Secondo le proiezioni degli analisti, una larga parte del budget complessivo di marketing verrà impiegata nel segmento delle digital PR.
Per le imprese italiane oggi è possibile usufruire di un bonus che include tutti gli investimenti pubblicitari, digital PR comprese, su testate giornalistiche cartacee e online, televisioni, radio nazionali e locali.
Il mercato del digital marketing americano prevede per il 2021, nonostante una congiuntura economica fiaccata dalla pandemia da Coronavirus, un investimento totale prossimo ai 120 miliardi di dollari.
Secondo le proiezioni degli analisti, una larga parte del budget complessivo verrà impiegata nel segmento più interessante e futuribile degli ultimi anni: quello delle digital PR.
Impatto e ritorno economico delle digital PR
Se le pubbliche relazioni hanno sempre avuto il ruolo di collegare brand e attività al mondo esterno attraverso il megafono offerto dai media, non deve sorprendere se i professionisti di questo settore sono stati tra i primi in assoluto ad esplorare le potenzialità del web.
Con l’avvento di internet dei social network, infatti, gli specialisti della comunicazione hanno compreso prima di altre categorie come la promozione del futuro non potrà più prescindere dall’online.
Ma a cambiare non sono solo le piattaforme: ogni rivoluzione così radicale porta con sé linguaggi e modalità totalmente inedite, e anche le digital PR non fanno eccezione.
Una delle principali ragioni della diffusione così ampia tra professionisti, brand e aziende di ogni fascia e dimensione, è che sempre più consumatori si sentono infastiditi da un certo tipo di pubblicità di stampo tradizionale, che sebbene targetizzata finisce col risultare invasiva e spesso opprimente, oltre che ripetitiva.
Nonostante i dati Istat rivelino come solo 6 italiani sui 10 utilizzino la rete con regolarità, numeri inferiori alla media mondiale, il lockdown e la necessità di lavorare online hanno determinato un incremento statistico senza precedenti.
Dalle mille incertezze del futuro emerge quindi una sola certezza a trovare tutti concordi: il digitale rappresenta più che mail il futuro.
L’interconnessione globale pone tuttavia nuove sfide, rendendo più impegnativo emergere, differenziarsi dalla concorrenza e conquistare la fiducia dei clienti già acquisiti o dei potenziali tali nel mare magnum delle offerte che un consumatore ha, ininterrottamente, a propria disposizione.
Per raggiungere questi obiettivi, i veri capisaldi di una realtà commerciale in grado di prosperare, le pubbliche relazioni si confermano lo strumento più idoneo.
Secondo l’autorevole società di ricerche e raccolta dati americana Schlesinger Group, ricorrere alle digital PR garantisce un incremento di efficacia della propria campagna promozionale sui media di 5.2 volte.
I benefici di un’azione continuativa sono ancora maggiori.
Studiate per generare effetti positivi sul medio e lungo termine, attraverso strategie oculate che consentano di volta in volta di veicolare i valori e i messaggi di un brand, le PR riescono ad influenzare in modo decisivo le opinioni delle persone: il numero di coloro che credono alle pubblicità scende di anno in anno, mentre aumentano le fila di consumatori propensi a sviluppare legami di fiducia con brand trattati spontaneamente dai media.
È possibile farne richiesta a partire dal mese di settembre
Ecco perché non è più possibile farne a meno, e perché cominciare in un periodo di crisi è la scelta migliore.
PR e decreto Cura Italia: una nuova prospettiva per le imprese
Per contrastare gli effetti negativi legati all’emergenza Covid, il governo italiano ha dato vita al decreto ribattezzato “Cura Italia”.
Contenuto tra le misure a sostegno delle imprese, l’articolo 98 del decreto legge 18/2020 (modificante un DL del 2017) renderà ancora più conveniente ricorrere ai professionisti delle pubbliche relazioni per rilanciare, affermare e far decollare la propria attività.
Fino a tre anni fa era possibile scaricare le spese sostenute per campagne pubblicitarie fino al 30% e solo sulla parte incrementale rispetto a quanto investito nell’esercizio precedente.
Da oggi in poi, grazie a una novità che promette di diffondere l’impiego delle relazioni pubbliche su larga scala, si potrà scaricare il 50% delle spese sull’intero totale investito.
Questo bonus è destinato a imprese, lavoratori autonomi ed enti non commerciali (compreso chi nell’anno precedente non ha effettuato investimenti in tal senso), e include tutti gli investimenti pubblicitari, PR incluse, su testate giornalistiche cartacee e online, televisioni, radio nazionali e locali.
Una misura, questa che renderà ancora più conveniente rispetto al passato pensare ad una campagna di digital PR adeguata alle proprie esigenze.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/07/digital-pr.jpg478562Francesca Caonhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFrancesca Caon2020-09-25 17:38:312020-09-25 17:39:21Investire in Digital PR conviene: ecco alcuni dati e novità
Le crisi portano progresso, sosteneva Albert Einstein e il design italiano è in prima fila per guidare un nuovo rinascimento delle idee, della creatività e del saper fare.
I nuovi scenari delineati dalla pandemia possono essere sfruttati per innovazioni e per soluzioni adatte alla nuova quotidianità.
Dai pannelli di design in plexiglass alle nuove postazioni di smart working, il genio creativo si fonde con le opportunità post pandemia. Il lato positivo COVID-19 c’è.
La storia insegna che l’altra faccia della medaglia delle crisi sono le opportunità. Giusto per rendere il concetto un po’ pop, in questo caso si potrebbe affermare che “si fa quel che si può, con quello che si ha”. Pane per i denti della creatività italiana.
Dovremmo aspettarci un secondo Rinascimento? Possiamo sperarci. Nel frattempo, le case e le cose vengono rivisitate e adattate alle nuove esigenze imposte dai tempi COVID-19.
In effetti, il Coronavirus ha cambiato e sta cambiando il nostro modo di vivere la socialità. Un metro di distanza ci separa da tutti coloro i quali non sono né congiunti, né familiari e il file rouge che muove la nostra quotidianità è il distanziamento sociale. Trasporto pubblico, uffici, stabilimenti, teatri, negozi, ristoranti, riflettono le nuove esigenze comportamentali.
Cambieranno conseguentemente anche gli spazi che viviamo?
Nuovi scenari
Va in scena il COVdesign che punta a risolvere le necessità quotidiane relative alla pandemia. Scenari noti messi in discussione, nuovi gesti, nuove prospettive che alimentano anche la progettazione di interni e il disegno industriale.
Smart working e mascherine fanno sì che sia attribuito un senso diverso a progetti e oggetti. È ragionevole, dunque, pensare che l’emergenza COVID-19 stia riplasmando case, uffici, città e infrastrutture?
Nonostante i pareri divergenti delle archistar, si fanno spazio alcune innovazioni d’artista al passo coi tempi. Aziende e design sono all’opera.
Il desginer Matteo Cibic, per esempio, firma la collezione COV e lancia alcuni tra i progetti italiani più interessanti legati alla pandemia. Li chiama “fancy transparent socializing panels”, i paraventi di design per essere protetti senza sentirsi isolati, utili soprattutto negli open space.
C’è poi Christophe Gernigon, che con l’idea del “distanziamento socializzante” sperimenta sospensioni isolanti di plexiglass, per restare seduti a tavola in piena sicurezza.
Non mancano le postazioni di lavoro in casa: quinte o angoli per le diverse funzioni, per lavorare da remoto in serenità. Gli spazi domestici vengono dunque riorganizzati per improvvisare postazioni ufficio.
E ancora una volta i designer si sbizzarriscono: dalla cosiddetta plancia di comando di Patricia Urquiolaalla postazione operativa con vista sul Mediterraneo di Metz e Racine, le soluzioni sono molteplici e super creative.
