, o fatti oggetto di atti ufficiali di rimozione.
Con la decisione della speaker della Camera degli USA, Nancy Pelosi, di rimuovere tutte le statue dei confederati che si trovano a Capitol Hill, sede del Congresso, e quella della Marina americana di ammainare per sempre la bandiera di battaglia confederata in tutte le basi, navi, aerei e sottomarini.
Cosa faremo di questi spazi vuoti è la domanda successiva. Pensando a costruire un futuro più giusto per tutti.
FFP2, FFP3, chirurgiche. Non si trovano. Servono. Non servono. Obbligatorie solo per i medici e gli operatori sanitari. Al costo di 0,50 cent. L’OMS, con le nuove linee guida, ha infine cambiato rotta: “obbligatorie da indossare nelle aree pubbliche”.
Un must have, non da intendersi nel senso fashion del termine, ma proprio alla lettera. Must have che farà parte sicuramente delle nostre mise durante la stagione primavera-estate 2020. Dopo si spera di farne a meno.
Non si tratta di borse, né di foulard o occhiali da sole, sebbene prima di uscire siano spesso dimenticate con la stessa frequenza. Ne abbiamo sentito parlare nei tg, nei salotti tv, sui giornali e c’è chi ancora ne discute l’effettiva utilità.
Sono state, a volte, protagoniste di sequestri, perché irregolari, prive delle caratteristiche dichiarate da produttori e venditori e oggetto di importazione con modalità non consentite. Sono loro: le mascherine.
Antipolvere, chirurgiche, facenti parte dei dispositivi di protezione individuale. E sono anche in tessuto, ultimamente colorate o con fantasie originali.
Oggi sappiamo che vanno indossate, sono obbligatorie negli spazi confinati o all’aperto in cui non è possibile o non è garantito il distanziamento fisico. In alcune regioni l’obbligatorietà è stata estesa anche ad altri contesti. A spiegare come usarle in maniera dettagliata è l’Istituto Superiore di Sanità.
Must have considerato accessorio alla moda o colpevole di non consentire il libero respiro. In ogni caso, così come dichiarato dal New York Health Board durante la spagnola del 1918, vale la regola: “Meglio ridicoli, che morti”.
Che cosa centra l’arte in tutto ciò? Si sa, l’arte è l’espressione dei popoli e allora se siamo tutti con la mascherina anche l’arte va in maschera.
O forse no. L’arte va in maschera per dare l’esempio, per lanciare e confermare il messaggio già emanato dalle istituzioni competenti.
Sì, perché pare che non tutti abbiano ancora ben recepito le direttive. E allora? Ecco che anche alcuni modelli simbolo come le statue indossano la mascherina.
Identificative di alcune città, simbolo di libertà, rappresentanti di determinati valori e, perché no, anche di cultura e traduzioni, sono oggi con bocca e naso coperti.
Da Helsinki a Perugia, da Dresda a Santo Domingo, il coronavirus invita tutti a mettere le mascherine. A ricordarcelo in giro per il mondo le statue, che diventano parlanti per lanciare il messaggio: “Hey, ti sei ricordato di indossare la mascherina?”.
E allora, ecco che un gigantesco Buddha in Thailandia dà il buon esempio, coprendo il viso con una mascherina rossa.
In Brasile, il paese più colpito dell’America Latina, sul Cristo Redentore di Rio, invece, sono direttamente proiettati mascherina e hashtag #MascaraSalva (la mascherina salva).
A New York, The Fearless Girl non sembra meno fearless con naso e bocca coperti. Anche il monument simbolo di Bruxelles, il Manneken-Pis, non perde la sua irriverenza indossando la mascherina. E, ancora, la indossano Woody Allen a Oviedo; l’imperatrice Augusta nel complesso Rhineland-Palatinate a Koblenz, in Germania; la Lady con il cagnolino davanti al teatro internazionale Chekhov Sakhalin in Russia; a Seattle la indossa la statua The Electric Lady Studio Guitar di Daryl Smith; la indossano anche le otto statue dorate, rappresentati i diritti dell’uomo, che fiancheggiano Trocadero (Parigi); stessa mascherina per Freddie Mercury a Montreaux, in Svizzera.
L’iconica Marylin Monroe di Seward Johnson nel Maryland è sicuramente indimenticabile, con la classica gonna al vento e naso e bocca coperti.
Lo stesso vale per il toro di Arturo Di Modica nel distretto finanziario di New York.
Per le statue italiane, la indossano le sfingi della Fontana del Seguro di Piazza Mercato a Napoli; Mike Bongiorno a pochi passi dal Teatro Ariston ne indossa una con la scritta “Allegria! E il virus va via”. E la cosa non può far altro che strappare un sorriso; a Barletta, Eraclio, statua di quattro metri e mezzo ne ha indossata una per qualche ora, per essere poi rimossa.
Le mascherine sono diventate, dunque, un accessorio imprescindibile nella nostra quotidianità. In un primo momento si derideva bonariamente chiunque le indossasse in aeroporto o in viaggio nelle città turistiche, oggi se ne riconosce l’utilità.
E, allora, la prossima volta che vi sentite sciocchi o frustati per averla indossata in pubblico, chiudete gli occhi e immaginate di essere un’opera d’arte. Se proprio va male, sarete a fianco del Cristo Redentore di Rio.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/mascherine-statue.jpg468522Guenda Espositohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGuenda Esposito2020-06-20 12:30:592020-06-22 15:51:33Statue, Coronavirus e Black Lives Matter: come comunicano le piazze
Questa volta, a dividere Italia e Slovenia, c’era una squallida rete metallica, di quelle da cantiere, con appese le solite circolari. Un manifesto ingiallito sulla strada per Jesolo ricorda che nessuno è stato al concerto di James Blunt, il 27 marzo a Padova, e che dopo non ci sono stati altri concerti, né altri manifesti.
Eppure la gente corre verso il mare, in una realtà un po’ sospesa tra il trauma di ciò che è stato e i fantasmi di ciò che sarà.
Foto: David Mazzerelli
Dicono tutti che che dovremo scordarci la vita di prima. Un cartello alla porta di un hotel sul lungomare dice: “Alla prossima stagione!”. I media sono generosi di profezie sul futuro ma scarseggiano i commenti di chi si chiede come mai un virus proveniente dalla Cina abbia trasformato la nostra società in una puntata di Black Mirror.
Tempo di bilanci: quando è stato il momento esatto in cui abbiamo deciso che la sospensione delle libertà fondamentali fosse una cosa accettabile?
Ricordo un libro che avevo letto e un museo che avevo visitato, quattro anni fa. Il libro si chiama “Il Ministero della Paranoia” e il luogo è l’ex Ministero della Sicurezza di Stato, a Berlino. Cerco l’autore, Gianluca Falanga, classe 1977, a Berlino da vent’anni.
Lo trovo, non senza qualche difficoltà (come giusto che sia, dato il suo lavoro, penso tra me e me). Oltre che uno storico, Gianluca è anche è il responsabile dei programmi culturali al museo della Stasi a Berlino Est, all’ex penitenziario della Stasi di Hohenschönhausen e al Memoriale di Lindenstraße a Potsdam.
Fissiamo di sentirci al telefono, mi chiede di anticipargli di cosa parleremo: gli mando due cose su WhatsApp, la prima è un graffito sui muri di Mestre, in cui un geniale writer ha scritto “Covid-1984”. Il secondo è un articolo di Repubblica: “4 italiani su 10 reputano giusta la sospensione della democrazia”.
Gianluca Falanga
Entrambi hanno percepito un’anomalia nel sistema: sia chi ha preso spray e bomboletta sia chi ha risposto al sondaggio. Come mai le conclusioni sono così differenti?
«Il romanzo di Orwell racconta un futuro distopico – sottolinea Gianluca – chi ha fatto quella scritta credo si riferisse all’atmosfera del sospetto da Guerra Fredda, paragonata all’attuale situazione sociale».
Abbiamo trovato la prima analogia tra il mondo della Stasi e il nostro tempo post-Covid? «Il senso del sospetto è sicuramente un elemento inquietante che hanno in comune queste due realtà», conferma Falanga.
Se prima purtroppo la diffidenza era per lo più concentrata verso chi era percepito “diverso” da noi, adesso la stessa diffidenza diventa onnicomprensiva. Non stiamo parlando solo del celebre elicottero di Barbara D’Urso in diretta TV, ma anche della spinta a denunciare il tuo vicino “irresponsabile” ovunque e comunque.
