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Escape room team building

Il fenomeno Escape Room: dal Team Building ai giochi da tavola

  • Le Escape Room sono arrivate in Italia solo nel 2015 diventando subito un fenomeno di successo.
  • Non solo intrattenimento ma anche un valido strumento di Team Building.
  • Un’idea intermediale che si è sviluppata anche nel mondo dei libri e dei giochi in scatola.

 

Sei in una Escape Room, a un metro da te trovi un lucchetto che chiude una cassa. Per trovare la combinazione hai solo un foglio di carta con scritto: “Trova l’ultima cifra della serie numerica e utilizza il codice per aprire il lucchetto – 4 7 5 6 ?

Quella appena descritta è una classica situazione da Escape Room, fenomeno che sta crescendo sempre di più ampliando i propri orizzonti nelle applicazioni più varie: dagli strumenti di team building ai libri passando anche per i giochi in scatola. Ma andiamo con ordine.

Cosa sono le Escape Room?

Per Escape Room si intende un gioco in cui i partecipanti devo sfruttare le loro abilità logiche, deduttive e fisiche per riuscire a risolvere una serie di enigmi che li porteranno alla vittoria: uscire dalla stanza prima dello scadere del tempo.

Stranger Things escape room

Si tratta, quindi, di un “gioco evento” in cui i giocatori si trovano fisicamente all’interno di una stanza (a volte possono essere anche più di una o, addirittura, un intero edificio o area). Le stanze sono sempre a tema, si va dall’horror all’avventura passando anche per stanze ispirate alle serie tv più famose come Stranger Things o La Casa di Carta.

Come fenomeno, quello delle Escape Room, prende spunto da diversi format televisivi degli anni ’80 / ’90 in cui i concorrenti erano messi alla prova con giochi di abilità e logica. Un esempio tutto italiano è il programma di Rai 1 Luna Park (andato in onda dal 1994 al 1997).

Altro elemento di ispirazione sono stati i numerosi videogame “punta e clicca” dove si dovevano risolvere indovinelli utilizzando gli oggetti. Un esempio il famosissimo The Secret of Monkey Island del 1990.

Monkey Island

La prima Escape Room nacque nel 2008 dalla mente di Takao Katoe, si svolgevano all’interno di bar e locali dove venivano inseriti oggetti e indizi. In Europa arrivarono nel 2011, prima in Ungheria. In Italia arrivarono nel 2015, prima a Torino e poi in tutte le principali città.

Escape Room in Italia: alcuni dati

Escape Room in Italia, i dati

Fonte: www.nonoia.it

Team Building in una Escape Room

Oltre ad essere un ottimo passatempo con gli amici, le Escape Room sono anche ideali per attività di team building. Grazie alla loro struttura, sono perfette per rafforzare il team e vi spieghiamo perché: 

Stimolano il pensiero laterale

Le Escape Room ci proiettano in un mondo straordinario rompendo la routine lavorativa. Il team viene catapultato fuori dalla comfort zone dell’ufficio in una situazione fantastica, misteriosa o horror.

Inoltre gli enigmi proposti sono spesso risolvibili solo se si ribaltano i normali schemi logici: mettere i giusti cappelli sulla cappelliera seguendo le foto poste sul muro di fronte, trovare il codice di un lucchetto sfogliano un libro o ancora ruotare delle manopole per aprire una porta segreta. 

Questo approccio stimola il pensiero “fuori dagli schemi” e la creatività mettendo in luce aspetti nascosti dei membri del nostro team. Possiamo scoprire che il nostro vicino di tavolo è bravissimo con gli anagrammi e la nostra collega è abilissima a trovare gli oggetti nascosti.

Obiettivo comune, collaborazione necessaria

Nell’ambiente lavorativo, solitamente, si hanno obiettivi specifici: ognuno di noi ha delle mansioni da svolgere e delle responsabilità individuali. In una Escape Room no. O tutti vincono o tutti perdono, non ci sono mezze misure.

Tutto il team deve necessariamente fare gioco di squadra per poter vincere, sabotare gli altri vuol dire perdere e anche non impegnarsi attivamente. 

Power rangers team building

Addio agli schemi gerarchici

Come abbiamo detto prima, le Escape Room ci portano all’interno di realtà particolari: una casa infestata da spiriti maligni, un laboratorio del 1800, il sottosopra di Stranger Things. In un contesto come questo anche le dinamiche di ufficio crollano.

In una Escape Room cambiano le dinamiche tra persone, il modo di parlarsi e anche quello di “dare gli ordini”. Non ci troviamo più a lavoro ma in un ambiente totalmente differente dove, in pochissimo tempo, dobbiamo risolvere intricati puzzle. 

Ecco allora che la stagista diventa leader, il capo un abilissimo esecutore e il nostro vicino Nerd il motivatore del gruppo.

L’importante è riflettere

Che si vinca o no, le Escape Room sono un importantissimo strumento di analisi e riflessione. Una volta finita l’attività è importante riunirsi e riflettere su quello che è successo: come sono state risolte le difficoltà? In cosa abbiamo perso tempo? Quale aspetto devo migliorare? Quali skill pensavo di non avere e invece mi hanno sorpreso?

Non solo, questa esperienza può essere anche molto utile per chi si trova a capo del team: quali sono state le “crepe” del mio team? Su quali abilità il mio team è carente e va rafforzato? Ci sono elementi di disturbo? Quali sono le abilità che non avevo notato nei membri del mio team?

Escape Room 2.0: dai libri ai giochi da tavola

Le Escape Room sono diventate, in poco tempo, un vero e proprio fenomeno mondiale, tanto da attirare l’attenzione anche di case editrici di libri e di giochi da tavolo.

La casa editrice Il battello a vapore ha da poco distribuito una collana di libri dal titolo Escape Book. Si tratta di una coraggiosa e ben riuscita trasposizione su libro dell’esperienza Escape Room. Le regole, ovviamente, sono state adattate ma il succo resta lo stesso: riuscire a raccogliere indizi per risolvere gli indovinelli e saltare di pagina in pagina verso l’happy ending.

Escape room book

Abbiamo provato uno dei volumi della collezione, l’esperienza non è niente male: divertente, veloce e immersiva. La difficoltà è ben calibrata e il libro risulta godibile fino alla fine. Paragonarlo ad una Escape Room è impossibile perché si tratta di due esperienze totalmente differenti: da un lato un’attività collettiva e immersiva, dall’altro un’attività più personale.

Cambiamo genere con il gioco da tavola Mystery House distribuito in Italia da Cranio Creations. Questo interessante gioco da tavola vuole riportare nel salotto di casa l’esperienza delle Escape Room attraverso la riproduzione tridimensionale della casa da cui dovrete fuggire.

Mystery House

Il gioco ha appena vinto il Premio Toy Award 2020 alla fiera Spielwarenmesse di Norimberga, il più importante evento del settore dei giocattoli rivolto ad appassionati, startupper e grandi distribuzioni.

Mystery House non è il solo gioco a tema, per citarne alcuni della serie Escape Room (sempre di Cranio Creation), che vede diverse ambientazioni come quella Jumanji o parco giochi dell’orrore. 

Exit, di Giochi Uniti, è un gioco da tavolo che emula l’esperienza Escape Room con una modalità particolare: il gioco, una volta completato, può essere buttato. Questo perché giocando si vanno a modificare dei componenti del gioco (si aprono delle buste, si strappano delle carte, ecc.). In questo modo il gioco è un’esperienza che può essere vissuta una volta sola (buona la prima!).

Il gioco Unlock – Escape adventures, di Asmodee Italia, si sviluppa sia attraverso le carte che con un’app che oltre a fare da timer, svolge la funzione di sblocco degli enigmi. Inoltre, grazie alle musiche coinvolgenti, l’atmosfera è assicurata.

Con mani ferme e decise ti avvicini al lucchetto e inserisci la corretta serie numerica: 4 7 5 6 e per ultimo il 3. La soluzione è facilissima, ogni numero è la somma delle lettere del numero precedente. Quattro ha 7 lettere, sette ne ha 5, cinque ne ha 6 e per finire sei ne ha 3. Il lucchetto scatta, apri la cassa e…

south working

South Working: una moda o l’inizio della fine del lavoro in ufficio?

  • Il South Working è una modalità di lavoro che ha preso piede post lockdown e prevede di lavorare per aziende “del Nord” vivendo al Sud, con tanti vantaggi.
  • Ci sono tanti vantaggi ma anche rischi, specialmente per le grandi città che si vedono spopolate: è una moda o un cambiamento destinato a cambiare le nostre vite?
  • I pro e i contro sono difficili da bilanciare: la crisi delle città aiuta la rinascita dei borghi, le difficoltà del lavoro da remoto si equilibrano con una maggiore qualità della vita, l’outsourcing si contrasta con la specializzazione.