Design in numeri
Nonostante le opportunità da cogliere un po’ giocoforza, la crisi COVID-19 ha inferto un duro colpo al mondo del design e, in maniera particolare, al comparto legno-arredo. In effetti, le micro imprese del settore hanno perso ad aprile 2020 il 72%del fatturato, assistendo ad un calo della domanda interna ed esterna.
In Italia sono 47.447 le unità locali che operano nel settore legno e mobili, dove in molte delle quali è alta la vocazione artigiana. È da questo tessuto e dell’attività dei maker che nascono creatività e innovazioni. Creatività messa alla prova già durante l’emergenza sanitaria, quando Christian Fracassi (maker e CEO di Isinnova) trasforma la famosa maschera di snorkeling di Decathlon Easybreath in un respiratore, utilizzando la stampa 3D.
Il progetto di Isinnova ha poi ispirato anche un giovane tecnico antincendio di Ravenna, Ottavio Giannella, che ha ideato un raccordo che collega comuni maschere antigas da lavoro a ventilatori polmonari.
Il lato positivo
L’intento non è solo quello di descrivere ciò che il design può fare per rispondere al post COVID-19, ma è di dimostrare come designer e maker svolgano un ruolo fondamentale, soprattutto in tempi di crisi.
In effetti, il design in Italia è nato negli anni ’50 proprio dalla voglia di riscatto post-guerra e, da allora, ha sempre rivestito il ruolo di decodificatore delle necessità umane, nonché di traspositore dei bisogni e desideri dell’uomo nella realtà che lo circonda. E non si limita ad intervenire sull’esteriorità delle cose, ma ne investe anche la funzionalità e il profilo semantico.
Durante quei tempi, non si trattava di progettare oggetti nuovi, ma di sfruttare ingegno e creatività per rispondere ai problemi quotidiani. Ne sono testimonianza la Vespa, la macchina da scrivere Lexicon e la moka Bialetti. Oggetti che rappresentano come le minacce più gravi possano costituire un’opportunità per l’innovazione e la collettività.
Dunque, nella società in cui ci troveremo a vivere post Covid-19, con le sue diverse e mutate esigenze, il design sarà un fondamentale strumento di adeguamento della realtà ai bisogni ed alle aspettative umane.
Chi l’avrebbe mai detto che COVID-19 e design sarebbero stati una perfect combo? Pensarla così aiuta a guardare il lato positivo della pandemia. Per il Rinascimento rimaniamo fiduciosi.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/Immagine-del-14-09-20-alle-15.23.jpg419638Guenda Espositohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGuenda Esposito2020-09-21 17:24:562021-01-05 15:44:06COVID e Design: come la creatività si incastra con le opportunità post crisi
Entro il 2022 in Italia ci sarà bisogno di 2,5 milioni di nuovi occupati e il 75% delle aziende reagirà alla crisi prodotta dal Covid-19 con attività di re-skilling.
Da questi dati nasce l’idea del nuovo spazio di Phyd, digital venture di The Adecco Group, nel cuore di Milano, dedicato a orientamento e percorsi di up-skilling e re-skilling per studenti, professionisti e imprese attraverso esperienze Phy-gital.
La location è stata ideata e costruita con un investimento di oltre 6 milioni di euro, compresa la realizzazione della piattaforma, e ha l’obiettivo di formare e valorizzare il capitale umano con le nuove skill richieste dalla costante trasformazione che il mercato del lavoro sta conoscendo.
Il futuro del lavoro (e delle competenze)
Secondo il World Economic Forum, nei prossimi 3 anni, a livello globale, l’evoluzione del mondo del lavoro – accelerata dalla tecnologia, dal digitale e dell’automazione – determinerà la nascita di 133 milioni di nuove opportunità occupazionali, a fronte di 75 milioni di posti di lavoro destinati a scomparire. Unioncamere stima che solo in Italia, ci sarà bisogno di 2,5 milioni di occupati in più.
L’impatto della crisi economica legata alla pandemia rischia di avere un impatto al ribasso su queste stime, ma il tema delle competenze diventerà ancor più cruciale. Secondo il dossier 2020 Unioncamere-ANPAL, il 75% delle aziende italiane dichiara che, per fare fronte alla crisi, nei prossimi sei mesi metterà in campo azioni di reskilling del personale già presente in azienda. Questo produrrà un’ulteriore accelerazione del processo di riconversione e rafforzamento delle competenze del capitale umano, anche per favorire l’allineamento alle nuove forme organizzative del lavoro.
Secondo Andrea Malacrida, Fondatore di Phyd e Country Manager di The Adecco Group in Italia: “Il tema dell’aggiornamento professionale continuo rappresenta uno dei punti centrali per il mondo del lavoro del futuro. Nei prossimi anni, anche a seguito dell’emergenza sanitaria appena vissuta, il mondo del business subirà cambiamenti ancor più repentini di quelli che abbiamo vissuto fino ad ora e solo chi riuscirà a coltivare le proprie competenze professionali, aggiornandole e sviluppandone di nuove, avrà l’opportunità di rimanere appetibile sul mercato del lavoro”.
Fondamentale, dunque, l’acquisizione di nuova conoscenza, sia tecnica che trasversale, tanto per gli studenti quanto per i professionisti. Le soft skill, in particolare, sono destinate ad avere un impatto determinante sulle retribuzioni, fino a incrementare uno stipendio di oltre il 40%.
Inoltre, resta attuale la criticità rappresentata dalla distanza che separa le competenze richieste dal mercato con quelle proposte dai programmi scolastici e universitari: lo skill mismatch impatta negativamente sia sui lavoratori che sulle aziende, frenando la crescita dell’intero sistema-Paese. Nel settore ICT, per esempio, il gap tra domanda e offerta di competenze è attualmente del 18%.
Come spiegato da Silvia Candiani, Amministratore Delegato di Microsoft Italia: “Lo skills mismatch è un fenomeno che in Italia sta diventando davvero rilevante e urgente. […] Non si tratta solo di implementazione di nuove tecnologie come il Cloud Computing o l’Intelligenza Artificiale, ma di avere le giuste competenze per cogliere tutte le opportunità di sviluppo che il digitale offre. Un recente studio Microsoft ha rilevato per esempio che le organizzazioni che traggono maggior valore dall’adozione dell’AI sono quelle che non puntano solamente sull’automazione e sull’efficienza operativa ma anche sulla formazione”.
Phyd Hub nasce con l’idea di permettere a studenti e lavoratori di vivere un’esperienza phy-gital e rappresenta la naturale evoluzione della piattaforma digitale Phyd, che, attraverso le soluzioni di Intelligenza Artificiale di Microsoft, misura l’attitudine e l’occupabilità di una persona rispetto ad una professione, ricavandone il grado di adeguatezza e rilevanza (employability index).
Proprio come la piattaforma, anche la location di Phyd Hub, aperta a tutti, offre contenuti poliedrici, inserendoli nella cornice di un luogo progettato in modo inedito. Lo spazio, organizzato su più livelli, ospiterà incontri, eventi, opportunità di networking e percorsi di up-skilling e re-skilling caratterizzati da un denominatore comune: interpretare nel modo più ampio il futuro del lavoro attraverso attività di career gym, preparazione ai colloqui e di controllo del curriculum vitae.
Situata nel centro di Milano, in via Tortona, la nuova location si caratterizza per un palinsesto di contenuti cross-generazionali che si svilupperà ogni anno nell’arco di 44 settimane e sarà incentrato sui temi del future of work, del life long learning e delle skill emergenti. Tra i partner di contenuti formativi anche Ninja Academy.
Phyd Hub è organizzata su più livelli per dare spazio a una dimensione immersiva che segna il passaggio dal mondo fisico esterno a quello phygital della nuova piattaforma e un’area training pensata per la formazione individuale; infine il luogo dedicato all’apprendimento verticale per piccoli gruppi e quello più esteso che ospiterà corsi, workshop, talk ed eventi.