Chi “fa la spia” parte sempre da tre presupposti: che ci sia una convenienza nel farlo (la propria incolumità, in questo caso?), che la legge vigente sia giusta e che il pensarla diversamente sia un atto meritevole di sanzione economica e reprimenda sociale.
«La Stasi questo meccanismo lo conosceva, lo alimentava e ne faceva da regia, generando nelle persone il sospetto e dando loro gli strumenti per alimentarlo. Nei nostri tempi caotici il sospetto è mosso dalla paura: più grande è il caos, più grande è la paura».
Catastrofismo da TG
La narrazione mediatica di questi mesi è sicuramente una delle parti più complesse dell’intera questione. Quel è stato il motivo di questo martellante “mood catastrofistico”? Ragionare solo in termini di copie vendute, audience o click sembra riduttivo.
Il paragone con l’epoca della Stasi stavolta è facile: «Con mio grande stupore – sottolinea Falanga – i media hanno messo in scena un flusso informativo a senso unico con pochissime voci contrarie. È stato interessante anche notare la campagna violenta contro chi organizzava, o anche soltanto dichiarava di voler organizzare, manifestazioni di dissenso».
La comunicazione da “chiudete tutto o moriremo tutti” sembra in contrasto con quello che eravamo abituati a sentire: sacrosante apologie della democrazia, del dissenso e della libera manifestazione di pensiero. Ci avevano ripetuto fino alla nausea che eravamo vaccinati da 70 anni di democrazia, che non avremmo mai più permesso a uno Stato nazionale di violare la nostra libertà. E se anche qualcuno avesse soltanto osato proporlo ci sarebbe stata un’opinione pubblica che si sarebbe opposta in maniera netta.
Falanga è tranchant: «Non credo esistano vaccini per tutto questo. Molte generazioni non hanno mai respirato l’aria di regime, così come altrettanti giornalisti, ma hanno conosciuto timori e insicurezze, ed è proprio nell’insicurezza che germoglia il desiderio di decisioni e personalità forti. Questa narrazione mediatica è figlia della paura e dello smarrimento. A confronto del 2020, il periodo della Guerra Fredda fu un periodo stabile, c’erano gli Euromissili, è vero, ma c’era anche l’ottimismo, che oggi manca».
Barattare la propria libertà
La Stasi deteneva molti tristi record, tra cui la densità di spie tra la popolazione: una ogni 59 cittadini. Una macchina del controllo che andò ben oltre la realizzazione del Grande Fratello orwelliano.
«Quel periodo storico è profondamente diverso dal nostro e le persone lo sono altrettanto, tuttavia mi ha sorpreso la disponibilità della maggioranza nell’accettare scelte così gravose e dirigistiche».
Dopo la pubblicazione del suo libro molte classi di studenti italiani sono andate a Berlino per conoscere la storia della polizia segreta della DDR. «Una persona che cresceva nel socialismo reale era indottrinata fin dalla nascita: veniva spogliata di ogni pensiero critico, cedeva completamente la propria responsabilità individuale allo Stato. E tutto questo era visto come la normalità».
«Quel cittadino aveva uno Stato che prendeva le decisioni al posto suo e pensava al posto suo. In cambio di una casa, di un lavoro, di un’automobile uguale per tutti. Il patto di quelle società oggi può sembrare inquietante ma era molto chiaro».
Stasimuseum
Sintetizzando: se non posso essere libero allora mi dai tutto quello che mi serve. «Già. Oggi invece i Governi hanno detto: chiudi il tuo negozio. E il negoziante si è chiesto: va bene, chiudo, ma in cambio di cosa?».
In cambio di una promessa di salute, lusinga molto più vaga rispetto alla sicurezza contro un nemico esterno, tangibile, visibile, definito. Per questo i paragoni semantici con la guerra sono stati inopportuni: nella crisi del virus cinese mancava sia l’epica che l’estetica di una contrapposizione armata. Dall’era della Guerra Fredda, in cui c’era una divisione manichea della realtà (bene VS male), siamo passati a un improvviso e diffuso senso del sospetto.
«La rinuncia alla libertà ha un prezzo molto alto, questo nella Germania Est lo avevano capito bene ma nella nostra società attuale una base sempre più larga di persone sceglie di abdicare alla comprensione dei fenomeni sociali. Comprendere la realtà che ci circonda è uno sforzo che presuppone delle basi culturali, che non tutti hanno. È più semplice e rassicurante lasciare questo sforzo nelle mani del Governo, seguendone poi le direttive, giuste o sbagliate che siano».
L’algoritmo dei social che crea intorno a ogni bacheca un piccolo mondo è la nostra comfort zone, anche per chi vuole crearsi la propria, personale, verità. «Una verità che spesso è soltanto credulità – aggiunge Gianluca – il lavoro dell’algoritmo, nella Germania socialista, lo faceva il Governo».
Hong Kong come nuova Berlino?
Hong Kong sembra essere l’epicentro di una nuova Guerra Fredda, il movimento che lotta per la libertà e l’autonomia si richiama ai valori occidentali, l’eredità più importante lasciata della Gran Bretagna.
Falanga: «Non vedo la presenza degli americani, non vedo una chiara posizione dell’Occidente a supporto della causa della libertà. C’è Pechino, è vero. Ma la domanda da porsi è: chi vede la Cina come una minaccia? Certamente non l’Europa. Il regime comunista cinese è attivo in maniera espansiva fuori dai propri confini, la politica URSS era invece basata su un filone ideologico».
Insomma, ai cinesi interessano gli affari, non le conversioni.
La ribellione da aperitivo
Il sole e il mare fanno sembrare questa mattina di giugno una normale estate, sono ancora al telefono con Gianluca, gli racconto che i primi a uscire in palese “violazione delle distanze di sicurezza” sono stati i più giovani, stanchi di settimane di lockdown e desiderosi di riprendere in mano la propria vita sociale. Il mio pensiero va a tanti ragazzi dell’Est che negli anni ’80, pur di ascoltare i gruppi rock occidentali, incidevano i dischi proibiti nelle lastre delle radiografie. La musica e la voglia di divertirsi fecero cadere il muro più velocemente. Il mio paragone è appena sussurrato ma Falanga lo coglie. «Ecco un’altra analogia, e non è una questione frivola. Dopo due decenni (’60 e ’70) di “pace militarizzata” negli ’80 i movimenti di opposizione al Governo divennero consistenti. Nell’allora DDR le prime ansie di emancipazione arrivavano appunto dai giovani».
«In Germania all’inizio della quarantena, come risposta alle restrizioni, sono stati organizzati dei grandi party, ovviamente sanzionati dalla polizia. Questa attitudine a non accettare limitazioni delle proprie libertà individuali è positiva e indica una certa vitalità in parte della popolazione, oggi come allora».
Ma cosa rimane di tutto questo?
«Il problema dei più giovani è quello di esprimere questa vitalità in maniera consapevole. C’è l’ansia di ritrovarsi, c’è la spensieratezza, ma poi, cosa rimane una volta tornati a casa? Chi adesso ha 20 o 25 anni mi fa sperare, perché forse sono i primi a capire che, se è vero che non abbiamo una dittatura in Europa, è anche vero che siamo controllati, e che tutta questa arrendevolezza al potere nasce da un senso di impotenza».
Questi mesi ci hanno insegnato che la libertà non è ancora un valore acquisito.«La democrazia e sempre quella ma siamo cambiati noi ed è cambiato il mondo. Dobbiamo imparare a cercarci da soli le risposte – conclude Gianluca – al tempo della Stasi reperire informazioni da diverse fonti e farsi una propria idea sul mondo era un’operazione che metteva a rischio la propria vita, adesso basta uno smartphone. I giovani, tra uno Spritz e l’altro, dovrebbero capirlo e fare sentire la propria voce».
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/WhatsApp-Image-2020-06-09-at-16.25.48.jpeg7201600David Mazzerellihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngDavid Mazzerelli2020-06-19 15:52:442020-06-19 15:53:24L’era della paranoia, intervista a Gianluca Falanga del Museo della Stasi a Berlino
C’è chi, come Oberalp, trasforma i materiali di scarto delle tute da sci in cinture e accessori. Chi, come Loop, realizza packaging riutilizzabili. E chi, come Flowe, si serve di gaming ed educazione finanziaria per spingere le persone ad acquisti più consapevoli e per riforestare il Pianeta.