 

Dì la verità: quest’anno, controllare le mail la mattina e fare qualche telefonata di lavoro prima di andare al mare, o a goderti in altro modo il mese di agosto, ha un altro sapore.

Non ti fa sentire uno stacanovista pentito, anzi ha un che di nuovo, esotico, ti fa sentire un “south worker“.

Piccoli assaggi e prove tecniche di lavoro da remoto che, complici il Coronavirus e l’estate, hanno portato alla ribalta un concetto noto da tempo a chi si considerava o aspirava ad essere un nomade digitale: la qualità della vita ha un valore economico tutto suo.

Il lavoro da remoto potrebbe liberare dalla schiavitù del pendolarismo, delle città affollate, dei prezzi gonfiati, permettendo di vivere in luoghi in cui la vita costi meno e sia più piacevole. In Italia, questo è ovviamente stato identificato con il tanto bistrattato “Sud“.

Una zona geografica che da secoli vede un’emigrazione selvaggia verso il “Nord”, con le sue grandi città e i centri dell’economia, di giovani e meno giovani in cerca di università quotate e possibilità di lavoro. Un flusso che è stato quasi inarrestabile, nonostante timidi tentativi di incentivare la crescita del Meridione da parte di diversi governi, fino a che…

Fino a che il Coronavirus non ha colpito l’Italia. E allora le stazioni e gli aeroporti delle grandi città del Nord si sono riempiti di esuli in fuga, alcuni prima della quarantena, altri, tantissimi, dopo, quando la mobilità tra regioni è stata ripristinata ma le restrizioni hanno continuato a incentivare il lavoro da remoto.

E ora? Adesso che l’estate è quasi finita? Tantissimi non hanno avuto ferie o ne hanno avute poche, ma hanno ugualmente scoperto la possibilità di lavorare dalla “casa giù e di godersi pausa pranzo e aperitivo in riva al mare. E la maggior parte di loro, come ci si poteva aspettare, non vorrebbe tornare.

Ma questa cosa del South Working è sostenibile? È una moda, qualcosa che ci dimenticheremo nuovamente con i primi freddi? O è piuttosto il sintomo di un cambiamento epocale nel mondo del lavoro? I primi fiocchi di neve che scateneranno quella che sarà una valanga, che cambierà per sempre il volto delle nostre città, il modo in cui cresciamo i figli, l’aspetto degli uffici, l’economia del Paese e l’ecosistema di equilibri del mondo intero?

 

Il movimento del South Working

Il termine South Working, come abbiamo visto, è solo la più recente evoluzione di altri concetti preesistenti, primo tra tutti quello di Nomadismo Digitale. Solo che di solito chi si riferiva a questo termine intendeva un flusso di lavoro fatto principalmente di freelance o di dipendenti di aziende remote che si spostavano in altri Paesi, nonostante non fosse certo l’unica modalità. Il concetto su cui invece il termine South Working si concentra è che quell'”altrove” in cui la vita costa meno ed è più piacevole può essere estremamente vicino, in Italia – al Sud o nei tanti piccoli borghi, laghi, montagne e colline di cui il nostro Paese è pieno.

Avevamo parlato in un precedente articolo di come l’Italia non fosse abbastanza attraente per i nomadi digitali stranieri, rendendo ad esempio impossibile per noi fare una campagna come quella delle Barbados per attirare questo target. Ma il concetto di South Working inverte la rotta e va a pescare proprio tra gli italiani, promettendo loro uno stile di vita più rilassato, più piacevole e meno costoso.

Ne è autrice Elena Militello, che insieme ad altri ragazzi che aderiscono all’associazione Global Shapers del World Economic Forum ha deciso di impegnarsi per rendere la sua visione realtà. Come ha riportato in un’intervista a Repubblica, “un mondo nel quale alle persone sia consentito per periodi più o meno lunghi di trasferirsi al sud dove la qualità della vita è più alta e il costo molto più basso mantenendo il proprio posto nelle aziende attuali”.

Un sogno bellissimo, condiviso da molti, inclusa me – milanese di origine ma marchigiana di adozione, per pura scelta di qualità della vita.

Un sogno appoggiato dai tanti lavoratori che quest’estate, appunto, non vivranno l’assenza di vacanze in maniera così negativa grazie alle possibilità concesse dallo smart working imposto dal Covid.

Un sogno osservato con interesse dalle varie località del Sud (o dei piccoli borghi, che ci vedono una possibilità di destagionalizzazione e di “rivincita” nell’attirare i talenti dal Nord.

 

Il lavoro da remoto tra utopia, innovazione e crisi

Ma anche una pericolosa possibilità da evitare o da contenere, secondo altri. Come il sindaco di Milano, che vede questa “fuga” dalla sua città come un pericoloso precedente, e incita a “tornare al lavoro” gli smart workers. Attirando una comprensibile valanga di critiche sui social.

Ma in verità la faccenda è seria: effettivamente questo cambiamento, se permanente, può portare a svolte epocali al modo di vivere che conosciamo. Le città potrebbero dover cambiare volto, vedendo sfumare milioni e milioni di euro di indotto portati dai lavoratori residenti, dai pendolari, da chi pranza al bar sotto l’ufficio, chi prende metropolitana e treno ogni giorno, etc.

Ma gli effetti positivi? La riduzione dell’inquinamento? Del traffico? Il calo dei prezzi eccessivamente gonfiati da anni? La redistribuzione della ricchezza nel resto del Paese? Il miglioramento nella qualità della vita dei cittadini, se anche solo il 10% di loro lavorasse da remoto?

Dire che il lavoro da remoto sia un male perché rischia di portare un cambiamento difficile per alcuni aspetti, promettendo però in cambio grandi miglioramenti su altri, è come dire che avremmo dovuto fermare l’avanzata del Personal Computer perché rischiava di cannibalizzare posti di lavoro umani.

Bisogna decidere che prezzo si è disposti a pagare per il progresso, quanto la nostra sia solo paura del cambiamento, cosa si possa fare per garantire il benessere anche di quelle fasce di popolazione che saranno impattate negativamente, a fronte di quelle che invece vivranno un ritorno positivo.

È una valutazione difficile, perché mettere sul piatto della bilancia i pro e contro di quella che rischia di essere una rivoluzione culturale prima di tutto non è semplice. Ma vogliamo provarci, cercando di portare argomentazioni da entrambe le parti.

 

Lavoro da remoto per tutti: i vantaggi e i limiti del nuovo mondo che potremmo creare

Come lo ha definito l’Economist, questo potrebbe essere un momento tipo “Avanti Coronavirus”/”Dopo Coronavirus“. Che il lavoro stesse cambiando era noto a tutti, ma che i tempi della transizione sarebbero stati così rapidi era impensabile tanto quanto lo era l’idea di un virus che ci richiudesse tutti in casa.

Ora invece, in pochi mesi, è cambiato tutto. Le aziende si sono dovute dotare per forza delle infrastrutture tecnologiche base per rendere possibile lo smart working, pena il blocco completo delle attività se non lo avessero fatto. Anche culturalmente il passaggio è stato rapido: dall’essere considerato una scelta per lavativi e “femminucce”, ora è stato sdoganato.

L’ufficio non come gabbia ma come scelta

I contro sono molti per il lavoro in sé, come la maggior parte delle persone si è resa conto in questi mesi: lavorare da remoto non è una cosa facile (qui la nostra guida interattiva) , specialmente farlo in pianta stabile. Le videochiamate non hanno la spontaneità degli incontri di persona, il cameratismo tra colleghi è più difficile da alimentare, la creatività anche. Molte aziende hanno fatto grandi investimenti in immobili che rischiano di veder svuotati.

Eppure, dall’altra parte, i vantaggi sono innegabili: le ricerche dimostrano un generale incremento della produttività, contro ogni pronostico, maggiore soddisfazione e più responsabilità individuale. Servono nuove normative e capacità gestionali per evitare il rischio di burnout o l’aumento esponenziale delle ore lavorate, ma questi sono aspetti legati all’abitudine e all’evoluzione delle modalità, prevedibili e necessari in ogni grande cambiamento.

Secondo Fiorella Crespi, a capo dell’Osservatorio sullo Smart Working del Polimi, che ha registrato un passaggio da 2 milioni di lavoratori agili prima del Covid ad 8 nella fase successiva: “Deve esserci una cultura aziendale che sappia creare dei momenti di aggregazione, compresi quelli virtuali. Bisogna avere dei manager capaci. Ci sono compagnie che lo fanno da anni con successo, ad altri servirà tempo per trovare la quadra e non è detto che ci si riesca sempre”.