Manlio Ciralli, Chief Executive Officer di Phyd, ha dichiarato: “Phyd nasce con l’obiettivo di nutrire la conoscenza attraverso un percorso di esperienze e fruizione che coniuga fisico e digitale. L’obiettivo primario è quello di dare alle persone la possibilità di porsi in uno stato di aggiornamento continuo. […] L’ambizione di amplificare – attraverso l’intelligenza artificiale – le opportunità di conoscenza e l’accesso ai contenuti senza distinzioni territoriali e, attraverso il luogo fisico, di mantenere la prossimità tra le persone laddove il networking e lo scambio di esperienze rappresenta di per sé uno strumento di miglioramento, contaminazione e conoscenza”.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/phyd-hub-2.jpg7361198Redazionehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngRedazione2020-09-18 13:59:092020-09-21 21:13:38A Milano nasce Phyd Hub, un nuovo spazio tecnologico che guarda al futuro del lavoro
Mettere al centro dell’economia i Progetti e di conseguenza la Gestione dei Progetti (Project Management) significa stravolgere in molti casi processi, pratiche e abitudini che hanno caratterizzato molte imprese: fare un progetto oggi non è più semplicemente “fare quanto richiesto”, ma “generare valore”.
Se pensiamo alla situazione attuale, la crisi sanitaria ed economica del 2020, la buona gestione dei progetti diventa una questione ancora più importante: commettere degli errori nell’economia del progetto significa ridurre i margini e compromettere l’impresa stessa.
Per fare questo però dobbiamo ripensare il modo in cui viene fatto Project Management.
Si tratta di un cambiamento importante perché richiede un cambiamento nei Project Manager, nella considerazione dei Progetti e nei team che si trovano a dover realizzare questi progetti: come spesso accade non è un cambiamento di strumenti, ma è un cambiamento radicale nella cultura aziendale.
Se dovessimo identificare il cambiamento principale nella gestione dei progetti in questi decenni troveremmo la risposta in un cambio di prospettiva da parte del Project Manager (PM).
Infatti possiamo distinguere tra:
una visione Tradizionale, nella quale al PM viene chiesto di raggiungere i risultati definiti inizialmente rispettando tempi e costi;
una visione Moderna, nella quale al PM viene chiesto di generare valore attraverso uno o più progetti rispettando tempi e budget.
E questo piccolo cambiamento ha un impatto enorme sul modo in cui vengono gestiti i progetti.
Vuoi saperne di più sul nuovo ruolo del Project Manager?
Se vuoi approfondire l’argomento e saperne di più su quale è il nuovo ruolo del Project Manager in azienda, puoi scaricare la Guida Interattiva Ninja dedicata ai membri PRO.
Se non sei ancora iscritto, approfitta del free risk trial period, grazie al parere di Piero Tagliapietra, consulente in Digital Strategy e Project Management, potrai:
avere una panoramica sulle principali metodologie di Project Management;
valutare quale sia l’approccio ottimale per i tuoi progetti;
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/10/google.jpg600900Redazionehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngRedazione2020-09-17 15:00:002020-09-17 12:24:22Verso la Project Economy: come gestire oggi progetti e team in azienda
Le diversità sono importanti nella nostra società anche se non tutti le rispettano. Ci permettono d’integrarci con gli altri e di accrescere la forza di un’azienda.
Un team dovrebbe essere lo specchio della società in cui viviamo, ossia una comunità multiculturale e variegata.
Viviamo in un mondo cosmopolita, dove i confini sono sempre più ridotti e ognuno di noi può comunicare con l’altro attraverso un semplice click. Ci sentiamo tutti più vicini, viaggiamo liberamente per piacere e per lavoro, conosciamo aspetti di culture diverse, assaporiamo gusti d’oltreoceano e impariamo lingue nuove. Ha ancora senso parlare d’integrazione e rispetto per le diversità?
Certo che sì. Oggi più che mai. Parliamo tanto di diritti, di libertà, di positività e amore verso sé stessi, ma non tutti viviamo in pace con le nostre unicità. Spesso veniamo etichettati per qualche attributo che ci differenzia dalla maggior parte della comunità in cui viviamo.
Le differenze risultano evidenti e pericolose agli occhi di coloro che non le accettano, perché non le conoscono, e le scrutano e additano con un’accezione negativa senza nemmeno sforzarsi di vedere la persona che c’è dietro.
Ammettere le diversità e accoglierle è importante non solo per una questione etica e morale, ma bisogna cambiare mentalità anche nei contesti lavorativi. Le diversità nel mondo del lavoro permettono alle aziende di crescere, di distinguersi e mutare anima.
Cosa si intende per diversità nel mondo del lavoro
Quando parliamo di diversità nel mondo del lavoro ci riferiamo a tutte quelle persone con un background eterogeneo, che possa riguardare l’età, la cultura, le abilità, l’orientamento sessuale, l’identità di genere.
Un team dovrebbe essere lo specchio della società in cui viviamo, ossia una comunità multiculturale e variegata.
L’accettazione e l’inclusione delle diversità nei contesti lavorativi permettono alle aziende di essere più competitive nel mercato, ma solo se le persone che fanno parte del team sono integrate realmente nel gruppo. Abbiamo bisogno di un cambiamento dall’interno. Un’azienda deve decidere come vuole essere davvero, il modo in cui verrà percepita dagli altri e che tipo di persone vuole attrarre, a chi vuole rivolgersi.
Le diversità nel mondo del lavoro incrementano il valore di un’azienda, ma perché?
Perché un team variegato permette di vedere le cose da diversi punti di vista, che non siano sempre gli stessi. Avere diversi tipi di personalità in squadra comporta vantaggi a livello di prestazioni, oltre che di produttività, ma soprattutto d’innovazione.
Scambi d’idee, confronto e inclusione sono tutti elementi che migliorano l’umore ma anche la reputazione di una società. Sono sempre più le persone che vorrebbero lavorare in un luogo di lavoro tollerante, diversificato e poliedrico, dove tutti hanno le stesse chance di crescere e diventare qualcuno.
Le diversità nel mondo del lavoro migliorano la vita aziendale e il suo employer branding.
Come integrare le diversità nel mondo del lavoro
Il mondo è bello perché è vario, recitava un antico detto, e lo sono anche le diversità. Nel mondo del lavoro troviamo persone con un’istruzione superiore, chi ha un ceto sociale basso, chi fa parte della comunità LGBTIQA+, chi ha una fede religiosa diversa, tutte caratteristiche che sono innate o acquisite nel tempo (come l’istruzione).
Integrare la diversità significa che le aziende, durante la fase di reclutamento, non devono avere nessun tipo di pregiudizio contro qualsiasi individuo. Ovviamente nemmeno avere delle preferenze. Purtroppo, chiunque abbia fatto un colloquio di lavoro, ha visto passarsi davanti persone meno qualificate, ma favorite per qualche motivo che non riguarda assolutamente il merito. Dovrebbe essere un discorso scontato quello delle pari opportunità, ma le diversità nel mondo del lavoro sono ancora penalizzate.
Leggiamo di donne lavoratrici pagate meno dei colleghi uomini, di razzismo, di preconcetti su chi appartiene a una cultura diversa o sgomento verso chi ha un orientamento sessuale che non riusciamo a inquadrare. Sentiamo un incessante bisogno di etichettare qualsiasi cosa, dimenticando chi siamo realmente.
Molti talenti si sentono esclusi e non ne capiscono il motivo, anche perché una motivazione reale non c’è. Per far fronte a questo problema molti professionisti in campo creativo hanno deciso di creare e riunirsi in delle piattaforme virtuali.
Assistiamo così alla nascita di microcomunità, divise per etnie, genere e svariati indicatori, in cui le persone si identificano e mostrano il proprio talento.