Esperienze diverse tutte accomunate da una parola: brand activism, ovvero la ricerca di uno scopo, di un impatto positivo sugli altri e sull’ambiente, che superi la mera logica del guadagno.
L’espressione è immortalata in un libro, considerato uno dei testi più importanti sulla materia, “Brand Activism. From purpose to action”, scritto da due guru del marketing come Philip Kotler e Christian Sarkar, per i quali il brand activism è la responsabilità che l’azienda si assume in ambito sociale, con una serie di iniziative volte al raggiungimento di un bene comune.
Dalla teoria alla pratica: abbiamo raccolto cinque esempi di “brand activism” nel mondo, dall’Italia, agli Stati Uniti, fino all’Australia. Li raccontiamo in questo articolo.
1. Oberalp lotta contro i perfluorocarburi
Gruppo storico di Bolzano, nato nel 1846 e specializzato nei prodotti di abbigliamento e attrezzature per sport alpini, da circa un decennio ha deciso di puntare fortemente sulla sostenibilità ambientale. Per farlo ha creato un gruppo di lavoro interno dedicato proprio alla Corporate Social Responsibility, che sta lavorando su più fronti.
La riduzione dei perfluorocarburi (si tratta di composti sintetici molto impiegati nell’abbigliamento sportivo) con un impatto dannoso sull’ambiente: l’azienda ha, per esempio, deciso di non utilizzare fluorocarburi nel 65% della sua produzione. Inoltre, ha puntato sul riutilizzo, trasformando i materiali di scarto delle divise di sci in cinture e altri accessori, e sul riciclo di vecchi appendiabiti, che diventano oggetti di design grazie alla collaborazione con l’Università di Bologna.
2. Burwood Brickworks e i carrelli di bottiglie riciclate
Nato a Melbourne, in Australia, il Burwood Birckworksè il centro commerciale più sostenibile del Pianeta, secondo una classifica di Living Future Institute.
A partire dall’utilizzo dell’acqua, che viene riciclata nell’edificio per il sistema di raffreddamento o per l’irrigazione dell’orto sul tetto, aperto ai visitatori che possono coltivare liberamente verdure e mangiarle. L’elettricità necessaria arriva da pannelli solari e da centri di energia pulita, situati nei pressi della struttura. Nel parcheggio esterno sono installate stazioni di ricarica per auto elettriche. Oltre a soluzioni davvero originali: come il carrello della spesa fatto di bottiglie di latte riciclate.
3. Flowe e la better being economy
Apri un conto via app in otto minuti, ottieni una carta in legno certificato e pianti un albero nella regione del Pèten in Guatemala. Questo e tanto altro è Flowe, la startup guidata da Ivan Mazzoleni, che opera all’interno di BancaMediolanum, il gruppo guidato da Massimo Doris.
L’app fintech, pensata per attrarre i giovanissimi, ambisce a creare un nuovo mercato unendo finanza, educazione, sostenibilità e gaming. Grazie a partnership con altre startup, consente di tracciare l’impatto economico generato dai propri consumi, contribuire alla riforestazione del Pianeta, finanziare progetti idrici in villaggi bisognosi.
“Abbiamo creato un ecosistema, una better being economy, dove l’individuo impara ad avere uno stile di vita più sostenibile, a vivere in armonia con gli altri e con la natura. Il nome stesso del brand e il pittogramma riconducono gli esseri umani a una goccia d’acqua, unica ma parte di un flusso”, spiega Mazzoleni nel giorno della presentazione della startup al Campus Mediolanum, alla presenza del già citato Doris, e di Oscar di Montigny, Chief Innovation, Sustainability & Value Strategy Officer di Banca Mediolanum.
Di Montigny evidenzia nel suo intervento come “Flowe non vuole essere un’azienda, ma una piattaforma, un ecosistema, che aiuta i suoi utenti ad avere consapevolezza dell’impatto dei loro comportamenti sugli altri e sull’ambiente. E sulla base di questa consapevolezza possono migliorarsi continuamente”.
Per coinvolgere un pubblico di giovanissimi, Flowe ha attinto dal linguaggio del gaming. Gli utenti, sulla base di alcune azioni virtuose, ottengono delle gemme, cioè dei punti premio, che possono poi convertire per comprare gift card su Amazon, Decathlon, Media World.
“Rispetto ai competitor abbiamo costruito una dimensione comunitaria, un senso di appartenenza forte che va ben oltre il mondo finanziario. Oggi abbiamo già 15mila utenti sulla piattaforma”, conclude Massimo Doris.
4. Loop e il ritorno del fattorino del latte
“Abbiamo chiesto alle aziende di considerare il packaging come un asset e non come un costo”, spiega a Fast Company, Tom Szaky, imprenditore del New Jersey, fondatore di Loop, specializzata nell’ideazione di packaging riutilizzabili.
Il concetto è un po’ simile a quello del “fattorino del latte” che portava la bevanda in bottiglie di vetro riciclabili direttamente dietro la porta di casa. Il cliente usa il prodotto in un packaging originale e alla fine, quando l’ha consumato, chiama Loop che va a ritirare gratuitamente la confezione, pronta per essere riutilizzata.
L’iniziativa ha già visto l’adesione di brand come Procter & Gamble, Unilever, Mars, Nestlé, PepsiCo e Coca-Cola, tra gli altri.
5. Refurbed rigenera dispositivi elettronici
Innovazione e sviluppo tecnologico devono vivere in totale armonia con la natura. Questo è il credo di Kilian Kaminski, austriaco, ideatore di Refurbed, piattaforma che si occupa di rigenerare e rivendere dispositivi elettronici.
I vecchi telefoni sono riparati, testati, reimballati e rimessi in vendita. Ex Amazon, Kilian ha iniziato sviluppando un programma di vendita per prodotti rigenerati, internamente al gruppo di Jeff Bezos. Ma poi ha compreso che il colosso non aveva interesse a investire nel settore. Allora ha scelto di “mettersi in proprio”.
I numeri gli hanno dato ragione: in tre anni, l’azienda ha superato i 100 mila clienti.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/brand-activism.jpg452596Ninja Partnerhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Partner2020-06-19 14:19:422021-01-05 15:27:065 esempi di Brand Activism da cui trarre ispirazione
L’operazione, volta ad ampliare la gamma dei prodotti “premium” nel canale dei punti vendita rafforza la presenza di Campari in terra di Francia.
L’investimento sembra piacere anche agli azionisti che, attraverso una frenetica attività di compravendita, hanno portato ad un aumento del titolo in Borsa, tutt’ora in crescita ( + 1,80 % rispetto al mese scorso).
L’acquisizione di questo “gioiello” enologico, è il terzo colpo messo a segno dal Gruppo Campari nel primo trimestre 2020, oltre a quello della startup italiana Tannico.
Lo scorso 17 aprile Campari aveva avviato una trattativa con la francese SARL FICOMA, holding familiare di Francis Tribaut, per l’acquisizione di una partecipazione dell’80% e, nel medio termine, della totalità del capitale azionario di SARL Champagne Lallier.
Campari conquista la Francia e il titolo vola in Borsa
L’operazione, volta ad ampliare la gamma dei prodotti “premium” nel canale dei punti vendita on-premise (ritenuto strategico per le attività di brand building), rafforza la presenza di Campari in terra di Francia, dov’è da poco presente con una propria struttura commerciale.
E l’investimento sembra piacere anche agli azionisti che, attraverso una frenetica attività di compravendita, hanno portato ad un aumento del titolo in Borsa, tutt’ora in crescita.
Lallier, un brand storico
A rendere così appetibile il brand Lallier, oltre che la buona reputazione, è anche la sua grande storicità. La Maison infatti, nasce nel 1906 ad Aÿ, per volere di René Lallier e sua moglie, figlia di importanti vigneron francesi. Sono gli anni dell’ascesa per questo straordinario terroir, riconosciuto e classificato nel 1936 come Village “Gran Cru” in Champagne.
Passa il tempo, ed è il turno di René james Lallier – nipote del fondatore – che, deciso a rivoluzionare l’intera linea di produzione, modernizza gli impianti e le cantine, ormai vetuste.
Anziano, René James Lallier, cede l’attività al suo enologo di fiducia, l’allora giovane Francis Tribaut, che ancora oggi riveste il ruolo di managing directorall’interno della società, e continua a dispensare preziosi consigli, forte di una solida esperienza, tra etichette classiche ed esclusive, di cui l’ “Ouvrage” rappresenta la punta di diamante.