 

La crisi delle città, la rinascita dei borghi

I costi per le aziende di abbassano insomma, ma anche per gli impiegati, che a parità di stipendio possono ridurre le spese di viaggio, per il cibo, etc. Le città quindi tornano vivibili, meno affollate, meno costose, con ridotte emissioni di CO2 e tutto ciò che accompagna.

È innegabile che per città come Milano, che hanno basato tutta la propria crescita sull’attrazione dei talenti per il lavoro, rischia di essere uno shock, ma forse vedere la crisi di alcuni centri di potere come effetto negativo è non guardare il quadro completo. Questa supremazia ha avuto effetti devastanti per anni su altre città e regioni, con uno spopolamento progressivo e inarrestabile, una stagionalità estremamente aggressiva e dannosa dei flussi turistici, la concentrazione di tutte le attività intorno a un solo settore (il turismo, l’agricoltura, etc).

L’espansione del lavoro da remoto potrebbe rappresentare la possibilità di riequilibrare la disparità tra Nord e Sud, tra grande e piccolo, tra forte e debole, in un circolo virtuoso che toglie in alcuni punti per restituire in altri.

 

I rischi dell’outsourcing al Sud come dall’India

Da molti è stato indicato come grosso rischio del “south working” il fatto che le aziende possano decidere, a parità di assenza dall’ufficio, di assumere i propri talenti non al sud Italia ma a questo punto direttamente in Paesi dal costo della manodopera basso, come l’India o la Romania.

Di nuovo, un’argomentazione valida ma un po’ miope, perché questo processo è già in corso in maniera massiccia: intere linee produttive vengono delocalizzate in questi Paesi, con manodopera a basso costo acquisita in blocco.

È certamente una minaccia del futuro del lavoro, che però l’aspetto remoto non enfatizza in modo particolare, spingendo anzi verso una specializzazione delle competenze utile in ambito lavorativo, e allargando il bacino delle possibilità lavorative al di fuori di quelle rinchiuse in una data area geografica.

Come risponde la stessa Militello in un’intervista, “il target principale di un progetto come South Working è rappresentato dai lavoratori altamente qualificati, che apportano un elevato valore aggiunto alle aziende per cui lavorano. E che, perciò, dovrebbero resistere meglio alle trasformazioni dirompenti del mercato del lavoro che si prospettano”.

Trasformazioni che tra l’altro rischiano di essere impattate molto di più dall’intelligenza artificiale, dal machine learning e dalla robotica su cui potrebbe puntare l’Unione Europea, che non dal lavoro da remoto al Sud.

Insomma, per argomentazione negativa se ne può trovare una positiva, uguale e contraria.

Quale strada prenderemo? Sarà veramente questo il futuro del lavoro? Riusciremo a superare tutte le difficoltà e i preconcetti e a vedere un mondo dove il lavoro non è svolto “dove” o “quando”, ma “come”?

Oppure questa moda del South Working si spegnerà con la fine dell’estate, al cadere delle prime foglie dagli alberi? O all’arrivo del vaccino contro questo virus, che ci ha forzati a guardare ciò che pensavamo impossibile e a realizzarlo?

Sono domande che non hanno risposta, ma è difficile pensare sia un estremo che l’altro: sia che ci sarà un’adozione di massa dello smart working (a meno di non introdurre una decisa azione di incentivi verso i datori di lavoro), sia che si tornerà a lavorare come prima.

Il più probabile decorso è che, dopo questa impennata iniziale, la curva torni ad abbassarsi… ma una volta scoperta la possibilità di fare una cosa in modo diverso, è difficile far finta che non sia così.

E probabilmente questo cambiamento epocale, in cui risultato finale è ignoto a tutti, ha avuto un’impennata imprevista che non potrà durare di pari intensità, ma è ormai ben avviato e non si può fermare.

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Il ritorno in classe si fa anche con la didattica integrata: WeSchool accelera e aiuta le scuole

WeSchool, la startup che dal 2016 aiuta i docenti con una piattaforma di classe digitale e con corsi sulle metodologie didattiche innovative, chiude un aumento di capitale da 6,4 milioni di euro sottoscritto da P101, lead investor con i fondi P102 e Italia 500 – Gruppo Azimut, TIM Ventures, CDP Venture Capital Sgr, Club Digitale e Club Italia Investimenti 2.

“TIM Ventures ha creduto fin dalla sua nascita in WeSchool, investendo dall’inizio nella nuova didattica innovativa che sta diventando sempre più importante”, dichiara Carlo Nardello, Presidente di TIM Ventures e Chief Strategy, Customer Experience and Transformation Officer di TIM. “La partecipazione alla crescita di una piattaforma che è oramai diventata una delle infrastrutture digitali della scuola italiana conferma ancora una volta il ruolo centrale di TIM nella digitalizzazione del Paese”.

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La startup, il lockdown e la DAD

WeSchool ha 1,7 milioni di utenti registrati e permette ai docenti di condividere materiali e video, fare esercizi, discutere con gli studenti e innovare la didattica in aula con lavori di gruppo, test istantanei e con metodologie come la classe capovolta o il teach-to-learn, in cui sono gli studenti – supportati dai docenti – ad essere al centro del processo di apprendimento.

Durante il lockdown la piattaforma – unica italiana tra le tre indicate sul sito del Ministero dell’Istruzione – è stata utilizzata per la didattica a distanza, permettendo a più di 1 milione di utenti attivi ogni giorno da smartphone o da computer di non interrompere la continuità didattica.

“La didattica a distanza del lockdown, talvolta inefficace per mancanza di strumenti adeguati o perché ripeteva la dinamica frontale delle aule, ha avuto lo straordinario effetto di aumentare le competenze digitali di tutta la scuola italiana” – racconta Marco De Rossi, fondatore e AD di WeSchool – “Questo ci permetterà con il back to school di diffondere sempre di più il modello di didattica integrata in cui crediamo, in cui la tecnologia è usata sia in aula sia a casa ed è al servizio del docente per fare una didattica sempre più coinvolgente e cooperativa”.

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Si ritorna sui banchi in presenza, ma la didattica digitale resta

“Il settore dell’educazione e della formazione in generale sono in profonda trasformazione: la vita sempre più digitale richiede che le competenze si formino in un ambiente coerente e flessibile. WeSchool rappresenta oggi la piattaforma all’interno della quale la didattica ed i suoi attori possono trovare quello che serve alla scuola nel suo complesso per questa evoluzione che il lockdown non ha fatto altro che accelerare” – commenta Andrea Di Camillo, Managing Partner di P101.

Se infatti con sempre maggiore premura ci si prepara oggi al rientro in classe, la didattica a distanza non tornerà ad essere una chimera, ma entrerà in modo sistematico nel mondo dell’istruzione italiano, tra classi alternate e necessità di mantenere il distanziamento sociale.

La formazione digitale resterà quindi una realtà e con gli strumenti corretti può trasformarsi in un modo per potenziare l’offerta scolastica.

“L’istruzione, la formazione digitale e la didattica integrata sono priorità per un’Italia che riparte” – ha commentato Francesca Bria, Presidente di CDP Venture Capital Sgr – “Ripensare la scuola, alla luce delle trasformazioni in corso, è fondamentale per il futuro del nostro Paese, per supportare il talento di docenti e studenti occorre rafforzare le nuove metodologie di apprendimento digitale. WeSchool si è messa al servizio della scuola con visione ed efficacia durante l’emergenza Covid-19 e siamo lieti di supportare una piattaforma italiana con forti capacità di crescita in un settore così strategico nella convinzione che l’istruzione e la conoscenza siano il cuore della democrazia”.

Leggere più libri senza impazzire: una guida in 25 punti

  • Leggere più libri stimola la mente e ci aiuta a ripartire dopo periodi di crisi.
  • Ecco come leggere più libri e lasciarsi ispirare dal potere della narrazione.

 

Vi siete mai chiesti se siamo davvero pronti per ripartire? Questi mesi in cui tutto è incerto, ricominciare a sognare, a rimettersi in gioco con i propri progetti, sembra essere la cosa più difficile del mondo. Ma è la cosa di cui abbiamo più bisogno. Vogliamo riconnetterci con noi stessi, riconciliarci con ciò che ci circonda. Desideriamo oltrepassare i confini della nostra comfort zone e tornare a immaginare. Abbiamo bisogno del potere immaginifico della narrazione, dobbiamo leggere più libri.

Leggere più libri è fondamentale per ripartire

Leggere libri stimola il cervello e la fantasia, inoltre migliora l’intelligenza emotiva che ci permette di entrare in contatto con le nostre emozioni, a comprenderle, e di conseguenza a relazionarci meglio con gli altri.

La lettura stimola l’intelletto creando simulazioni mentali delle storie che stiamo leggendo. Infatti, immersi in un racconto, ci ritroviamo a vivere in un’altra dimensione parallela alla nostra realtà, in cui ci abbandoniamo totalmente.