Dove trovare nuovi talenti
Negli ultimi anni sono nati diversi siti che hanno come obiettivo quello di unire e supportare le persone con diversità e allo stesso tempo rendere più facile, per agenzie e reclutatori, trovarle e lavorare con loro.
Fabricio Teixeira, design director di Work & Co. ha lanciato Brazilians Who Design per puntare i riflettori sui talenti provenienti dal suo paese d’origine. Ispirato da Womenwho.design, lo scopo è quello di mostrare l’esistenza di diverse comunità i cui membri hanno ottime competenze nel proprio lavoro anche se sono poco conosciuti, o per niente.
Queste piattaforme non vogliono puntare sull’apparenza, su come gli individui si presentano, ma sul genio creativo, sull’unicità delle loro opere.
Sapevate che esiste un sito simile tutto made in Italy? Si chiama Italians Who Design e mostra a tutto il mondo i lavori di giovani illustratori italiani. Questo progetto aiuta questi artisti a emergere in rete e a farsi conoscere, creando delle opportunità di lavoro. Sono numerosi i designer italiani che lavorano all’estero progettando prodotti utilizzati da milioni di persone anche se sono poco noti nel panorama internazionale.
Un’altra realtà giovane e interessante è Hue, creata da Fahad Khawaja. Hue è una piattaforma sviluppata per sostenere il cambiamento, amplificando le voci delle persone di colore che lavorano nel marketing, aumentando la loro visibilità e aprendo la strada alla crescita di tutti gli iscritti. Un’idea per creare equità e prosperità incoraggiando i talenti a partecipare, a fare rete con le aziende e ottenere un lavoro.
Khawaja fa una riflessione che fa pensare, ossia che nonostante ogni anno vengano spesi più di 350 miliardi di dollari in marketing and recruiting, la rappresentanza dei dipendenti con diversità razziale è rara nella maggior parte delle aziende. Inoltre, sottolinea, questo gap è ancora più pronunciato ai livelli di leadership, con una presenza in progressiva diminuzione. Fin quando le aziende attingeranno i candidati sempre dagli stessi posti, non ci sarà mai un effettivo ricambio. Khawaja definisce questo fenomeno con il nome di network gap.
Il caso di We are Rosie
We are Rosie è un’agenzia famosa che si è evoluta per soddisfare le esigenze dei nostri tempi. Pochi mesi fa ha lanciato Rosie Recruits, un’iniziativa che si occupa di ricercare contratti di sei mesi per i dipendenti. Ha promesso che almeno il 40% dei suoi candidati saranno persone di colore.
La sua fondatrice, Stephanie Nadi Olson, ha affermato che l’intento di We are Rosie è quello di fornire l’accesso al maggior numero possibile di persone appartenenti a comunità emarginate.
La piattaforma ha registrato un aumento del 30% di persone in cerca di lavoro da marzo. Ora ha un pool di 6.000 candidati. Ci sono molte aziende che urlano ai 4 venti di avere a cuore le diversità e le minoranze, ma nel concreto non rispettano ciò che dicono. Con tutte le promesse di cambiamento nel mercato, Olson si auspica che ciò avvenga rapidamente.
Per un cambiamento reale e una maggiore inclusività, le aziende dovrebbero porsi al servizio dei talenti, e non viceversa.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/cover.jpg500750Mariagrazia Repolahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngMariagrazia Repola2020-09-17 13:09:172020-09-21 21:17:27Da dove cominciare per portare le diversità (e il talento) nel mondo del lavoro
Ci sono molti falsi miti sul lavoro agile che inducono le aziende ad essere resistenti verso questa tipologia di lavoro.
L’argomento del lavoro agile va affrontato con un orizzonte temporale ampio senza legarlo al contingente momento emergenziale generato dalla pandemia.
Il lavoro agile o smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Lo dice il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Smart Working o Lavoro Agile: definizione e sviluppi
L’Osservatorio del Politecnico di Milano lo definisce: “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.
Quello che abbiamo sperimentato fino ad oggi, nel periodo pandemico, è uno smart working agevolato, un po’ improvvisato, molto più vicino al concetto di telelavoro ma pur sempre una buona base di partenza per iniziare ad avvicinarsi alla corretta adozione.
Durante la pandemia il Governo, attraverso un decreto attuativo approvato con urgenza, ha previsto l’adozione dello smart working senza accordo preventivo con i dipendenti (in deroga alla Legge 81/2017) al fine di contenere e contrastare la diffusione del Covid-19, bloccando, di fatto, l’attività in presenza per milioni di italiani.
DL 111/2020
Lo smart working è stato poi ulteriormente esteso dal DL 111/2020 (contenente alcune misure a sostegno dell’avvio dell’anno scolastico) al genitore lavoratore, per tutto il periodo (o parte di esso) corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente, minore di anni 14, disposta dall’ASL, a seguito di contatto verificatosi a scuola.
La previsione è contenuta nell’art. 5 che stabilisce inoltre che se la prestazione lavorativa non può essere svolta in modalità lavoro agile, alternativamente, uno dei genitori può fruire di un apposito congedo straordinario percependo un’indennità pari al 50% della retribuzione (il calcolo avviene secondo le modalità fissate dall’art. 23 del D.lgs. 151/2001). Secondo il dettato legislativo i periodi in cui si è fruito del congedo sono coperti da contribuzione figurativa.
La possibilità di fruire dello smart working o del congedo, quando il figlio è stato posto in quarantena, non spetta al lavoratore genitore se l’altro già fruisce di una delle predette misure, oppure svolge la prestazione in modalità lavoro agile ad altro titolo. Congedo straordinario o smart working non spettano nemmeno se l’altro genitore è già a casa perché privo di impiego.
Dal 15 Ottobre
Il Governo, con la delibera 7/10/2020, ha prorogato dal 15 ottobre al 31 gennaio 2021 lo stato di emergenza dovuto alla diffusione dell’epidemia da Covid-19.
Fino al 31/01/2021 sarà quindi ancora possibile accedere allo Smart Working senza preventivo accordo individuale con il lavoratore. Permane, quindi, la line agevolativa. Il DL 125/2020 apporta modifiche anche al DL 83/2020 (L. 124/2020) disponendo in particolare la proroga dal 15 ottobre 2020 al 31 dicembre 2020 del diritto di svolgere il lavoro in Smart Working riconosciuto ai lavoratori c.d. fragili, ossia coloro che sono maggiormente esposti al rischio di contagio da Covid-19.
Ci sono molti falsi miti sul lavoro agile che inducono le aziende ad essere resistenti verso questa tipologia di lavoro. Qui di seguito indichiamo i 5 principali falsi miti sul lavoro da remoto che dovranno essere superati nel futuro.
1. I dipendenti che lavorano da remoto sono poco produttivi e lavorano molto meno
Uno dei primi miti da sfatare è proprio l’assenza di produttività.
Spesso si pensa che il lavoratore non presente in ufficio, quindi non a stretto contatto con il capo o collega, sia meno produttivo di quello impiegato in azienda.
Questa convinzione, in realtà, è stata smentita; molti lavoratori hanno affermato di aver lavorato più ore da remoto rispetto al lavoro inpresenza.
2. I dipendenti che lavorano da remoto non fanno squadra e tendono ad isolarsi
Anche questo “mito” è frutto di una cultura non matura rispetto all’argomento.
Il lavoro agile non è sinonimo di isolamento, un programma di remote working può infatti alternare periodi in presenza con periodi a distanza. Durante i periodi in presenza si può continuare a coltivare le relazioni face to face, a seguire corsi di formazione e continuare a fare team building.
La comunicazione tra colleghi può avvenire in modo snello e completo anche se non si è vicini di scrivania, esistono infatti moltissimi software per la gestione delle comunicazioni a distanza e che consentono di tenere traccia di ogni conversazione.