Lo Champagne Lallier conserva il proprio posto nell’Olimpo delle bollicine, con una produzione che non supera le 400.000 bottiglie, fedele al celebre motto “less is more”, per un fatturato attorno ai 20 milioni di euro.
L’acquisizione di questo “gioiello” enologico, è il terzo colpo messo a segno dal Gruppo Campari, prima di quella di Tannico, nel primo trimestre 2020, assieme all’acquisto del distributore francese Baron Philippe de Rothschild France Distribution (Rfd) (per 54,6 milioni di euro) e alla joint-venture con la Ct Spirits Japan.
La scelta di uno Champagne, può sembrare lontana dalla logica Campari, focalizzata soprattutto sui superalcolici – che garantiscono un ritorno di gran lunga superiore a quello del vino -, ma in realtà è motivata da ben due elementi: in primo luogo dalla volontà di aumentare la propria quota di mercato in Francia e, in secondo luogo dal fatto che lo Champagne è considerato un prodotto di lusso, capace di fidelizzare il consumatore al marchio.
Il Gruppo Campari continua dunque, a passo veloce, la marcia conquistatrice in Europa, fagocitando icone alcoliche di forte appeal, che porteranno non solo ad una diversificazione dell’offerta, ma anche ad una maggiore copertura del mercato, e quindi ad un ruolo sempre più rilevante nel commercio mondiale degli spirits e non.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/campari.jpg501537Kevin Feragottohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngKevin Feragotto2020-06-19 13:00:262020-06-19 13:00:32Non solo eCommerce, il Gruppo Campari compra Champagne Lallier per 21,8 milioni
Su TikTok è in arrivo un programma a lungo termine che riunisce esperti, associazioni, educatori, creator con abilità e competenze differenti per creare un ecosistema di contenuti di taglio educativo.
Dallo sport alla cucina, dall’arte al lifestyle, dai tutorial ai life hack, i contenuti didattici hanno già totalizzato oltre 225 milioni di visualizzazioni solo in Italia.
Gallerie degli Uffizi, Unione Nazionale Consumatori, i celebri chef Bruno Barbieri e Damiano Carrara, l’associazione no-profit Diversity tra i primi partner.
La piattaforma per video brevi da dispositivi mobili si evolve, andando ad ampliare e diversificare i suoi contenuti con video di taglio educativo e didattico, che si affiancano a quelli di intrattenimento.
La costante condivisione e infusione di conoscenze ha visto un considerevole aumento in piattaforma, specialmente nell’ultimo periodo, conseguenza della naturale evoluzione di TikTok che ha rivelato la sua potenzialità, diventando una sorta di enciclopedia virtuale da tenere comodamente nel palmo della mano, rendendo l’apprendimento accessibile e sfruttando al contempo l’incredibile creatività dei suoi utenti.
Nasce così il programma #ImparaConTikTok, volto a divulgare i video didattici, dalla letteratura allo sport, dalla musica al lifestyle, dalla cucina ai viaggi, fino alle questioni sociali. Sono, infatti, innumerevoli i contenuti condivisi dai creator che coprono una vasta gamma di categorie, tanto che il tag ufficiale conta già oltre 225 milioni di visualizzazioni e nell’ultimo periodo è tra i hashtag più popolari su TikTok.
Chi ha già aderito al programma di TikTok
Un cambio significativo di direzione per TikTok, come ha commentato anche Rich Waterworth, TikTok General Manager EU: “Fin dal suo lancio, nel 2018, TikTok è rapidamente diventata una destinazione di riferimento per l’intrattenimento in video pillole brevi. Ora, il nostro obiettivo è costruire su questa eredità, riunendo sulla stessa piattaforma divertimento e apprendimento, offrendo così alla nostra community un ecosistema ricco e diversificato di contenuti”.
In Italia, tra i primi ad aver accolto con entusiasmo l’iniziativa:
le Gallerie degli Uffizi di Firenze (@uffizigalleries), primo e unico museo italiano a partecipare alla Settimana dei Musei su TikTok con una diretta streaming, che avvicina all’arte con i suoi video ricchi d’inventiva e spiccato senso dell’umorismo anche le generazioni più giovani.
L’Unione Nazionale Consumatori (@massimilianodona) che proprio in questi giorni con #cucinasenzasprechi sta favorendo la conoscenza del tema dello spreco alimentare su TikTok.
L’associazione no-profit Diversity, presieduta da Francesca Vecchioni, che attraverso i video di TikTok promuoverà la valenza positiva della diversità, una concezione del mondo che valorizzi appieno l’importanza delle differenze e della molteplicità, patrimonio prezioso per tutti e tutte.
Si aggiungono anche alcune delle celeb più popolari su TikTok che già realizzano i contenuti didattici nel proprio stile personale ed inconfondibile, come gli chef Bruno Barbieri e Damiano Carrara.
Tra i creator più amati e rappresentati di #ImparaConTikTok c’è Aurora Cavallo, meglio nota come @cooker.girl: soli 18 anni, ma una passione travolgente per il mondo della cucina condivisa in brevi pillole da 60 secondi che le hanno permesso di avere un seguito di oltre 150 mila follower in pochi mesi.
Marco Martinelli, @marcoilgiallino, scienziato e cantante, rende la scienza e la chimica semplice e accattivante, mostrando curiosità e semplici esperimenti da rifare a casa.
Sulla piattaforma trovano spazio anche contenuti volti all’insegnamento e alla scoperta delle lingue straniere: le porte della Cina e della cultura cinese si spalancano con i video di Liz (@lizsupermais), mentre sono Norma (@normasteaching) e The Cool Professor (@thecoolprofessor) a svelare i segreti dell’inglese.
Lucia Andreoli (@luciaandreoli), invece, trasforma stoffe e vecchi tessuti in splendidi abiti:così anche il cucito viene riscoperto diventando la più social e affascinante delle materie.
“Vorremmo che le persone arrivassero su TikTok non solo per il divertimento, ma per imparare qualcosa di nuovo, acquisire una nuova abilità o semplicemente essere ispirati a fare qualcosa di nuovo, che non avevano mai fatto prima”, aggiunge Rich Waterworth.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/tiktok.jpg552827Company Newshttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCompany News2020-06-18 17:26:102020-06-18 17:30:52Nasce #ImparaConTikTok, il programma che unisce apprendimento e divertimento
Nel momento in cui le proteste infiammano gli Stati Uniti e il mondo intero, nell’occhio del ciclone sono finiti anche noti brand.
Aunt Jemina, Uncle Ben e Cream of Wheat da sempre utilizzano “testimonial” afroamericani stereotipati.
Queste immagini sorridenti e compiacenti servirono agli albori dei marchi per edulcorare la realtà della schiavitù.
Nel momento in cui sto scrivendo questo post, sui social ha trovato terra fertile una nuova ondata di sgomento: HBO Max ritira“Via col Vento” – momentaneamente e per permettere l’inserimento un disclaimer che sia in grado di contestualizzare l’epoca storica nel quale è ambientato il film (che probabilmente verrà fatto da un esperto di storia e cultura afroamericana) – un classicone della filmografia mondiale.
La decisione del broadcaster è dovuta all’impatto globale che hanno avuto l’insensato omicidio di George Floyd e le manifestazioni mondiali nate in seno al movimento attivista internazionale Black Lives Matter (movimento che non nasce dall’omicidio Floyd ma in risposta all’assoluzione dell’assassino di Trayvon Martin, vi rimando al sito ufficiale dell’associazione per conoscerne meglio la storia).
Sotto accusa anche le opere d’arte: primo bersaglio diverse statue di schiavisti e coloni che sono state abbattute negli U.S.A. (anche quella di Cristoforo Colombo) e nuovi bersagli in tutto il mondo. A Milano viene messa in discussione (e imbrattata) la statua di Indro Montanelli, ubicata nel parco stesso che porta il suo nome, mentre a Londra pare abbiano già messo sotto teca protettiva quella di Winston Churchill in attesa delle prossime manifestazioni.
Ma mentre il dibattito verte su censura vs atto obbligato, il problema razziale nella cultura e nell’intrattenimento si esaurisce qui?
Personalmente ritengo che la storia non vada né revisionata né cancellata; sarà banale ma da lei si può solo imparare e migliorare, ma per farlo bisogna conoscerla. E l’intento di questo post non è quello di sposare uno schieramento ma fare luce proprio sulla storia di tre particolari loghi.
Alla fine la pubblicità è anche cultura, quella in cui nasce e quella che crea.
Cosa succede nella comunicazione dei brand?