Un altro aspetto positivo di leggere, è l’aumento della concentrazione e della memoria. Entrare in contatto con i personaggi, con i loro particolari e dettagli, con l’ambientazione e la storia, ci aiuta ad analizzare meglio ciò che succede intorno a noi. E ancora, leggere un libro, magari seduti all’ombra di un albero in un parco, o sotto l’ombrellone, ci permette di rallentare e di rilassarci. Inoltre, lo sapevate che le persone di successo leggono tantissimo?

Leggere più libri: basta scuse

Ci lamentiamo spesso di non avere il tempo per dedicarci ai libri, che siamo troppo impegnati o che, raramente lo ammettiamo, non ci va di leggere perché preferiamo fare altro (ed è lecito). Ma per chi vuole leggere sempre di più o per chi non riesce a superare il “blocco del lettore”, abbiamo una bella notizia, anzi una vera e propria guida per leggere più libri senza stress.

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Leggere più libri: la guida in 25 punti

Lasciatevi ispirare da questa guida in 25 punti, ma prima di iniziare dobbiamo ricordare una cosa fondamentale: leggere è prima di tutto un piacere, uno stimolo divertente, e non sarà mai un obbligo.

1. Rendere la lettura una routine

Il modo migliore per leggere costantemente è quello di dedicare intenzionalmente più tempo alla lettura. È importante rendere la lettura un’attività quotidiana. Un’idea potrebbe essere quella di svegliarsi prima al mattino, e leggere un capitolo prima di sorseggiare un caffè. Possiamo leggere anche durante la pausa pranzo al lavoro, invece di consultare i social. Man mano che leggere diventerà un’abitudine, difficilmente riusciremo ad abbandonare questa piacevole pratica.

2. Leggere appena svegli

Una lettura al mattino, quando tutti ancora dormono è piacevole e ci permette di cominciare la giornata nel migliore dei modi. Un’attività gratificante e stimolante per la nostra mente, un’abitudine che ci aiuterà a leggere più libri ogni giorno.

3. Leggere prima di addormentarsi

Se non riusciamo a leggere la mattina perché siamo sempre di corsa, il momento perfetto può essere di sera, prima di andare a dormire. Non c’è niente di meglio che rilassarsi a letto con un buon libro e lasciare il mondo fuori.

4. Leggere mentre facciamo qualcosa di poco impegnativo

Possiamo leggere, o meglio ascoltare, un libro mentre ci alleniamo, sostituendo alla nostra solita playlist un audiolibro, oppure finire quel capitolo che abbiamo lasciato in sospeso, mentre cuciniamo, ma anche durante un bagno rilassante. Insomma quando siamo occupati a svolgere qualche attività non troppo complessa, accompagnarci ad un buon libro, anche se qualcosa di leggero, può essere un ottimo compromesso per leggere più libri.

5. Avere sempre un libro con sé per leggere più libri

Un libro è un compagno di avventura con cui non ci si annoia mai. Ci sono tanti momenti inaspettati della giornata che possono diventare piacevoli con la lettura. Un modo per leggere più libri è proprio quello di portarne sempre con sé uno, ma anche un eReader, o scaricare un’ App di lettura. Anche essere in fila alla cassa ad aspettare il proprio turno, o seduti in sala d’attesa dal dottore, possono diventare tutte occasioni di lettura.

6. Fissare un obiettivo per leggere più libri

Un espediente utile per leggere più libri è quello di fissare un obiettivo di lettura. Stabilirne uno infatti ci aiuta a rimanere focalizzati e motivati per raggiungere il nostro traguardo. Ovviamente l’obiettivo fissato deve essere concreto per evitare di demotivarsi.

7. Ascoltare audiolibri

Gli audiolibri si sono dimostrati una risorsa molto utile e pratica per chi vuole leggere più libri. Possiamo consultarli ovunque e in qualsiasi momento, anche se siamo svolgendo svariate attività dove mani e occhi sono impegnati. Inoltre per chi già passa tante ore al computer, possono essere un’ottima alternativa per non sforzare ulteriormente la vista.

8. Giocare con i generi letterari

Una cosa da non sottovalutare per leggere più libri è quella di mixare generi e magari autori dopo aver terminato un libro. Siamo in fissa con Zadie Smith e abbiamo divorato quasi tutti i suoi libri, ma non riusciamo ad andare avanti con altre letture? Il consiglio è quello di cambiare completamente genere e autore.

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9. Unirsi ad un club del libro

Se non vi sentite stimolati a leggere e non sapete più cosa provare, che ne dite di un club del libro?

In primo luogo le riunioni programmate del club incoraggiano a finire un libro entro la data disegnata, ma soprattutto vivere un gruppo dove si parla di libri è un ottimo modo per sentirsi coinvolti nella lettura. Terza cosa, il club dei libri, avendo una programmazione stabilita, ci permette di saper già cosa leggere, senza farci sentire in difficoltà sulla prossima scelta da fare.

10. Leggere cose nuove

Se siete amanti dei racconti o dei romanzi e non avete mai letto un fumetto, perché non provare? Per leggere più libri è importante provare nuovi genere letterari, iniziando a leggere anche un tipo di testo che non avreste mai immaginato di sfogliare.

11. Leggere più libri contemporaneamente

Solo all’idea di leggere più libri insieme vi viene l’emicrania? Possiamo leggere più libri, diversi tra loro, contemporaneamente per stimolare la mente e scegliere l’uno o l’altro in base alla situazione o al nostro stato d’animo. Siamo immersi nella lettura di un romanzo di Stephenk King ma non riusciamo a finire l’ultimo capitolo perché inquieti? Passiamo a qualcosa di diverso, magari ad un saggio.

12. Leggere con qualcuno

Bloccati sulla stessa pagina da giorni, non riusciamo ad avanzare nonostante le idee proposte finora. Avete provato a leggere con un amico? Discutere di ciò che stiamo leggendo con qualcuno può darci il giusto incoraggiamento per finire il libro e rivedere insieme i tratti che più ci hanno emozionato.

13. Creare il proprio angolo di lettura

A volte quello di cui abbiamo veramente bisogno è il posto giusto per iniziare la nostra avventura narrativa. Creare il proprio angolo relax per immergerci nelle nostre letture può stimolarci a leggere più libri e con il giusto mood.

14. Non esagerare con le maratone letterarie

Quando cominciamo un nuovo libro siamo così presi dalla storia che non riusciamo più a staccarci dalle pagine, tanto da sognare i personaggi anche di notte. A chi non è capitato di addormentarsi su un romanzo e svegliarsi con un mal di testa martellante? Diamoci il giusto tempo. Facciamo delle pause dopo tante pagine e capitoli, possiamo fare una passeggiata o uno spuntino, per esempio.

15. Acquistiamo libri di seconda mano

Leggere più libri significa investire tempo e denaro, e ci sono periodi in cui non possiamo spendere tanti soldi per leggere. Invece di incrementare la nostra wishlist senza poter comprare nulla, proviamo a cercare libri di seconda mano o fare degli scambi con amici e altri appassionati di full immersion di letture.

16. Non finire i libri che non ci piacciono

Il mondo è bello perché è vario, vale anche per i libri. Non è detto che un titolo amato da tutti debba piacere anche a noi. Per leggere più libri dobbiamo anche non leggere quello che proprio non ci colpisce. È inutile trascorrere del tempo con qualcosa che, inevitabilmente, finiremo per odiare. Avanti il prossimo!

17. Sostituire le cattivi abitudini con la lettura

Non siamo perfetti, c’è sempre qualcosa di noi che vorremmo cambiare, come qualche piccola cattiva abitudine. Un modo per cambiare e leggere più libri, è proprio quello di sostituire ad una malsana abitudine una cosa bella, la lettura appunto. Ci sentiremo meglio con noi stessi e aggiungeremo un altro titolo ai libri letti quest’anno.

18. Viaggiare in compagnia dei libri

Quando siamo in viaggio, soprattutto un tragitto lungo, un libro sarà l’accompagnatore più fedele che esista. Che sia un viaggio in treno o in aereo, possiamo allietarlo con una lettura mozzafiato, magari proprio con un libro che racconta di un viaggio.

LEGGI ANCHE: L’editoria (digitale e non) che comunica con i filtri di Instagram e crea campagne con i book influencer

19. Chiedere consigli per nuove letture

Non si finisce mai di imparare, soprattutto con e grazie ai libri. Se non abbiamo idee sulle prossime letture, possiamo chiedere ad amici, al nostro libraio di fiducia, ma anche affidarci alle recensioni in rete o seguire i consigli dei book influencer su Instagram.