Si possono organizzare video call con il proprio team che vadano al di là dei semplici meeting di lavoro ma che si tramutino, per esempio, in pause caffè per socializzare in modo informale con i membri del team.
Questi alcuni strumenti utili per il lavoro a distanza:
3. Il lavoro da remoto permette di dedicarsi alle faccende domestiche
Nell’immaginario comune lo smartworker viene spesso rappresentato intento a lavorare e a svolgere, nel contempo, anche attività domestiche quali: prendersi cura dei figli, pulire la casa, cucinare ecc.
Il vero lavoratore remotizzato, in realtà, organizza molto bene la sua giornata al fine di evitare distrazioni e interruzioni legate alla sfera domestica/privata.
L’importante è definire una routine quotidiana e stabilire regole precise per interagire con eventuali altre persone della famiglia.
Anche il mercato immobiliare si sta muovendo nella direzione del lavoro agile. Aumentano, infatti, le richieste di immobili più ampi dove poter ricavare lo studio per collocare la propria postazione di lavoro, senza dover condividere spazi comuni quali salotto, cucina ecc…
Più che l’esposizione della camera da letto o la luminosità della cucina nella scelta dell’immobile si valutano il livello di comfort e il corretto isolamento dal resto della casa della stanza adibita a studio professionale. La priorità è poter lavorare in un ambiente tranquillo, che favorisca la concentrazione. Si tende a traslocare più di rado, ma anche a preferire l’affitto all’acquisto, in modo da poter cambiare domicilio più facilmente non appena ci si imbatte in un’offerta migliore. La parola d’ordine è flessibilità, concetto che si applica non solo agli orari di lavoro ma anche al modo di concepire la casa.
Va inoltre sottolineato che il lavoro agile non è necessariamente coincidente con l’home working, è possibile infatti lavorare a distanza da spazi neutri al di fuori delle mure domestiche, come ad esempio in apposite strutture di coworking (oggi meno utilizzati a causa della pandemia).
4. Il lavoratore da remoto non sarà mai un buon capo
Se i datori di lavoro sono scettici in relazione all’assunzione di dipendenti che lavorino da remoto, lo sono ancora di più quando sono i manager stessi a non essere fisicamente in ufficio a controllare e coordinare le risorse.
Anche questo è un falso mito, come sostiene HubSpot, dove la forza lavoro remotizzata è di oltre 300 persone e la maggior parte sono manager di medio e alto livello.
In Italia le aziende che hanno siglato accordi di smartworking sono:
Tim Spa;
Eni;
Enel;
Fincantieri;
Fastweb;
Leonardo.
5. Il lavoratore da remoto ha tutto il tempo per prendersi cura di se stesso
Quante volte abbiamo sentito dire: “Ora che lavoro in smart working avrò sicuramente il tempo di andare in palestra” oppure “Ora finalmente potrò coltivare il mio hobby”.
Anche questo (purtroppo) è un falso mito.
Lo stile di vita remoto è in realtà molto più frenetico e la giornata lavorativa è molto più occupata.
Spesso chi lavora da remoto perde il contatto con la realtà: salta la pausa pranzo, non intervalla la routine lavorativa con delle pause, tende a non scollegarsi mai.
Molte volte questo burnout avviene perché si sente la pressione psicologica di dover dimostrare al proprio datore di lavoro che, anche da distanza, si mantengono alti i nostri standard produttivi, aumentando di fatto la prestazione lavorativa a discapito della sfera personale. Oppure perché non si è in grado, come indicato sopra, di porre dei limiti e di organizzare in modo corretto la giornata.
Il ricorso allo smart working è aumentato esponenzialmente durante il periodo pandemico e post-pandemico, ed è spesso stato confuso con il telelavoro o peggio ancora con l’home working.
In realtà occorre affrontare l’argomento del lavoro agile con un orizzonte temporale ampio, senza legarlo al contingente momento emergenziale generato dalla pandemia.
Le organizzazioni che hanno introdotto il lavoro da remoto durante il periodo pandemico devono interrogarsi su quanto questa forma di lavoro possa diventare un modello organizzativo stabile nel tempo, analizzando gli aspetti positivi e negativi di questa metodologia di lavoro.
Dal lato dell’organizzazione aziendale è un modo per essere in grado non solo di rispondere alle esigenze delle persone, ma di creare spazi di lavoro ottimizzati che consentono risparmi sugli affitti e facilities, con tecnologie che agevolano i processi lavorativi dell’impresa.
Il risvolto negativo che si otterrà, dalla scelta di adottare o meno il lavoro agile, sarà sui settori produttivi il cui indotto è strettamente correlato al lavoro in presenza negli uffici: ristorazione, pulizie e facility management i settori duramente colpiti.
“Per questi comparti la crisi generata dal lockdown è stata solo l’inizio: l’estrema prudenza con cui continueranno a essere gestiti i rientri nei luoghi di lavoro per evitare i contagi sarà, di fatto, una minaccia per la continuità dei conti di queste aziende, tranne per chi non ha saputo radicalmente rinnovare il proprio business”.
Il lavoro da remoto sarà la forma di lavoro vincente solo se sussistono una serie di condizioni, tra cui:
una migliore standardizzazione e organizzazione dell’attività produttiva richiesta ad ogni lavoratore, attraverso una precisa definizione dei tempi di svolgimento della prestazione;
evitare che il distanziamento sociale e di spazio appesantisca le procedure all’interno dell’organizzazione;
una corretta modalità di controllo e vigilanza del lavoro, tema delicato poiché nelle organizzazioni non esistono funzioni aziendali dedicate a questa attività.
—
UPDATE: In una precedente versione di questo articolo si riportava quanto segue: “A partire dal 15 Ottobre, invece, per poter continuare ad applicare lo Smart Working le aziende dovranno stipulare accordi individuali e inviare la comunicazione al Ministero del Lavoro attraverso l’apposita piattaforma e accedendo con le credenziali SPID. Il 15 ottobre è la data spartiacque per il futuro dello smart working per l’Italia.
Non esistendo una norma di raccordo tra il lavoro agile prima del 15 e dopo il 15 ottobre, sarà interessante valutare come le aziende si comporteranno: si inserirà strutturalmente lo smart working come tipologia di lavoro stabile oppure ci sarà un totale ritorno al lavoro in presenza?
La disciplina normativa del lavoro agile, Legge 81/2017, definisce in modo chiaro e preciso le modalità per introdurre e gestire questa forma di lavoro in azienda, nell’immaginario comune e nel web spesso lo SW viene visto in modo distorto“.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/199834-OYMOLA-787.jpg5631000Elisa Bonatihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngElisa Bonati2020-09-16 10:00:482020-10-11 09:14:175 miti che sopravvivono ancora sul lavoro da remoto, da sfatare nel 2020
KitKat stringe una collaborazione con l’ente benefico “RU OK?” a sostegno della prevenzione dei suicidi, in Australia.
Per l’occasione il suo packaging si veste di nuovo, invitando tutte le persone ad un comportamento più attento e altruista.
Il famoso payoff dello snack KitKat – Have a Break– ci ha sempre invitato a concederci una meritata pausa dai momenti più stressanti. Ma questa volta il suo invito è rivolto ad una situazione particolare e per una causa molto più importante. In un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, Nestlè Australia ha stretto una partnership in prima linea con l’Organizzazione benefica “RU OK?“ che ha avviato un progetto di sostegno contro i rischi del suicidio attraverso un portale interamente dedicato alle diverse situazioni di negatività.
Una conversazione che potrebbe cambiarti la vita
Il brand, famoso da sempre per invogliare a prendersi una spensierata pausa dal lavoro e da circostanze impegnative, stavolta vuole incoraggiare le persone ad esternare le proprie emozioni negative, come solitudine paura o smarrimento, coinvolgendo altrettante persone nell’ascolto e nel supporto a distanza. Un punto molto importante di condivisione e di conversazione che si trasforma in dialogo e che diventa dunque aiuto prezioso specialmente in determinati frangenti.