Nei giorni scorsi molti brand, nazionali, internazionali, grandi o piccoli hanno preso posizione soprattutto sui social, dove (spesso senza contesto e slegati da qualsiasi narrazione di marca) sono state pubblicate immagini completamente nere, a sostegno della protesta.
E mentre la catena di supermercati svizzera Migros ritira dagli scaffali i “Moretti”, c’è anche chi con la “nostalgia” e sulla mitizzazione decontestualizzata dei suoi testimonial, soprattutto sugli scaffali dei mass market, continua a contribuire alla consistenza di alcuni brand.
C’è chi cambia e chi no: da Land O’Lake ad Aunt Jemina
Il brand Land O’Lakes ha scelto di eliminare la donna nativa americana che offre del burro dal suo logo, segnando la fine di una testimonial controversa con quasi 100 anni di storia alle spalle, eliminando una “testimonial scomoda”, soprattutto alla luce della sempre maggiore presa di coscienza da parte del pubblico.
Ma quelli che probabilmente sono gli esempi più eclatanti di testimonial che potrebbero (o dovrebbero?) essere discussi sono tre: Aunt Jemina, Cream of Wheat e Uncle Ben, brand creati in un anfratto della storia, tra la Guerra Civile americana e il Civil Right Act.
Scott vs. Sandford: quando stereotipo e discriminazione nascono in un’aula di tribunale
Facciamo un passo indietro: perché questi tre brand dovrebbero essere incriminati, perché utilizzano testimonial di colore? No, è perché hanno pescato a piene mani negli stereotipi razziali, tutto in regola e con il pieno favore della legge.
Secondo un post pubblicato nel blog dello Smithsonian National Museum of African American History and Culture, l’incentivo all’utilizzo di figure caricaturali nella cultura popolare a danno della comunità afroamericana (inclusa la Mami interpretata da Hattie McDaniel e della quale Aunt Jemina è un’omologa), affonda le sue radici nelle aule di un tribunale.
Gli stereotipi sugli afroamericani sarebbero infatti cresciuti dopo la decisione – nel 1857 – del giudice della Corte Suprema Roger B. Taney, che nel caso “Dred Scott vs. Jhon F.A. Sandford”, sentenziò che le persone di origine africana non fossero cittadini statunitensi e non avessero diritto di adire a un tribunale federale.
La storia di Aunt Jemina
Ieri, , stando a quanto riportato da Usa Today, la Quacker Oats, proprietaria del brand, ha ritirato dal mercato il logo che – per sua stessa ammissione – rappresenta uno stereotipo razzista.
“Zia Jemina” è una vera e propria istituzione in America che nasce dalla tradizione orale, e che è stata resa popolare dagli spettacoli per menestrelli dopo la Guerra Civile.
Marilyn Kern-Foxworth nel suo libro “Aunt Jemina, Uncle Ben and Rastus, Black in advertising, Yesterday, Today and Tomorrow”, scrive proprio che uno dei soci fondatori di Aunt Jemina ne sentì la storia da un menestrello nel 1889.
Vista la sua data di nascita possiamo dire che questo è il capostipite dei tre brand dei quali vogliamo parlare, e quello con il seguito più interessante: come si diceva qualche riga più in lato, Aunt Jemina rappresenta lo stereotipo della governante-nutrice di colore, la stessa Mami di Via col Vento.
Il personaggio venne interpretato per la prima volta nel 1890 da Nancy Green, che il Brand descriveva come una “narratrice, una cuoca e una lavoratrice”, sorvolando sul fatto che fosse nata schiava nel Kentucky del 1834.
Successivamente il ruolo venne affidato ad altre donne: Anna Robinson, il cui retroscena è poco chiaro ma pare che il brand dichiarò che dopo aver viaggiato negli Stati Uniti in lungo e in largo fosse stata i grado di acquistare una casa da 22 camere (ha fatto i soldi insomma), a cui seguirono altre donne per poi arrivare all’attrice Aylene Lewis, che veste i panni di Aunt Jemina in un ristorante del Brand a Disneyland dove “serve” frittelle e “posa” per le foto con gli ospiti.
…E Mrs. Butterworth’s?
Strano, è anche lei una governante, tenera, sorridente e di colore. Ed anche lei è immortalata su una bottiglia di sciroppo per pancake, di un brand facente parte del colosso CPG Unilever che lo acquistò nel 1961 e più recentemente passata sotto il controllo di Conagra.
Interpellati pochi mesi fa da AdWeek, in una mail di risposta Dan Skinner – responsabile della comunicazione del brand – scriveva: “Non abbiamo mai discusso della razza, della religione o dell’etnia di Mrs. Butterworth’s, se non per dire che è materna e conosciuta in tutto il mondo per il suo delizioso sciroppo”. (Nel momento in cui questo post è stato redatto pare che anche Mrs. Butterworth’s sarà ritirato dal mercato o subirà un rebranding).
Cream of Wheat
Passarono pochi anni dalla nascita di Aunt Jemina quando un brand di cereali, Cream of Wheat, iniziò a usare un’immagine molto simile per sponsorizzare il suo prodotto.
In un post del 2013, Kirsten Delegard co-founder del Mapping Prejudice Project presso l’Università del Minnesota, dichiara che Emery Mapes, il fondatore di Cream of Wheat, disegnò la sua confezione scegliendo come modello un ex schiavo, “Rastus”, fondamentale per il successo di questo prodotto.
Ma dell’immagine controversa utilizzata da Cream of Wheat ne parlò, in un saggio del 2000, anche David Pilgrim – professore di Sociologia alla Ferris State University – nel quale afferma che Mapes, ex tipografo, trovò l’immagine di un cuoco nero in un vecchio album. Solo negli anni ’20 del secolo scorso, Mapes diede 5 dollari ad un cameriere di colore perché posasse per il suo logo.
Lo Chef di Cream of Wheat è sicuramente la rappresentazione stereotipata più longeva di quello che viene chiamato “lo Zio Tom”, risalente al romanzo del 1852 La capanna dello Zio Tom.
Molto interessante quello che lo Smithsonian scrive in merito:
Lo stereotipo dello Zio Tom ha una natura sottomessa, obbediente e in cerca della costante approvazione bianca.
Nel suo saggio Pilgrim aggiunge che la caricatura di Tom, come quella di Mami, nasce nel periodo pre-bellico in difesa della schiavitù.
Come potrebbe essere sbagliata la schiavitù – sostennero i suoi sostenitori – se i servi neri, i maschi (Tom) e le femmine (Mami), se sono così felici e leali? – David Pilgrim
Ed è proprio questo il punto fondamentale, quello a cui dobbiamo puntare non è il revisionismo odierno ma quello che è stato fatto in passato per “rendere più piacevole”, appianare il disgusto, di fronte ad uno degli atti peggiori compiuti dall’umanità.
Uncle Ben
Secondo il brand, il nome “Uncle Ben” venne adottato nel 1946, solo quattro anni dopo che Forrest Mars – figlio di Frank Mars, il magnate americano che fondò l’omonima compagnia – acquistò i diritti per un riso parboiled facile da cucinare.
Sul sito ufficiale “il nome dello zio Ben deriva da un contadino nero texano, conosciuto appunto come Zio Ben, che coltivava riso così bene che la gente lo rese uno standard d’eccellenza. Il signore così orgoglioso e dignitoso che ha impersonificato i nostri prodotti era un amato Chef e cameriere di Chicago che si chiamava Frank Brown”.
Anche in questo caso, la storia però dipinge un quadro nettamente diverso: Ronald LF Davis, professore alla California State University, Northridge, nel suo articolo “Racial Etiquette: The Racial Customs and Rules of Racial Behaviour in Jim Crow America”, fa notare come gli uomini di colore fossero chiamati “Boy”, “Uncle” e “Old Man” per “indicarne l’inferiorità durante l’era di Jim Crow”, periodo di segregazione e discriminazione seguito alla Guerra Civile e che perdurò fino al Civil Right Act del 1964.
Oltre al naming, il New York Times sottolinea che la raffigurazione di Uncle Ben, munito di papillon evocava i servi e i facchini dei pullman, tutti uomini afroamericani, alcuni di loro ex schiavi, che servirono i passeggeri bianchi sui vagoni ferroviari dal 1860 al 1960.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/Black-Lives-Matter-anche-in-pubblicità-o-ci-sono-ancora-brand-in-odore-di-nostalgia_aunt-jemina.jpg8001600Roberta Leonehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngRoberta Leone2020-06-18 13:12:072020-06-22 21:59:59Black Lives Matter, brand e pubblicità: chi è pronto a cambiare (e chi no)
Coca-Cola ha firmato come partner di lancio esclusivo di #BeApp, una nuova piattaforma di streaming musicale che integra elementi di gaming e social media nell’esperienza di virtual concert-viewing.