20. Leggere 20 pagine al giorno per leggere più libri

Se non leggiamo da un po’ e ci sentiamo parecchio arrugginiti, un modo per superare quest’ostacolo è quello di darci un numero di pagine da leggere al giorno. Iniziamo con 20 pagine, un obiettivo facile che man mano aumenteremo quando la lettura diventerà una piacevole abitudine quotidiana. Si comincia sempre da piccoli passi, senza farsi sopraffare dall’ansia.

21. Iscriversi a una newsletter per ricevere consigli letterari

Vogliamo raccogliere sempre più idee per le nostre letture? Scoviamo notizie in qualche blog che tratta di libri, o consultiamo i siti internet delle case editrici, e iscriviamoci alle loro newsletter. Riceveremo consigli per gli acquisti, le ultime uscite e le classifiche dei libri consigliati e preferiti dagli altri utenti. Potremmo scoprire libri interessanti di cui non conoscevamo minimamente l’esistenza.

22. Perdiamoci tra gli scaffali delle librerie

Internet è una miniera d’oro per raccogliere notizie sui libri, ma non dimentichiamo l’importanza e il fascino delle librerie, dove poter ricevere dritte e consigli direttamente dagli addetti ai lavori. Per leggere più libri bisogna entrare in contatto con essi.

23. Curiosare tra le “top libri”

Fonti autorevoli come “The New Yorker” e altri magazine online, stilano delle classifiche dei titoli più belli da leggere. Ci sono diverse categorie divise per generi da tenere sott’occhio, basta soltanto cercarle.

24. Leggere le poesie

Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo, e cosa c’è di più bello di una poesia? Per leggere più libri non possiamo dimenticare le raccolte di poesie. I versi calmano anche gli animi più turbolenti.

Leggere poesie

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25. Acquistare un eReader

Quando parliamo di lettura non ci riferiamo solo ai testi cartacei, ma anche ai libri in formato digitale. Per leggere più libri possiamo investire in un eReader da portare ovunque andiamo.

Ennio Morricone

Il “maestro silenzioso” Ennio Morricone in 15 citazioni da cui trarre ispirazione

  • Ennio Morricone era un uomo semplice, serio, umile, amato da tutti e specialmente da chi fa parte del mondo del cinema.
  • Ha collaborato con moltissimi e importanti registi a livello internazionale, arrivando anche a vincere due Oscar, di cui uno grazie a una sua colonna sonora. È stato uno dei compositori più importanti dell’ultimo secolo, e probabilmente della storia. 
  • Dietro alla fama si nascondeva un personaggio silenzioso, dal talento inestimabile, che preferiva stare vicino alla famiglia, vivendo con l’amata moglie nella sua Roma, invece che celebrare i successi e stare sotto i riflettori. 

 

Il 6 luglio 2020, per un attimo, gran parte del mondo si è fermata alla notizia della morte di Ennio Morricone. È stata una reazione concorde, naturale, quasi incondizionata: se ne era andata una di quelle persone destinate a entrare nella leggenda, che si vorrebbe restassero con noi per sempre. Un compositore di colonne sonore a dir poco iconiche, ma anche autore di alcune tra le canzonette più famose (sua la firma dietro a canzoni celebri come “Se telefonando” o “Sapore di sale”), un artista in grado di riempire gli stadi di tutta Europa anche dopo oltre 50 anni di carriera.

Vincitore di due premi Oscar, uno per la carriera, nel 2007, e uno per “The Hateful Eight” di Tarantino nel 2016. Morricone ha realizzato oltre 500 musiche per film e serie TV, e le onorificenze e i premi ricevuti compongono una lista lunghissima. Una carriera, quella del compositore romano, che ha influenzato pellicole di tantissimi registi e artisti del ‘900. Ha lavorato con Brian De Palma, Carlo Lizzani, Dario Argento, Don Siegel, Elio Petri, Ettore Scola, Franco Zeffirelli, Gillo Pontecorvo, Giuseppe Tornatore, Liliana Cavani, Marco Bellocchio, Oliver Stone, Pedro Almodovar, Pier Paolo Pasolini, Quentin Tarantino, Roland Joffé, Roman Polanski, Sergio Corbucci, Sergio Leone, Terrence Malick, e l’elenco potrebbe continuare.

Dietro a un artista così “rumoroso”, però, si nascondeva un uomo molto silenzioso, semplice, discreto. Più volte ha dichiarato che la sua più grande sofferenza sarebbe quella di non lavorare. La costanza, la dedizione, e la passione per il suo lavoro, infatti, insieme all’amore per la sua famiglia, è ciò che ha contraddistinto maggiormente il maestro Morricone. Un artista estremamente curioso, alla ricerca di continui stimoli creativi per puntare all’eccellenza, che non smetteva mai di mettersi in discussione. Quando Tarantino, ad esempio, l’ha paragonato a Mozart, Beethoven, e Schubert durante la premiazione dei Golden Globe nel 2016, lui ha replicato:

«Mi fa piacere, ma non siamo noi a doverci collocare. Sarà la storia a decidere. Perché arrivi il tempo giusto ci vogliono secoli.»

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Ennio Morricone: la vita

Ennio Morricone nasce a Roma il 10 novembre 1928, primo di 5 figli. All’età di 10 anni inizia a frequentare il Conservatorio di S. Cecilia della capitale, iniziando a suonare la tromba, strumento del padre, per poi dedicarsi allo studio della composizione nel 1944. Inizialmente quella di Morricone era una vita di sacrifici. Basti pensare al fatto che, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si guadagnava da vivere intrattenendo i tedeschi mentre occupavano la città. Dopo qualche mese era il turno degli americani, che lo pagavano in viveri e sigarette («Ma non fumavo: le rivendevo e tornavo a casa con i soldi»).

A metà degli anni Cinquanta, Morricone inizia ad arrangiare musiche per il cinema. Sono gli stessi anni in cui sposa l’amore della sua vita, Maria Travia. Dopo la nascita del primo figlio Marco, viene assunto dalla Rai come assistente musicale. Si licenzia il primo giorno, continuando a collaborare solo come arrangiatore nei varietà televisivi. Un gesto di chi aveva capito di essere destinato a qualcosa di più grande. A inizio anni Sessanta nascono altri due figli, Alessandra e Andrea, insieme a una collaborazione destinata a segnare un’epoca, quella con Sergio Leone. Grazie alla cosiddetta “trilogia del dollaro” e al pluripremiato “C’era una volta in America“, il compositore romano aumenta notevolmente la sua fama.

Nel frattempo, continua la sua intensa attività di arrangiatore per l’etichetta RCA, che però riduce sensibilmente dopo la nascita del quarto figlio, Giovanni. Nel 1966 ha fatto anche da giudice alla ventesima edizione del Festival di Cannes. Dagli anni successivi, si dedica quasi totalmente a creare musiche per il mondo del cinema, collaborando con importantissimi registi in tutto il mondo.

La sua carriera è costellata da una serie infinita di riconoscimenti, tra cui 3 Grammy, 3 Golden Globe, 6 Bbafta, 10 David di Donatello, 11 Nastri d’Argento, 2 European film Award, 1 Leone d’Oro, 1 Polar Music Prize. Nel 1995, riceve anche l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Negli ultimi 20 anni, poi, si è dedicato a una nuova vita artistica, salendo su importanti palcoscenici in tutta Europa come direttore d’orchestra. Il 2007 è l’anno dell’Oscar alla carriera, prima di quello per la colonna sonora di “The Hateful Eight” nel 2016.

Ennio Morricone - Orchestra

La musica di Morricone, entrata nella leggenda

Ennio Morricone non è stato solo un compositore “a servizio” del mondo del cinema. Dietro alcune delle canzoni più famose di Edoardo Vianello, Gino Paoli, Luigi Tenco, Mina, c’era proprio lui. Nella musica di Morricone, infatti, si intravedono continuamente influenze “pop”, frutto della sua irrefrenabile curiosità e uno dei primi elementi per comprendere la grandezza del compositore.

Per quanto riguarda il mondo del cinema e le colonne sonore, il suo atteggiamento è sempre stato quello del rifiuto della standardizzazione, della continua ricerca di nuovi stimoli e nuovi elementi in grado di alimentare il suo processo creativo. Nelle sue creazioni, infatti, si possono ritrovare jazz, rock, e altri generi musicali più comuni e frizzanti, insieme alla grande musica classica. Comporre musica, per Morricone, significava tantissimo studio e prendersi libertà di sperimentare. Come diceva lui stesso, d’altronde:

«Essere originali diventa sempre più difficile.»

Le musiche di Ennio Morricone sono musiche splendide, di enorme impatto, anche grazie all’uso di strumenti diversi dall’ordinario e della voce umana. Immediatamente riconoscibili, entrate nella leggenda, in grado di conferire una sorta di immortalità al suo grande compositore.