Una sensibile iniziativa quella di Nestlè che purtroppo ancora non vedremo in Italia ma che sarebbe davvero necessaria, non solo in questo momento storico un po’ critico. Molte sono infatti le persone che non riescono a reggere il peso delle delusioni e quello di una vita che non va esattamente nella giusta direzione; poche sono le richieste di aiuto come poche sono le persone che riescono ad entrare in empatia con le altre. La società fatta di schermi, una quotidianità che va troppo di fretta, la paura di non farcela.
KitKat in una altruista edizione limitata
La campagna ‘Chit Chat’ per RU OK? di quest’anno vede KitKat come suo partner ufficiale che per l’occasione ha vestito di nuovo il suo dolce snack. Croccante dentro e solidale fuori, con il suo packaging creato ad hoc riportante la premurosa domanda RU OK? (Stai bene?) e che invita a collegarsi al sito per condividere pensieri e preoccupazioni grazie a conversazioni autentiche.
L’edizione limitata del pack del cioccolato KitKat, in vendita in Australia dagli inizi di settembre, è stata ideata proprio per aumentare la consapevolezza della necessità per tutti di fare una domanda tanto semplice quanto importante alle persone che abbiamo attorno. Stai bene? Potrebbe sembrare per la maggior parte di noi una frase retorica ma che si rivela di sicuro come un campanello di allarme per intuire una prima problematica in qualcuno dei nostri cari. Una domanda che va oltre: un’apertura ad un ascolto più profondo e a proposte di una conversazione meno frettolosa, più attenta ed insieme genuina.
Il progetto “RU OK?”con uno sguardo alla società si preoccupa di agevolare e suggerire connessioni reali ed autentiche. Unire le persone in un momento di fragilità, sostenere l’un l’altro attraverso l’espressione di debolezze comuni per non sentirsi diversi. Per non sentirsi soli e messi da parte. Insomma, un’azione altruista verso le persone a noi vicine e forse anche verso noi stessi. Una piattaforma di supporto che si augura di aiutare a prevenire lo scatenarsi di problematiche più profonde e che potrebbero, in alcuni casi, portare a pensieri di gesti estremi.
L’organizzazione benefica sottolinea di non volersi sostituire ad un aiuto professionale e competente ma di porsi meramente come connettore di scambi empatici ed emotivi, ponendo l’attenzione sulla condivisione ed il dialogo reali, valori che purtroppo questa nuova società sta perdendo.
Ed in questo atto generoso, un’azienda così importante non poteva non condividerne il valore più alto: quello della vita.
Brand, social responsibility e salute mentale
Sono in particolare i consumatori della Gen Z che si trovano ad affrontare livelli di stress senza precedenti, che danno valore alla salute mentale e si aspettano che i marchi si impegnino anche con le loro esigenze emotive in modo sincero. Secondo uno studio pubblicato dal Journal of Adolescent Health i tassi di depressione, autolesionismo e suicidio tra i ragazzi della Gen Z sono in aumento e sono addirittura raddoppiati nel corso del decennio in cui sono stati valutati gli studenti universitari.
Per questo l’esempio di KitKat è emblematico in questo particolare momento storico e può essere d’esempio per altri brand. La collaborazione con organizzazioni esterne può aiutare i marchi a mantenere la loro rilevanza attraverso la partecipazione, piuttosto che la semplice influenza.
È una linea sottile da bilanciare per i marchi e i marketer: infatti, se i social media sono uno dei punti di stress principale per i giovani, sono anche un canale di comunicazione fondamentale e utile per i brand.
Nella lotta per attrarre clienti della Gen Z, questa dicotomia si manifesta in modo ancora più importante.
L’American Psychological Association ha osservato che le notizie di sparatorie di massa, cambiamenti climatici e deportazioni sono altamente scatenanti e contribuiscono a creare un senso di ansia collettiva che permea la Gen Z, mentre i social media hanno promosso una cultura del cyberbullismo. Secondo un rapporto dell’UNICEF, un giovane su tre sperimenterà il cyberbullismo e la motivazione principale sarà il suo aspetto.
Lo spostamento dell’attenzione generazionale sulla salute mentale rappresenta un’opportunità per i brand, quando sono in grado di dare risposte al proprio pubblico. Posizionandosi come alleato, grazie alla collaborazione con organizzazioni e associazioni di beneficenza, possono mantenere la loro rilevanza.
Oltre a quello di KitKat, ci sembra utile riportare altri esempi pratici e case study per scoprire come i marchi possano davvero impegnarsi per le persone, amplificando la propria social responsibility.
Boohoo
Il rivenditore online orientato alla Gen Z, Boohoo, ha collaborato con l’ente di beneficenza anti-bullismo Ditch the Label per creare un video incentrato sulla causa, intitolato “The Insta-Lie”, che espone come la falsa percezione di vivere “vite migliori” sui social media abbassa l’autostima delle altre persone e rende più profonde le dipendenze online.
Adidas e Nike
Nel 2018 Adidas ha prodotto “Infinite Silence”, un cortometraggio del regista Max Luz, con protagonista il rapper e artista britannico Kojey Radical che parla di depressione, suicidio e dell’importanza del legame umano.
Lo scorso agosto, Nike ha lanciato le In My Feels Air Max, per raccogliere fondi per l’American Foundation for Suicide Prevention. La salute mentale è stata incorporata nel design della scarpa con un logo ondulato di swish reinterpretato per fare riferimento alle cime e alle valli della vita emotiva.
Le scarpe da 180 dollari sono andate esaurite in meno di 48 ore. Il successo delle scarpe da ginnastica indicava che la consapevolezza della salute mentale è in risonanza con i clienti.
JanSport
JanSport è un’azienda multinazionale che produce zaini e borse. Il brand ha dato il via a #LightenTheLoad, una campagna per aiutare a mettere in contatto i giovani con esperti della salute mentale – soprattutto nel periodo di acuto stress della pandemia COVID-19.
Ogni mercoledì di maggio, sul canale Instagram Live (con un archivio disponibile nella pagina dedicata alla campagna sul loro sito web), l’azienda ha proposto conversazioni con terapisti esperti.
Il marchio ha anche pubblicato sul suo sito informazioni di base, ma coinvolgenti, sulla salute mentale di organizzazioni come la National Alliance on Mental Illness (NAMI) e l’American Psychological Association, insieme a informazioni su linee telefoniche di aiuto in situazioni di emergenza.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/kitkat_australia_ninjamarketing.jpg469703Urania Frattarolihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngUrania Frattaroli2020-09-10 11:26:432020-09-10 11:26:43KitKat Australia lancia uno speciale 'Have a Break pack' e lo fa per una buona causa
Il mentoring è un’attività fondamentale per le aziende: permette di formare al meglio i propri manager del futuro.
Come prima cosa, devono essere dati alla risorsa gli strumenti di base per muoversi e in autonomia e spiegate aspettative, ruolo e attività.
Il feedback è l’attività più importante: permette alla risorsa di imparare dai propri errori e di migliorarsi ogni giorno.
Non sono poi così lontani i tempi in cui con le amiche si parlava delle prime giornate di stage. “Il mio tutor ha sempre da fare, dopo due ore che ho letto le mail non so più cosa fare senza di lui. Mi rimane solo il solitario.”
“Non so, invece a me piacerebbe sapere se quello che sto facendo lo sto facendo bene oppure no. Ma anche la mia capa è sempre via”.
Sebbene autobiografico, sono sicura che l’estratto qui sopra possa risultare familiare a chi sta muovendo i primi passi nel mondo del lavoro. Ma potrebbe non esserlo più. Come? Con un mentoring efficace da parte delle aziende.