L’app ospita le Coke Studio Sessions, una serie performance di artisti di alto profilo come Katy Perry, Miguel, Steve Aoki.
Con questa partnership, Coca-Cola cerca di prendere il controllo di quello che potrebbe essere uno dei principali trend globali: l’interesse crescente per i concerti virtuali.
Recentemente, Coca-Cola e #BeApp, una nuova piattaforma di virtual concert-viewing,hanno annunciato il lancio delle Coke Studio Sessions, un progetto esclusivo di spettacoli musicali in streaming per sessanta giorni consecutivi.
Le performance coinvolgono oltre 100 artisti in tutto il mondo, tra cui Katy Perry, Anitta, DJ Khaled, Bebe Rexha, Miguele Steve Aoki.
Alla scoperta di #BeApp
#BeApp è una nuova piattaforma di social streaming che democratizza l’accesso live alle performance dei migliori artisti, e ai più grandi spettacoli e show musicali, portando le star più amate direttamente a casa del pubblico, in una sorta di salotto virtuale globale.
Scaricabile gratuitamente, l’app consente di sintonizzarsi su una serie di esperienze virtuali immersive, paragonabili a quelle dei concerti e dei festival dal vivo.
Essa, inoltre, integra elementi di gaming e social media al livestreaming, consentendo agli utenti di divertirsi, fare acquisti, donazioni e interagire con i loro artisti preferiti.
Tra le principali funzionalità accessorie di #BeApp, ricordiamo:
Condivisione in-app – una funzione di condivisione che incoraggia gli utenti a invitare amici e parenti a unirsi a loro durante il livestreaming dei concerti.
Valuta / Punti – le interazioni e le condivisioni su #BeApp fanno guadagnare agli utenti punti e valuta in-app che possono essere riscattati attraverso premi, upgrade di funzionalità e molto altro. Tra i premi, i “posti in prima fila”, che offrono ai fan una maggiore presenza digitale durante il livestreaming.
Donazioni – il pubblico ha la possibilità di fare una donazione al Movimento internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa per sostenere la battaglia contro il Covid-19.
L’impegno contro il Covid-19
Secondo il co-fondatore Ray Smith, “#BeApp è stato progettato per connettere gli amanti della musica e dei concertidal vivo. Le persone hanno bisogno di quella connessione ora più che mai”.
Ricardo Fort di Coca-Cola ha dichiarato: “Molti potrebbero sentirsi soli o isolati a causa della pandemia. Noi ci siamo impegnati a rafforzare lo spirito umano e favorire la connessione in un periodo difficile. Con 60 giorni di contenuti musicali live interattivi, i fan possono divertirsi e condividere le proprie esperienze. Il nostro auspicio è che le Coke Studio Sessions siano piccoli momenti di intrattenimento quotidiano per coloro che attraversano la fase del new normal”.
Durante tutto il periodo di programmazione delle performance, i fan avranno l’opportunità di fare donazioni al Movimento Internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna Rossa per sostenere la lotta contro il Covid-19.
A tal fine, Coca-Cola Foundation ha già donato oltre 14 milioni di dollari in tutto il mondo, a cui si aggiungono le donazioni degli utenti che finora si attestano su un totale collettivo di 3 milioni di dollari.
La scommessa di Coca-Cola
Con l’esclusiva partnership, Coca-Cola punta in modo chiaro su quello che è oggi dei principali trend globali.
L’emergenza Covid-19 ha portato alla sospensione di concerti e festival musicali. Per questo, sempre più artisti fanno ricorso alle app di streaming per coinvolgere i propri fan, aprendo nuove opportunità sia per le piattaforme in sé che per gli esperti di marketing.
Una testimonianza dell’esplosione di questo trend è la recente iniziativa promossa da Budwiser, “Rewind”, una serie di concerti interattivi live su YouTube.
Un progetto che si concentra su artisti come The Black Eyed Pease incoraggia gli spettatori a fare richieste di canzoni e porre domande alle band attraverso il social media.
Dall’altra parte, l’intento di #BeApp è quello di cogliere i frutti del recente fenomeno di transizione verso spazi digitali di aggregazione e dell’incremento nell’uso dei social media registrato durante la crisi sanitaria globale.
L’accordo rientra nel novero degli “esperimenti digitali” in cui Coca-Cola potrebbe investire di più, in un momento storico in cui le sponsorizzazioni delle partite e dei concerti dal vivo sono sospese.
Allo stato attuale, le previsioni sul successo di #BeApp non sono facili. Molte recensioni sull’App Store di Apple sono positive, tuttavia alcuni ne criticano l’interfaccia, poco user-friendly.
Gli artisti di fama internazionale che partecipano alle Coke Studio Sessions potrebbero essere la chiave per attirare i fan affamati di contenuti e per cavalcare l’onda dell’interesse crescente per i concerti virtuali.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/BeApp-1.jpg5761024Giulia Migliettahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGiulia Miglietta2020-06-17 16:59:432020-06-17 16:59:46Coca-Cola punta sui concerti virtuali grazie alla partnership con #BeApp
Lo streaming diventerà il nuovo modo di consumare i contenuti.
Anche per lo Smart Working, una volta che i lavoratori avranno un assaggio di cosa significa davvero e i dirigenti vedranno che i dipendenti saranno più produttivi, diventerà la nuova normalità.
L’emergenza COVID-19 lascerà un segno enorme su come consumiamo, come impariamo, come lavoriamo e come socializziamo e comunichiamo, grazie all’uso che abbiamo fatto della tecnologia durante l’emergenza.
I cambiamenti che stiamo vivendo in questo periodo di ripartenza sono molteplici. Molte di quelle che erano le nostre abitudini sono state stravolte, a partire dal tempo libero, e dal lavoro.
A causa del virus, tutti i cambiamenti già in atto hanno subito un’accelerazione. Internet è diventato sempre più fondamentale per far fronte alla pandemia, e quando tutto questo sarà finito, saremo più dipendenti che mai dall’essere connessi.
Dall’inizio del lockdown le nostre esigenze sono cambiate, lo ha sottolineato Think with Google, che indica che ad oggi le ricerche fatte dai consumatori sono più “sofisticate”.
Le persone si sono adattate alla nuova quotidianità, sfruttando maggiormente quelli che sono gli spazi casalinghi.
Poco più di un secolo fa, un mondo molto meno connesso ha subito una pandemia simile e ne è uscito cambiato. L’influenza spagnola del 1918 ha infettato 500 milioni di persone, ucciso 50 milioni e confinato le persone nelle loro case.
Ciò ha avuto un profondo effetto sulla medicina, in particolare sullo studio e il trattamento dei virus, che erano noti, ma non ben compresi. All’epoca, la maggior parte degli scienziati credeva che l’influenza fosse causata da batteri, ha affermato Laura F. Spinney, autrice di Pale Rider: The Spanish Flu of 1918 and How It Changed The World. La devastazione dell’influenza ha dato origine ai sistemi di medicina socializzata in Europa, così come al sistema basato sulle assicurazioni negli Stati Uniti.
Mentre è ancora troppo presto per valutare il danno causato da questa pandemia globale a livello sanitario e medico, è già evidente che cambierà in modo permanente il modo in cui la società funziona. Dal suo impatto sull’economia globale alle nostre vite quotidiane, COVID-19 lascerà un segno enorme su come consumiamo, come impariamo, come lavoriamo e come socializziamo e comunichiamo.
Il Coronavirus viene già considerato il momento più impattante di questa generazione e avrà un effetto duraturo. Molti di questi cambiamenti riguardano la tecnologia connessa. Lo streaming è diventato il nuovo modo di consumare i contenuti.
Più di tutte saranno tre le aree maggiormente cambiate da questa pandemia: lavoro, istruzione e intrattenimento. Proviamo quindi ad analizzare come la tecnologia ha supportato questi settori e soprattutto come in futuro ci verrà in aiuto.
Lavoro
Come strategia per contenere le persone potenzialmente infette e impedire che il virus si diffonda ulteriormente, le aziende e le scuole hanno fatto affidamento su Internet. Dall’apprendimento online al telelavoro, molti aspetti della nostra vita quotidiana che erano soliti coinvolgere i contatti faccia a faccia verranno spostati nel cyberspazio. Questo passaggio al lavoro basato su Internet presenta vantaggi, sfide e numerose opportunità.