1. “La musica esige che prima si guardi dentro se stessi, poi che si esprima quanto elaborato nella partitura e nell’esecuzione.”

2. “Io penso che, quando fra cento, duecento anni, vorranno capire com’eravamo, è proprio grazie alla musica da film, che lo scopriranno.”

3. “La musica mi ha salvato da fame e guerra. Ma l’arte è puro talento, la sofferenza non c’entra.”

4. “[…] il mio modo di scrivere testimonia sempre l’esigenza di andare avanti lungo un percorso creativo.”

5. “La musica poi è intangibile, non ha sembianze, è come un sogno: esiste solo se viene eseguita, prende corpo nella mente di chi ascolta. Non è come la poesia, che non necessita di interpretazione perché le parole hanno un loro significato.”

6. “La musica può essere interpretata in vario modo. Una composizione per una scena di guerra può essere intesa anche come brano che accompagna una danza frenetica.”

7. “Uso spesso le stesse armonie della musica pop perché la complessità di quello che faccio si può ritrovare altrove.”

8. “Se si pensa a tutti i film a cui ho lavorato, si può capire come sono stato uno specialista nei western, storie d’amore, film politici, thriller, horror, e altro ancora. In altre parole, non sono uno specialista, perché ho fatto di tutto. Sono uno specialista nella musica.”

9. “Ci sono alcuni registi che hanno paura del possibile successo della musica. Hanno timore che l’audience o la critica penserà che il film ha funzionato perché c’era una bella colonna sonora.”

Ennio Morricone - Pianoforte

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L’umiltà, la serietà, la dedizione di uno dei compositori più grandi della storia

La sua musica è diventata celebre in tutto il mondo, ma Morricone preferiva rimanere con i piedi per terra. Letteralmente: non compariva mai sul set durante le riprese. Le sue uniche eccezioni furono “C’era una volta il West”, “C’era una volta in America”, e “La leggenda del pianista sull’oceano”. In America ci andò poi nel 2007, quando ricevette l’Oscar alla carriera e stupì tutti con la sua genuinità.

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Nonostante gli innumerevoli premi e riconoscimenti attribuitogli lungo la sua carriera, lui si è sempre concentrato sulla sua musica, la sua vera voce, disinteressandosi della fama. Non voleva celebrare nulla, preferiva vivere nella sua casa di Roma insieme alla moglie Maria e vicino al resto della sua famiglia. Ennio Morricone è sempre stato contraddistinto da grande semplicità e umiltà, unite però a una grande consapevolezza del suo talento e una grande fiducia nei propri mezzi.

Un uomo metodico, serio, dai ritmi regolari, che nonostante di mestiere facesse musica se n’è andato silenziosamente, come era solito vivere le sue giornate.

10. “Nell’amore come nell’arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l’intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata.”

11. “Quando scrivo nessuno mi può aiutare, perché chi scrive ha qualcosa di personale da dire.”

12. “Io sono veramente commosso da questa serata, perché non mi aspettavo tutto questo. Chi scrive sta a casa a scrivere e poi va in studio a registrare. Non pensa a tutte queste cose, io non c’ho mai pensato. Tutte quelle cose belle che mi hanno detto, che ogni tanto pensano, vi ripeto, io non me le aspetto mai. Purtroppo sono talmente scettico sulle congratulazioni che mi fanno che penso soltanto se ho fatto il mio dovere […]

13. “Posso avere anche centomila persone alle spalle: non me ne accorgo. Sono troppo concentrato, sono solo. Solo fino agli applausi conclusivi. Allora tutto si scioglie. Il miracolo s’è ripetuto un’altra volta. E posso passare anch’io dalla parte del pubblico.”

14. “Tutti devono morire. Non mi fa particolarmente paura. Quello che davvero mi spaventa è che se me ne vado prima di mia moglie la lascerò da sola, e viceversa. L’ideale sarebbe morire insieme.”

15. “[…] C’è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare. […]”

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Donne e COVID-19: la pandemia ha aggravato le differenze di genere?

  • Il COVID-19 ha ulteriormente scombussolato la vita privata e lavorativa delle donne.
  • I settori economici più a rischio crisi sono quelli in cui sono impiegate la maggior parte delle lavoratrici.
  • Le disparità di genere continuano ad aumentare e non sembrano volersi fermare.

 

Uno degli enigmi che vorremmo risolvere senza perderci in labirintici discorsi riguarda la separazione tra sfera privata e lavorativa. Esiste davvero o è solo una leggenda?

Negli ultimi mesi poter rispondere con sincerità e lucidamente a questa domanda ci risulta davvero complicato. Con l’improvviso arrivo del COVID-19, lo stato di pandemia e il lockdown siamo stati costretti a cancellare la sottile linea che divideva questi due aspetti. Abbiamo convissuto non solo con la paura e l’ansia per la nostra salute, ma tutti i nostri ritmi sono stati stravolti. Le nostre battaglie a difesa del nostro tempo e dello spazio hanno vacillato.

Purtroppo le donne ne stanno pagando il prezzo più alto. 

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Donne e COVID-19: la disparità lavorativa cresce

Lavoratori e lavoratrici, almeno chi poteva, hanno lavorato da casa, provando le gioie e i dolori dello smart working. Più che altro parliamo di telelavoro, arrivando a stare davanti al PC più ore del previsto, e a occuparsi dei figli, della loro istruzione e delle faccende domestiche. Ma cosa differenzia uomini e donne in questo contesto?

Oltre la metà delle donne si occupa della casa, dell’assistenza dei figli e dei genitori anziani, senza riuscir a condividere le mansioni con il proprio partner. Inoltre il 31% delle donne ha dovuto rinunciare al proprio lavoro per sopperire a tutte le incombenze familiari.

Perché sono sempre le donne ad essere penalizzate?

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La situazione lavorativa delle donne

L’ILO, l’International Labour Organization, ha decretato che sono quattro i settori ad alto rischio economico a causa dell’impatto del COVID-19:

  • immobiliare;
  • commerciale;
  • amministrativo;
  • commercio all’ingrosso e al dettaglio.

Il 41% degli occupati in questi campi sono donne. Ciò suggerisce che la popolazione femminile potrebbe essere la più colpita gravemente nei prossimi mesi, rispetto alla controparte maschile che ne rappresenta il 35%.

Bisogna tener presente due aspetti analizzando questi dati. Il primo è che abbiamo un numero cospicuo di donne che abitano in Paesi a medio e basso reddito, dove c’è un alto rischio che i lavori di produzione, specialmente nel settore dell’abbigliamento, potrebbero scomparire.

Il secondo è che molte donne hanno un reddito familiare alto e vivono in Paesi a medio reddito, ma non per questo se la passano meglio. Molte di queste lavoratrici sono imprenditrici di piccole imprese e non tutte riescono ad ottenere facilmente dei finanziamenti. Sempre secondo le analisi dell’ILO, le lavoratrici autonome basano le proprie forze sull’autofinanziamento e in un periodo di crisi così forte, potrebbero dover chiudere la propria attività commerciale.

Le donne imprenditrici devono affrontare parecchi ostacoli per ottenere credito e ricevere prestiti con interesse equi. In tutto il mondo, solo il 5,3% delle donne richiede e ottiene un prestito per avviare un’azienda commerciale o agricola.

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Purtroppo milioni di persone hanno perso il lavoro e le entrate sono nettamente diminuite.

Le donne che erano già colpite da disuguaglianze come la disparità salariale e un minore accesso ai servizi finanziari, non hanno gli appoggi necessari. I decreti d’emergenza e gli investimenti a lungo termine per il recupero economico devono sostenere e proteggere le donne e le persone emarginate. Ci sono ragazze e donne migranti forzatamente sfollate che potrebbero non essere in grado di accedere a queste risorse.

Le donne che lavorano nell’assistenza

Ad aver sofferto molto in questi mesi sono state le donne, ma anche gli uomini, che lavorano nel campo medico. Osannati come eroi da un lato, costretti a turni massacranti, hanno sentito ogni giorno lo stress e l’ansia di non riuscir a reggere tutto, di ammalarsi e di mettere in pericolo la propria famiglia. Chi ha avuto a che fare con i pazienti ammalati di COVID-19 ha preferito isolarsi, allontanandosi dai propri cari.

In molti Paesi le infermiere sono state oggetto di violenze verbali, denominate “untrici”, attaccate col cloro durante gli spostamenti dalle strutture sanitarie a casa. Per non parlare degli straordinari, della paura di non poter riabbracciare presto i propri affetti, una situazione di stress che ha coinvolto in primis le madri single.

Le giovani donne sono le più colpite

Abbiamo avuto modo di leggere tante storie di persone che hanno perso qualcosa e qualcuno, a causa del COVID-19. Una delle fasce più colpite però sono proprio le giovani donne.