In questo articolo, ispirato a uno studio dell’Harvard Business Review e dalla mia meno bibliografica esperienza personale, trovate una lista di tips & tricks per un mentoring consapevole. Diciamo così: un mentoring for dummies.
Qualsiasi posto di lavoro ha un archivio di cartelle che contiene documenti utilissimi per i nuovi arrivati. C’è chi usa Dropbox, chi Microsoft, chi Drive, ma il concetto è lo stesso.
La prima cosa che avrei voluto sapere da stagista era dove trovare i materiali importanti senza dover chiedere tutto al mio tutor. Ecco perché la prima cosa che ho fatto con la mia apprendista è stata dirle dove trovare tutti i documenti possibili.
Nel concreto è molto semplice: basta preparare una lista di file importanti con le indicazioni in merito alle cartelle in cui trovarli. Ah, e ovviamente condividerne gli accessi! Vi pare ovvio? Avrei dei ricchi aneddoti con cui farvi ricredere.
2. Mentoring e aspettative: definire ruolo e doveri
Tra i trick per un mentoring efficace, HBR suggerisce di redigere un documento di Baseline Expectations per le nuove risorse. Al suo interno possono essere approfondite responsabilità, task, modalità e qualsiasi altro aspetto si ritenga fondamentale. Uno strumento che lascia largo spazio all’interpretazione, ma che sottolinea un passaggio fondamentale del mentoring: la definizione del ruolo e delle attività.
Lavorare in autonomia quando si è nuovi nel mestiere non è facile. Non si possono improvvisare le proprie attività e questo spesso dà origine a frustrazione o senso di inutilità. La musica cambia quando si sa con certezza quali sono i task e come terminarli senza dipendere da altri. Impostare il lavoro secondo attività quotidiane e consolidate può rendere le nuove risorse mano a mano più autonome e soddisfatte sul lungo periodo.
Un’altra regola d’oro è quella di decidere in anticipo quanto tempo dedicare all’attività di mentoring. Non è una decisione facile, perché, per quanto sarebbe più comodo pensarla così, le risorse sono ancora umane e in quanto tali differiscono anche nel quantitativo di tempo che serve loro per imparare a fare qualcosa.
Tuttavia, è consigliabile inserire in agenda degli slot orari fissi in cui approfondire i temi chiave per l’apprendista. Mettiamo caso che questi debba imparare ad usare Google Analytics: non può farlo completamente da solo, perciò l’ideale sarebbe dedicare un monte orario iniziale per spiegargli bene come fare e dei meeting successivi con un tempo definito per la risoluzione dei dubbi.
I meeting non dovrebbero essere più lunghi di 50 minuti e prefissati nell’agenda da diverso tempo. In questo modo l’apprendista dovrebbe imparare a considerare il tempo come una risorsa preziosa, iniziando lui stesso a voler settare un’agenda e dei punti da smarcare il più velocemente possibile nel suo spazio di formazione.
In un mondo lavorativo perfetto, i senior manager avrebbero il tempo di formare tutte le risorse del mondo. Purtroppo, come si evince dai solitari a cui giocano gli stagisti, questa speranza non riflette la realtà. Tale discrepanza mi ha portata a riflettere su quali siano le risorse di un’azienda più indicate ad occuparsi del mentoring e, spoiler alert, la risposta non è facile né definibile a priori. Dipende dalle esigenze.
Imparare dai senior manager: la formazione in ascolto
Diciamo che scegliere una persona con decenni di esperienza ha come vantaggio tutto il bagaglio di conoscenze e di trick che quella persona è in grado di passare. Anche solo sentendola parlare: spesso mi è capitato di considerare “mentori” colleghi senior che non erano un mio tutor diretto né ufficiale, ma che durante i meeting mi hanno tenuta in ascolto e da cui ho appreso informazioni, scappatoie e trucchetti in poche decine di minuti. Certo, dall’ascolto alla pratica passa diversa acqua sotto ai ponti, ma è un inizio. Il contrappeso è che spesso i senior manager non hanno il tempo materiale di occuparsi delle nuove risorse.
Imparare con gli junior manager: l’affiancamento continuo
Per questo, una valida alternativa sono gli junior manager: risorse che da qualche anno si occupano di ciò che fanno e hanno ancora vivido il ricordo delle difficoltà di quando ancora erano stagisti. Una persona che è sul mondo del lavoro da 3-5 anni ha acquisito le competenze del ruolo, tendenzialmente è meno oberato di un suo superiore, fresco e forse anche felice di poter condividere quello che sa. Fare mentoring d’altronde è un atto di generosità, ma come tante attività altruiste, dà tanto anche a chi lo fa. Ti fa vedere le cose da un’altra prospettiva, ti rinfresca la memoria, ti sfida, ma soprattutto – parrebbe, sempre secondo un altro studio di Harvard– ti aiuta ad alleviare lo stress.
Un mentoring ibrido potrebbe essere la soluzione migliore: una figura junior-middle in affiancamento, un senior da cui ascoltare.
Ricordate il “mi piacerebbe sapere se quello che sto facendo lo sto facendo bene oppure no” in apertura all’articolo? Ecco, quella frase non è semplicemente una lamentela di una vecchia amica, ma uno degli aspetti più importanti del mentoring.
Per crescere veramente, una risorsa ha bisogno di un feedback continuo. Se chiedi un documento che poi devi aggiustare in qualche modo, non puoi semplicemente correggerlo e inviarlo al cliente. Altrimenti la prossima volta ci troverai dentro gli stessi errori, perderai tempo tu e la tua risorsa non avrà imparato.
Drive, per esempio, permette di visualizzare la cronologia dei documenti: un trick utile con cui lo stagista può osservare in autonomia tutte le correzioni. In seguito, se ci fossero aspetti non chiari li si può approfondire in meeting. Da 50 minuti massimo, ovviamente.
Per concludere, il feedback dovrebbe essere puntuale quando riguarda un singolo task,periodico per indagare eventuali difficoltà o punti di miglioramento e conclusivo al termine del periodo di mentoring. Non si può mica smettere di insegnare sul più bello.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/mentoring.jpg568820Cecilia Lorussohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCecilia Lorusso2020-09-09 15:02:232020-09-09 21:43:27Il mentoring in azienda è importante e ci sono delle regole da seguire
Cosa accadrebbe se i colori dei loghi dei più famosi brand esprimessero il colore del proprio top management?
A creare questa sorta di inside out, ci ha pensato il profilo Instagram @truecolors.official, powered by Eleonor Rask, direttrice artistica della famosa agenzia pubblicitaria di San Francisco, Goodbye Silverston&Parteners.
Ad oggi, nonostante le molteplici pressioni subite dalle aziende per cambiare la diversità della propria leadership, per il diversity management c’è ancora tanto da fare.
Django Unchained, di Quentin Tarantino, ispirato allo spaghetti- western Django (famoso film degli anni Sessanta con protagonista Franco Nero), racconta la storia di uno schiavo di colore (Jamie Foxx), che diventa un cacciatore di taglie sotto la guida di un ex dottore (Christoph Waltz).
Dopo aver lavorato insieme per tutto l’inverno, la coppia inizia poi a cercare la moglie dell’ormai uomo libero Django, Broomhilda, schiava del crudele proprietario terriero interpretato da Leonardo Di Caprio.
Candidato a cinque statuette ai Premi Oscar 2013, il film di Tarantino ne conquistò due.
In Italia il filma incassò 400.000 euro nel primo giorno di proiezione.
Ma cosa ne sarebbe stato del film se il protagonista fosse stato bianco? Probabilmente la trama sarebbe stata stravolta e la pellicola non avrebbe avuto alcun senso.
Immaginiamo, ancora, Will Smith in “La Ricerca della Felicità”. Avrebbe avuto lo stesso successo con un attore non di colore?