In Italia prima dell’arrivo della pandemia l’Osservatorio del politecnico di Milano censiva 570.000 persone che lavoravano in smart working, indicando però che quelli potenziali sarebbero stati circa 5 milioni.
A conferma di questo, il grafico sottostante ci mostra la forza lavoro europea che saltuariamente svolge attività da casa in percentuale rispetto all’occupazione totale, e possiamo notare come l’Italia sia in una posizione molto bassa.
Dopo l’esplosione del virus i numeri delle persone che hanno iniziato a lavorare da casa sono aumentati moltissimo nel giro di qualche settimana.
L’utilizzo di questa metodologia di lavoro è stata resa possibile, grazie anche a diverse piattaforme virtuali: Zoom, Slack e Skype, per citarne alcune.
Alcuni vantaggi del lavorare da remoto sono un amento della produttività, in quanto viene dichiarato che la concentrazione aumenta, il risparmio di tempo, non dovendosi spostare.
Quello che emerge è che la soddisfazione maggiore si ha nel momento in cui si può alternare il lavoro da remoto a quello in cui ci si può recare in ufficio. Infatti uno degli svantaggi è la mancanza di relazioni dirette con i colleghi, e in alcuni casi aumenta la sensazione di isolamento.
In realtà per sopperire a questo la tecnologia ha potuto arginare questa situazione usando sistemi di teleconferenza.
In questo ambito i manager maniaci del controllo e i dirigenti legati alla tradizione stanno imparando che lo smart working non è il male in termini di produttività.
Ce ne parla Matt Mullenweg, fondatore di Automattic, la società dietro la piattaforma di blog WordPress. Mullenweg è diventato uno dei principali sostenitori del lavoro da remoto, in cui i dipendenti sono autorizzati a lavorare ovunque si trovino. La sua azienda non ha mai avuto un quartier generale fisico, sebbene i dipendenti si riuniscano una volta all’anno.
Sebbene Mullenweg sia il primo a sostenere questo modo di lavorare, non è così che immaginava che la rivoluzione del lavoro in smart working prendesse piede.
Questi sono tempi anormali, le persone fanno fatica a lavorare da casa, in quanto la situazione è davvero estrema. I bambini sono a casa da scuola e bisogna, ovviamente, dedicagli molto tempo. Siamo preoccupati per i nostri cari. Anche quando si lavora da casa, la migliore pratica è uscire e socializzare. Questa situazione, non lo permette.
Detto questo, Mullenweg ritiene che questo sia un punto di svolta per il lavoro da remoto. Una volta che i lavoratori ne avranno un assaggio e i dirigenti vedranno che, sì, i dipendenti sono spesso più produttivi, diventerà la nuova normalità.
Per alcune aziende, il telelavoro può essere un vantaggio per i loro profitti. Immagina una società in grado di gestire tutto il lavoro da casa. Non è necessario affittare spazi per uffici di grandi dimensioni. Non c’è bisogno di lunghi spostamenti. Orari flessibili e lavoro in pigiama (o qualsiasi cosa tu voglia indossare). Con il telelavoro, puoi assumere un gruppo di dipendenti geograficamente diversificato senza preoccuparti di dove alloggiarli o trasferirli.
Questa situazione potrebbe rappresentare un futuro diverso anche quando la pandemia sarà finita?
Istruzione
La chiusura delle scuole, come sappiamo, è stata una delle prime azioni messe in atto contro il Covid-19. Ciò ha colto impreparato il sistema scolastico, che ha catapultato tutti gli insegnanti nel mondo delle lezioni a distanza.
Molti insegnanti, hanno cercato di padroneggiare gli strumenti per la didattica online e di fornire supporto tecnico a genitori e studenti che non hanno familiarità con la tecnologia.
In termini di istruzione, l’apprendimento online presenta alcuni vantaggi. Per molto tempo, scuole e università hanno resistito all’istruzione online e sono state considerate inferiori.
Tuttavia, con un virus in rapida diffusione e strutture piene di persone a stretto contatto, le scuole non hanno avuto altra scelta che passare alle lezioni online come soluzione alternativa, seppure temporanea. Consentendo agli studenti di imparare da casa, le scuole come le università possono permettere a più studenti di frequentare la stessa classe contemporaneamente, mentre gli studenti che hanno perso delle lezioni per qualsiasi motivo possono compensare con lo streaming video.
La didattica online non è la soluzione a tutti i mali della scuola pubblica italiana, i rischi sono comunque tanti, ad esempio: l’insegnante che parla per tutto il tempo senza riuscire ad interagire con i suoi alunni, una classe virtuale che potenzialmente, potrebbe distrarsi più spesso, senza tener conto del bisogno di interazione con i compagni di classe.
In questo contesto diventa fondamentale avere infrastrutture e alfabetizzazione digitale sia degli studenti che dei docenti.
Ora è importante passare da uno stato di emergenza dell’istruzione a distanza a quello di vederlo come un’opportunità per ripensare al processo di insegnamento.
Come molti stanno scoprendo, non si tratta di padroneggiare la tecnologia, si tratta di come si insegna.
Intrattenimento
Come già sottolineato lo streaming è stato il protagonista di questo lockdown, in questi mesi ci sono state alcune app che hanno fatto da padrone, troviamo Tik Tok, zoom, Disney+, l’app di Nike training, Netflix e Telegram.
Serie tv e film sono stati per molti di compagnia e non è strano che gli utenti registrati siano aumentati negli ultimi mesi. Eclatante è stato il caso della piattaforma Disney+ lanciata a marzo che ha visto un iscrizione da parte dei consumatori molto più alta di quello che era stato previsto.
A dover far i conti con questa situazione è sicuramente il settore dell’intrattenimento che dovrà effettuare non pochi cambi per poter adeguarsi allo stile di vita post pandemia. Gli eventi dovranno essere più piccoli e gestiti in modo diverso, in questo senso dovrà avvenire una vera e propria rivoluzione. Nei cinema e teatro si stima che ci sarà una riduzione di affluenza compresa tra il 40 e 60% imposte dalle norme di sicurezza e il distanziamento.
Il cinema in particolare stava già vivendo un momento di transizione e di cambiamento, in parte dovuto all’aumento costante delle piattaforme streaming, che trasmettono contenuti appena usciti dai cinema. Come è successo per gli altri settori, il virus ha accelerato un cambiamento che comunque sarebbe avvenuto in un prossimo futuro. Incisivo è stato il caso di Trolls World Tour, un cartone firmato Dreamworks, atteso soprattutto dai più piccoli, in uscita al cinema a inizio aprile. Non potendo ovviamente essere trasmesso al cinema è stato reso disponibile in digitale comodamente da casa.
Lo streaming di contenuti online è diventato molto popolare negli ultimi dieci anni. Man mano che i cinema chiudono e gli eventi dal vivo vengono cancellati di fronte a una pandemia globale, lo streaming diventerà un modo ancora più critico e dominante per fornire contenuti al consumatore. Dai concerti agli eventi sportivi, quelli che una volta erano considerati eventi principali per il grande pubblico di persona saranno costretti a trasmetterli in streaming ai fan di casa.
Sebbene gli eventi live dopo l’attuale crisi torneranno, si prevede che più fan e consumatori rimarranno invece nel comfort delle proprie case e guarderanno eventi che vengono trasmessi in streaming o in live invece di pagare biglietti costosi, alloggi. Lo streaming di film a casa, già un’opzione in uso, aumenterà di popolarità, con aziende come Netflix e Disney che ne trarranno vantaggio. Allo stesso tempo, l’industria dell’intrattenimento dal vivo e le attività teatrali ne risentiranno.
Cosa resterà della tecnologia dopo l’emergenza
Per preservare le connessioni umane, internet è uno strumento essenziale. Grazie ad esso, l’apprendimento online, lo streaming e il telelavoro sono tutte tecnologie disponibili.
In questo ultimo periodo molti servizi online sono diventati sempre più abituali, come effettuare pagamenti online, frequentare corsi da remoto, e video di attività fisica. Senza dimenticare l’incremento dello smart working che in molti casi migliora la qualità della vita e riduce l’impatto ambientale.
Sfortunatamente, affinché tutti questi metodi siano implementati in modo appropriato, dobbiamo disporre di una rete in grado di sostenere tale larghezza di banda e, per molti l’infrastruttura è gravemente carente.