Ragazze che avevano intrapreso un percorso di studi, che avevano in mente progetti lavorativi, di vita, hanno dovuto mettere tutto in standby. Hanno accantonato sé stesse per aiutare la famiglia, per essere di supporto e si sono fatte carico di parecchie responsabilità, anche più grandi di loro.

Alcune di loro hanno perso il lavoro perché impiegate in uno di quei 4 settori a rischio, specialmente coloro che lavorano nel commercio al dettaglio, e tutte quelle aree che prevedono il contatto col pubblico. C’è chi ha visto ridursi drasticamente lo stipendio ha optato per il licenziamento.

Sono davvero tante le voci delle giovani donne che da un giorno all’altro hanno perso tutto perché magari già partivano svantaggiate nel proprio lavoro.

COVID-19

La disuguaglianza di genere non si ferma

Sfortunatamente si innesca un meccanismo in cui le difficoltà emerse con il COVID-19 aggravano una situazione di disuguaglianza già difficile in cui le donne sentono una pressione infinita.  Quella necessità di dimostrare di essere in gamba, di poter fare tutto, di essere allo stesso livello dei colleghi uomini. Ciò tormenta specialmente le più giovani, in una società in cui si dettano canoni di perfezione, dove la donna è una brava madre e una lavoratrice instancabile. La donna come emblema del multi-tasking, l’anello di congiunzione tra la figura materna precedente e la donna in carriera futura.

Un mondo che sembra non contemplare le debolezze e il fallimento. Questa pandemia ha fatto vacillare anche la più temeraria delle guerriere, lasciando sole molte di loro.

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Donne, madri e smart working

Quanto abbiamo parlato di smart working? Discussioni e dovute precisazioni su uno degli argomenti più gettonati di quest’anno, tutti, o quasi, abbiamo sperimentato cosa significa lavorare da casa. Organizzarsi telematicamente con i colleghi, con la propria famiglia.

I bambini, i primi a risentire di questa pandemia, assistiti dai propri genitori, ad approcciarsi con la didattica a distanza. Gli adulti alle prese con PC, tablet e laptop, tra coreografie sui balconi, conti che non tornano, tormentati dai dubbi e dalle aspettative di un ingombrante “andrà tutto bene”.

Ma tutto bene non è andato per le donne, madri e lavoratrici alle prese con lo smart working, che di smart non ha avuto molto. Con i bambini tra i 6 e i 12 anni confinati in casa, i genitori si sono occupati costantemente dei figli. Ma ogni famiglia ha vissuto questa pandemia diversamente, e sta provando ad assestarsi nelle fasi successive.

COVID-19

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Le donne si sono fatte più carico della casa e dei figli

I dati riportano che le donne si sono occupate della casa e dei figli 13 ore in più rispetto agli uomini, e lo smart working non ha di certo agevolato la situazione. Con la maggior parte del tempo impiegato ad assistere i figli, soprattutto i più piccoli senza l’assistenza di nessuno, molte donne hanno dovuto tralasciare il lavoro, trascurandolo.

Consapevoli di non essere state produttive come avrebbero voluto, ma di aver subito un sovraccarico di compiti, temono che saranno proprio le prime a essere licenziate a causa della crisi economica.

Solitamente in un nucleo familiare è l’uomo che guadagna di più rispetto a una donna, e questo porta le lavoratrici a sacrificare le proprie ambizioni lavorative per accudire i figli, o le porta a scegliere lavori part  time, senza poter assecondare ciò che desiderano davvero.

Ci sono voluti 20 anni per implementare l’occupazione femminile dell’11%, cosa accadrà adesso? Quanto sacrificio è richiesto ancora?

Cosa si potrebbe fare per aiutare le donne?

In un momento così delicato l’assistenza all’infanzia è fondamentale per aiutare le coppie a crescere i figli e a sentirsi al sicuro. Quando gli asili nido riapriranno, molti non potranno accettare altri bambini e non tutti possono affidare i propri figli ai nonni. È vero, i governi si stanno attivando con misure a sostegno delle famiglie, ma basteranno?

In Italia prima della pandemia una donna su due lavorava, ma problemi come la disparità salariale saranno sempre un ostacolo per una felice carriera lavorativa.

Dall’ultimo rapporto dell’INPS è emerso che in un anno, oltre 37 mila neo mamme lavoratrici, hanno presentato le dimissioni. La maggior parte delle motivazioni riguarda l’impossibilità di conciliare lavoro e crescita dei figli più piccoli. Il percorso lavorativo di una donna non è lineare come quello di un uomo. Perché le donne devono ancora essere costrette a scegliere tra lavoro e famiglia?

L’aumento dei casi di violenza

La violenza è un flagello che non risparmia nessuno e molte donne ne sono state vittime durante questa pandemia, isolate e rinchiuse con i propri maltrattatori.

Refuge è un luogo sicuro per donne che vengono tormentate e abusate, durante il lockdown ha visto un incredibile aumento del 950% delle visite al suo sito Web. Le donne e i bambini supportate ogni giorno da Refuge sono oltre 6000.

COVID-19

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In Italia, durante la quarantena, ci sono state più di 2000 richieste d’aiuto in più rispetto ai mesi precedenti, ha dichiarato Elena Bonetti, la ministra per le Pari Opportunità. Ci sono anche crescenti preoccupazioni riguardo la depressione postnatale che aumenta tra le neo mamme isolate in un momento in cui gli asili, le assistenze o le cliniche drop-in non stanno funzionando.

Oltre i ruoli di genere

Le donne tradizionalmente portano sulle proprie spalle la maggior parte delle responsabilità assistenziali e lavorative all’interno delle famiglie. Il ruolo tradizionale delle donne come “assistenti” le rende più suscettibili alle infezioni da parte di familiari malati e le crescenti richieste di assistenza all’infanzia rendono difficile bilanciare il lavoro e le responsabilità domestiche.

Per sfidare le tradizionali norme di genere e ridistribuire l’assistenza non retribuita e il lavoro domestico, c’è bisogno di attuare politiche sociali come il congedo di paternità, programmi sociali per incoraggiare l’impegno maschile, programmi educativi a scuola per promuovere l’uguaglianza di genere. Tutti dovremmo aver chiaro il concetto di uguaglianza universale, e smetterla di definire norme e ruoli di genere ormai desueti.

contact tracing app eu

Contact Tracing App: dall’Italia al resto d’Europa, funzionano davvero?

  • Le contact tracing app dovevano servire all’Italia e all’Europa per riaprire i confini, anche in vista dell’estate. Ma qual è la situazione?
  • In Italia, l’app funziona da giugno ma il tasso di adozione è più basso di quanto necessario; in Europa le cose non vanno meglio, con una situazione frammentata e l’assenza di un modello di interoperabilità tra Paesi.
  • Harvard Business Review ha identificato alcuni punti su cui concentrarsi per stimolare l’adozione delle app che è in ritardo, come le “app di comunità” e gli incentivi all’utilizzo.

 

Ci siamo: l’estate più strana del secolo è finalmente arrivata.

Ha avuto un enorme punto di domanda fin dall’inverno, quando il virus che ha colpito il mondo ci ha messo tutti “in attesa” a tempo indeterminato. Eppure niente, neppure una pandemia, può fermare il sole, il caldo e la voglia di vacanza.

Alla fine, si sta facendo quasi tutto ciò che si pensava non si sarebbe potuto fare: i confini della maggior parte dei Paesi d’Europa sono aperti, in maniera più o meno chiara. Le persone stanno partendo per le vacanze come ogni anno, anche se su scala più locale. E mentre il Coronavirus continua a mietere vittime (anche se fortunatamente in Europa a livelli molto ridotti), noi torniamo a una parvenza di normalità.

Come? Uno dei metodi che sembrava avrebbero dovuto garantire alla nostra estate un aspetto “normale” era l’utilizzo delle Contact Tracing Apps.

L’Italia, come il resto del mondo, si è lanciata alla velocità della luce nella creazione della sua app di tracciamento, ed è effettivamente riuscita a farla uscire ai primi di giugno in tempi record, attestandosi tra le prime in Europa nell’impresa.

C’è stato un gran frastuono di voci, molte a favore, molte altre critiche dell’App sviluppata da Bending Spoons. Troppi, in realtà, gettavano benzina sul fuoco a sproposito, alimentando preoccupazioni sulla privacy che erano già state più che risolte, come avevamo visto in questo articolo dedicato.

Ma poi, più niente. Molti di noi l’hanno scaricata, e lei se ne è stata silente nei nostri smartphone, ricordandoci della sua esistenza solo quando per qualche motivo disattivavamo il Bluetooth e lei ci avvisava con una notifica che il suo funzionamento era sospeso.