Continuando la stessa riflessione nel mondo del business, immaginiamo che i colori dei loghi dei più famosi brand diventino quanto più simili possibili al colore del proprio top management. Cosa succederebbe?
Il progetto TrueCcolors
Probabilmente i brand non sarebbero più distinguibili.
Nonostante le posizioni pubbliche prese in merito al razzismo, soprattutto durante l’esplosione del movimento Black Lives Matters, molti famosissimi brand continuano ad avere una leadership bianca tra le fila dei C-levels.
Il tutto mentre il mondo aziendale è costantemente sotto pressione per cambiare la diversità della propria leadership.
Adidas è 100% white, CNN è al 93% white, Tiffany&Co è per l’88% white.
Seguono poi Nike (85% white), Microsoft (81% white), Apple e Mc Donald (77% white). Fanno di meglio Uber (al 50%) e Hulu (al 44%), azienda che offre servizio internet di video su richiesta operante nella distribuzione di film, serie TV e contenuti di intrattenimento.
L’ideatrice di quest’assurdo, stimolatore di profonde riflessioni, è Eleonor Rask, direttrice artistica della famosa agenzia pubblicitaria di San Francisco, Goodbye Silverston&Parteners (GSP).
In questo caso, però il progetto non è affiliato con GSP. L’agenzia ha comunque una storia di impegno nel dialogo civico. A giugno, i direttori creativi associati Rony Castor e Anthony O’Neill Hanno lanciato il messaggio “Being Black Is Not a Crime”, supportando la comunità nera e il movimento Black Lives Matter.
Rask ha preso i loghi, li ha resi neri e poi ha applicato una sovrapposizione di colore bianco su ciascuno.
Ha scelto di non utilizzare un vero bianco in modo che, anche nel caso di un’azienda con un alto rapporto di leadership bianca, il logo potesse essere ugualmente visibile.
Rask ha poi adeguato la percentuale in modo che corrispondesse a quella di ciascuna società.
Apparso il 22 luglio, riproduce le immagini di famosi brand secondo la percentuale del numero di professionisti bianchi o neri presenti ai vertici aziendali.
Diversity management
La provocazione si inserisce perfettamente nel contesto della lotta al razzismo, supportando pienamente il messaggio promosso dal movimento Black Lives Matter.
Stimola, inoltre, una serie di riflessioni in merito al cosiddetto diversity management.
Nato negli USA sul finire degli anni Ottanta, il diversity management rappresenta un nuovo approccio alle persone all’interno delle risorse umane aziendali, in grado di valorizzare la diversità.
Fino a non molto tempo fa vigeva tuttavia una prospettiva che tendeva ad annullare le differenze e le diversità, secondo un modello in cui il lavoratore tipo era identificato con una persona sana, generalmente dalla pelle bianca e soprattutto di sesso maschile.
Solo sul finire degli ’80, molte aziende US based cominciarono ad accorgersi dell’enorme potenziale che andava sprecato in ragione delle discriminazioni.
L’intento del diversity management è quello di creare un ambiente di lavoro inclusivo, in grado di favorire l’espressione del potenziale individuale e di utilizzarlo come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi.
Guardando le percentuali white di @truecolors.official sembra però debbano essere fatti molti passi avanti.
In effetti, sono ancora molte le aziende che, nonostante lancino messaggi di supporto nei confronti del movimento “Black Lives Matter”, hanno vertici poco diversificati.
Il tutto nonostante molteplici studi condotti da importanti Business School dimostrino come la diversità sia un valore aggiunto che fa bene al business.
Diversità a tutto campo: culturale, di genere, religiosa.
E se per Django c’è stato il lieto fine, con la conquista della suo riscatto umano e sociale, rimaniamo fiduciosi e in attesa del lieto fine per il mondo del business.
Fingers crossed.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/diversity.jpg3891089Guenda Espositohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGuenda Esposito2020-09-08 10:08:452020-09-09 21:34:39Il progetto "TrueColors" ci mostra cosa manca oggi per il diversity management
Welfare, employer branding e trasformazione digitale sono solo alcuni dei temi cruciali per le aziende oggi. Ci troviamo a vivere un periodo di profondo cambiamento soprattutto per il mondo del lavoro e interrogarsi sulle principali soluzioni innovative di prodotto e di processo applicate al Talent Management non è più un’opzione ma una priorità.
Il 29 e 30 settembre 2020 torna HR Innovation Forum, la prima rassegna in Italia per discutere e confrontarsi sui nuovi trend e sulle più innovative soluzioni tecnologiche per la gestione delle Risorse Umane. Quest’anno con un formato tutto digitale.
Durante la quinta edizione dell’evento potremo conoscere i nuovi sviluppi nell’Employer Branding, il ruolo della Formazione nella Digital Transformation, il Gaming applicato all’Engagement e al Recruiting, il Benessere Organizzativo per migliorare la Produttività aziendale, lo sviluppo di nuove forme di Lavoro Agile.
Ma queste sono solo alcune della tematiche che saranno affrontate nel corso delle due giornate.
L’HR Innovation Forum è un’intera giornata di networking e di approfondimento sui più importanti trend del settore interamente dedicata ai manager e professionisti HR.
Il format prevede un ciclo di seminari in sessioni parallele sulle più innovative soluzioni digitali e non, legate al mondo HR; uno spazio espositivo nel quale aziende che forniscono servizi HR in outsourcing (HR Vendors) potranno promuovere i propri servizi. Ma soprattutto tante competenze, analisi, best practice e possibilità di fare rete.
Se sei un Manager HR impegnato ogni giorno a capire come attrarre, selezionare e trattenere le persone di talento per la tua azienda, allora questo evento è indispensabile per te e per il tuo lavoro. Potrai incontrare fornitori eccellenti (Exhibitors), sia italiani che stranieri, con servizi e soluzioni veramente innovative per le attività di Talent Management, avrai la possibilità di approfondire e capire meglio come usarli per i tuoi scopi e, soprattutto, quali benefici potrai ottenere.
Ma non solo. Avrai la possibilità di acquisire nuove conoscenze su strategie e nuovi trend nella gestione HR seguendo i seminari gratuiti previsti dal nostro programma e condividere esperienze di lavoro confrontandoti con altri colleghi. E ci saremo anche noi di Ninja Academy, con la nostra Corporate Training Manager Federica Bulega, che sarà Conference Leader della giornata del 29 settembre.
Durante la due giorni, si svolgeranno seminari e workshop di approfondimento in sessioni parallele per conoscere i nuovi trend nelle attività di attracting, engagement e retention dei talenti. Saranno coinvolte aziende che si sono particolarmente distinte nello sviluppo di strategie HR e che hanno acquisito una consolidata esperienza sul tema.
Le best practice, lo sappiamo, costituiscono efficaci modelli di riferimento per tutte quelle aziende che sono alla ricerca di stimoli per innovare le proprie attività di Talent Management e i massimi esperti del settore saranno coinvolti per condividere esperienze e dati relativi alle ultime ricerche effettuate sul campo.
Come partecipare a HR Innovation Forum?
La partecipazione all’HR Innovation Forum è gratuita e riservata solo al personale Executive della funzione HR con particolare riferimento agli HR Director e HR Manager.
L’iscrizione comprende: accesso ai webinar, possibilità di gestire incontri one-to-one con gli exhibitor, slide e materiale didattico relativo ai contenuti dei seminari (post evento).
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/09/hr-innovation-forum-2.jpg408716Ninja Partnerhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Partner2020-09-07 12:30:332020-09-26 16:52:43Torna HR Innovation Forum, in una edizione full-digital
Vuoi fare Carriera nel Digital Business?
+100.000 professionisti e 500 grandi aziende hanno incrementato i loro Affari grazie a Ninja.
Non aspettare, entra subito e gratis nella Ninja Tribe per avere Daily Brief, Free Masterclass e l’accesso alla community di professionisti.