Mentre molti di noi che vivono in città dispongono di Wi-Fi e Internet ad alta velocità, le persone che vivono in aree rurali non lo hanno, ciò provoca un potenziale divario di informazioni in tempi di crisi. Inoltre, gli adulti più anziani la cui sopravvivenza dipende da informazioni adeguate non sono in grado di navigare online, rendendoli vulnerabili ad informazioni false.
Gli studenti meno abbienti potrebbero non avere la tecnologia necessaria per partecipare ai corsi online e alcuni lavoratori potrebbero non avere le connessioni per il telelavoro. Per riparare questo divario informativo, il governo e le imprese private dovrebbero investire per estendere la copertura della rete domestica a milioni di persone a un costo accessibile.
Indipendentemente dalla durata e dalla gravità della pandemia a livello globale, tutto questo avrà un impatto duraturo sulla nostra società, ed è evidente come il supporto della tecnologia sia fondamentale per lo stile di vita che avremo dopo questa pandemia.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/cosa-resta-della-tecnologia-dopo-lemergenza.jpg460690Silvia Senesehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngSilvia Senese2020-06-17 13:18:542020-06-17 16:08:10L'eredità tecnologica dell’emergenza aiuta persone e aziende a ripartire
In un Pride Month 2020 all’insegna del social distancing, senza eventi e parate, i grandi brand danno sfogo alla loro creatività con limited edition a tema.
Molte delle collezioni per il mese del Pride sono parte di più ampi progetti per il sostegno attivo da parte delle aziende alla lotta per i diritti della comunità LGBTQIA+.
Inizia il mese dedicato ai diritti della comunità LGBTQ+, che per la prima volta dopo anni non vedrà le strade delle grandi città riempirsi di persone per celebrare l’orgoglio omosessuale, nel rispetto del social distancing.
Ma come ogni anno, anche in questo giugno 2020 i brand tornano a celebrare l’amore in tutte le sue forme tingendosi dei colori dell’arcobaleno.
Abbigliamento, accessori, scarpe: sono tantissime le creazioni in edizione limitata lanciate dai grandi nomi del fashion e dello sportswear a supporto della comunità omo-lesbo-bi-trans.
Il Pride month 2020 visto dai brand
Adidas
Il colosso tedesco di abbigliamento sportivo apre il Pride month 2020 con il lancio di un Pride Pack contenente una rivisitazione arcobaleno delle sue calzature best seller: Superstar, NMD R1, Ultra Boost S&L, Nite Jogger, Stan Smith e Carrera Low, quest’ultima in duplice versione.
Siamo orgogliosi e impenitenti e vi incoraggiamo a essere come noi. L’amore unisce.
Alle sneakers, Adidas aggiunge una release delle amatissime ciabatte Adilette, in versione nera e con il logo Trefoil con texture colorata.
Lo stesso logo lo ritroviamo sulle t-shirt della collezione clothing a tema Pride, composta anche da shorts, calzini, felpe e leggings, molti dei quali già disponibili sull’e-commerce ufficiale, altri coming sono.
Con la Pride Collection, Adidas riconferma il suo impegno a favore della comunità LGBTQIA+; il brand, infatti, sostiene regolarmente da anni il Trevor Project, la più grande organizzazione mondiale di prevenzione del suicidio e di supporto psicologico per i giovani della comunità.
Banana Republic
Dagli abiti alle calze, passando anche per le t-shirt, la collezione Pride di Banana Republic conta in tutto 19 pezzi disponibili sull’e-commerce ufficiale, riconfermando l’impegno del brand nella difesa dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transgender.
La Pride Collection non è l’unica iniziativa del brand a favore della comunità LGBTQIA+: Banana Republic ha fatto una donazione di 60 mila dollari ad una campagna d’informazione delle Nazioni Unite Free & Equal per la promozione del progresso in fatto di diritti umani.
Nike
Con la collezione di sneaker e abbigliamentoNike BETRUE, disponibile a partire dal 19 giugno su nike.com e presso rivenditori selezionati, anche il colosso americano supporta la comunità LGBTQIA+.
Le calzature rivisitate in chiave BETRUE sono le Nike Air Max 2090, le Nike Air Deschutz e, sopratutto, le Nike Air Force 1, vere protagoniste della collezione, con il marchio sul tallone dei 10 colori della bandiera More Color, More Pride.
Come annunciato dall’azienda, Nike dichiara pubblicamente il suo impegno a supporto di più di 20 associazioni locali e nazionali, per promuovere l’inclusione e combattere le discriminazioni degli atleti LGBTQIA+ nel mondo dello sport.
New Balance
Fuori dal 22 maggio, la Pride collection di New Balance, composta da due versioni delle sue FuelCell Echo, una da uomo in blu e una da donna verde acqua, e da una coloratissima release della sua iconica 327.
Entrambi i modelli FuelCell Echo sono caratterizzati da pannelli oleografici sul tallone e i colori dell’arcobaleno sulla metà posteriore.
Anche New Balance non si limita alle scarpe, ma affianca alla collezione di sneaker, ciabatte e t-shirt dal logo arcobaleno.
Oltre ai capi casual più iconici della Chiara Ferragni Collection, con il logo stampato su un arcobaleno glitterato, la linea Love Fiercely propone anche polo-shirt e polo-dress, tutti abbinabili con le sneackers disponibili nei colori bianco e nero.
Converse
Per il quinto anno di fila, Converse lancia la sua Pride Collection, ispirata ai colori della bandiera “More Color, More Pride”, per celebrare la diversità e l’inclusione estendendo l’arcobaleno con l’aggiunta di una linea marrone e una nera che rappresentano rispettivamente la comunità Latin e Black LGBTQIA+.
La piattaforma Converse By YOU offrirà la possibilità di customizzare i prodotti del marchio a proprio piacimento, come ulteriore celebrazione della libera espressione individuale.
Sarà possibile creare modelli personalizzati, le cui opzioni di design sono ispirate alle bandiere bisessuali, transgender, pansessuali.
Vans
Anche il brand di scarpe e abbigliamento da skate non ci fa mancare la sua Pride Collection, con una vasta gamma di sneaker, dall’iconica checkerboard, il “mocassino” con il motivo a scacchiera che si colora d’arcobaleno, alle sneaker kids con la chiusura a strappo a tema pride flag.
Ma la vera chicca di quest’anno, però, sono le ciabatte vans, sempre con motivo a scacchiera coloratissime e glitterate.
Anche il Re indiscusso degli stivali stringati si colora per il Pride Month, ma lo fa in modo più discreto, con una bandiera cucita sul tallone e la linguetta colorata, senza stravolgere troppo la sua identità.
In associazione con il lancio del Pride Boot, Dr. Martens donerà 25 mila dollari alla fondazione The Trevor Project, una delle più grandi organizzazioni mondiali dedicate al supporto psicologico e alla prevenzione di suicidi di giovani gay, bisex e transgender.
Levi’s
“Use your voice” è il tema centrale della Pride Collection 2020 di Levi’s, un messaggio che incita la libera espressione di sé, l’uguaglianza e l’inclusione.
La collezione Pride di quest’anno è sia un incoraggiamento che una celebrazione di coloro che usano la propria voce per cambiare il mondo.
Jennifer Sey, a capo della divisione marketing dell’azienda.
All’interno della collezione, una vasta e coloratissima gamma di magliette grafiche, giacche di jeans e accessori. Oltre al logo su sfondo arcobaleno, molti pezzi della collezione riportano anche lo slogan “Use Your Voice”.
Per il secondo anno consecutivo, Levi Strauss & Co si unisce all’organizzazione no-profit OutRight Action International, a cui ha annunciato che devolverà il 100% dei proventi netti della Pride Collection.
Nordstrom
Disponibile da giugno, la “BP. Be Proud” Collection di Nordstrom spazia dall’abbigliamento, agli occhiali da sole, ai fermagli per capelli.
Il 10% delle vendite della collezione sarà devoluto all’organizzazione no profit True Colours United, che opera nello sviluppo di soluzioni innovative per i giovani homeless, concentrandosi sulle esperienze delle giovani lesbiche, gay, bisessuali e transgender, che in America costituiscono il 40% della popolazione giovanile senzatetto.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/06/pride-month-2020.jpg388531Federica D'Arpahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFederica D'Arpa2020-06-16 11:06:082020-06-17 21:40:02Pride month 2020: ecco i brand che celebrano l'amore con i colori dell’arcobaleno
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