Ci era stato detto che per essere efficace avrebbe dovuto essere scaricata da più di metà della popolazione.

Ci era stato detto che per poter aprire i confini europei, la maggior parte degli Stati avrebbero dovuto dotarsene.

Infine, ci era stato detto, ormai circa un mese fa, che un sistema di “interoperabilità” tra le varie applicazioni disponibili nei vari Paesi europei sarebbe stato la chiave per un’estate quasi normale (il documento dell’Unione Europea con le specifiche per l’interoperabilità è datato 12 giugno 2020).

E ora che ci siamo, qual è la situazione? Quali app dovrebbero scaricare i vacanzieri in partenza per altre località europee? Quali risultati stanno portando nei vari Paesi che le hanno adottate?

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La situazione in Italia: qual è il livello di adozione dell’app Immuni?

immuni italia

La contact tracing app italiana, Immuni, è operativa ormai da circa due mesi.

L’app ha avuto una gestazione travagliata con critiche poco costruttive e problemi ante-litteram. Poi, finalmente, un parto speranzoso con 500mila download nel primo giorno; successivamente, primi giorni di vita costellati di piccoli o grandi ostacoli.

Poi, silenzio.

Quello che sappiamo, è che dopo averla scaricata e attivata, il suo ruolo è proprio quello di… non fare niente. L’app stessa ti ricorda di “aprirla periodicamente per verificare che sia attiva“, il che sicuramente non la fa percepire come una presenza oppressiva, ma dall’altra parte non aiuta a far capire la sua utilità.

Sappiamo che funziona tramite tecnologia Bluetooth Low Energy, riuscendo così a rispettare la privacy perché non registra posizione né altri dati sensibili.

Si è adeguata, così come la maggior parte d’Europa, al sistema predisposto da GoogleApple Decentralised Privacy-Preserving Proximity Tracing (DP-3T), modello decentralizzato più sicuro perché i dati vengono conservati sullo smartphone e non nei server.

Se un utente che ha installato l’app risulta positivo, il sistema invia ai dispositivi con cui è entrato in contatto una notifica di esposizione. Quest’informazione non ha conseguenze, nel senso che non vengono allertate le autorità né date particolari indicazioni al ricevente su cosa debba fare (teoricamente, auto-isolarsi o effettuare un tampone).

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E come sta andando l’app Immuni in Italia?

Secondo le dichiarazioni rilasciate a inizio agosto dalla ministra per l’innovazione Paola Pisano, “oggi i cittadini che hanno scaricato Immuni sono 4,6 milioni. Finora ha contenuto due focolai, 63 persone sono risultate positive e, poiché avevano scaricato Immuni, individuandole sono state inviate notifiche a più di 100 persone“.

Questi numeri sono sicuramente positivi, ma sono tremendamente al ribasso rispetto a quanto ci avevano prospettato come minimo indispensabile: si tratta di circa il 12% della popolazione in grado di utilizzarla.

Per essere davvero efficace, servono altri numeri.
Purtroppo molti italiani continuano a non fidarsi, nonostante abbia superato i testi sulla privacy effettuati ad esempio da AltroConsumo.

Complici diverse complicazioni, come la mancata chiarezza sull’iter da seguire in caso di notifica di esposizione, e il dibattio negativo che si è sviluppato intorno all’app, c’è ancora molta strada da fare per arrivare al cuore (o allo smartphone, in questo caso) degli italiani.
E il governo lo sa, infatti assicura di star mettendo in campo ulteriori misure comunicative e non per spingere l’adozione massiccia.

Insomma, in Italia bene ma non benissimo. E nel resto d’Europa?

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Contact Tracing app in Europa: quali soluzioni nell’Unione e cosa funziona?

europa covid

Quasi tutta l’Europa si è attivata nella direzione delle contact tracing app come supporto per contenere la diffusione del Coronavirus, ma le modalità e i risultati sono stati estremamente frammentati e diversi.

Alla base c’è proprio un problema di “unione“: ovviamente ciascun Paese si è lanciato nella corsa agli armamenti digitale in autonomia.

Per fortuna molti hanno adottato il sistema di Google e Apple, rendendo la tecnologia sottostante quantomeno simile, ma per il resto ogni Stato ha fatto da sé, creando un sistema frammentato che non è in grado di dialogare a livello europeo.

Secondo i dati riportati da Reuters, nell’UE, Austria, Croazia, Danimarca, Germania, Italia, Irlanda, Lettonia e Polonia hanno lanciato applicazioni che utilizzano lo standard Google-Apple. Altri nove Paesi dell’UE hanno in programma app basate sullo stesso sistema (UK ha deciso di recente di concentrarsi su questo, mentre prima doveva sposare il modello decentralizzato). Al di fuori dell’Unione, applicazioni simili sono ora attive in Svizzera, Irlanda del Nord e Gibilterra.

Francia e Ungheria hanno lanciato un diverso tipo di app che memorizza le informazioni su un server centrale. La conseguente spaccatura degli standard significa che sarà difficile far funzionare tutte le app in tutta Europa senza soluzione di continuità.

Come funzionano le contact tracing app in Europa?

contact tracing app germania

I funzionamenti variano. L’applicazione tedesca Corona Warn è stata scaricata più di 16 milioni di volte (su una popolazione di 83 milioni) e consiglia agli utenti di rivolgersi a un medico; gli svizzeri condividono un numero verde da chiamare; mentre in Irlanda gli utenti possono scegliere di condividere il proprio numero di telefono ed essere richiamati da un operatore.

Ma funzionano? Bella domanda. Il compromesso del Bluetooth tra utilità e privacy è il nodo centrale, perché non rende possibile ad esempio individuare l’ora e il luogo esatti degli eventi a rischio.

Le app più orientate alla privacy (tra cui Immuni) rendono impossibile per i loro amministratori monitorare il numero di notifiche di esposizione che passano attraverso il sistema – rendendo difficile misurare se le app svolgono il lavoro a cui sono destinate.

In realtà, il framework di Google-Apple potrebbe consentire il monitoraggio delle notifiche di esposizione. Questo è ad esempio stato abilitato nell’app irlandese, che ha anche degli add-on come un “tracciatore di sintomi”, dove gli utenti possono condividere volontariamente informazioni su come si sentono, aiutando le autorità sanitarie a mappare la pandemia. Forse anche per questo l’app è stata scaricata dal 30% della popolazione.

contact tracing app

Un’unica app di contact tracing per tutta l’Europa? Non quest’estate

L’UE, come dicevamo, si è mossa per spingere nella direzione dell’interoperabilità in vista dell’estate e dei flussi di persone in movimento da un Paese dall’altro. Ma, a parte l’evidente ritardo del farlo a metà giugno, riuscirci “a posteriori” è sicuramente più complesso. Il risultato è che non esiste al momento in Europa un reale interscambio di dati tra le app di tracciamento per il Covid-19.

Se un viaggiatore intra-europeo vuole essere allertato di possibili esposizioni al di fuori del territorio nazionale, dovrà scaricare l’app di quello specifico Paese (con ovvie difficoltà, a partire dalla lingua).

E in autunno? Le speranze sono buone perché nei prossimi mesi questo passaggio fondamentale venga fatto, ma il problema non sarà comunque risolto: se l’Italia e l’intera Europa in generale non riusciranno a spingere un utilizzo dell’app più ampio di quanto non è successo finora, la loro utilità rimarrà comunque limitata (anzi, c’è chi sostiene che possano essere controproducenti perché rischiano di creare un falso senso di sicurezza).

contact tracing app europa

Come far utilizzare di più le contact tracing app?

Posto che il problema base della privacy venga neutralizzato (come ad esempio con Immuni è successo), perché le persone non scaricano e utilizzano le app di tracciamento? Perché tutta questa difficoltà nell’adozione di un sistema che ha un bassissimo impatto sul singolo, ma potenzialmente un grande impatto sulla comunità?

In primis, c’è il paradosso della privacy: più alta è la percezione che la privacy dell’utente è protetta, più persone adotteranno un’app di contact-tracing; ma una maggiore protezione della privacy pone dei limiti all’efficacia dello strumento nel tracciare la diffusione del virus, rallentando così la diffusione dell’app.

Poi ci sono i “negazionisti” che non credono alla pericolosità del virus e alla necessità di contenerlo. E i cosiddetti “astenuti“, che nel dubbio (pur assolutamente aleatorio) che possa danneggiarli preferiscono purtroppo non fare niente. Infine c’è chi non ha capito come funziona, chi ha paura di ricevere una notifica e non sapere cosa fare dopo, e così via.

Ma tutti gli altri? Qual è il problema?

Harvard Business Review ha pubblicato un articolo molto interessante a riguardo.

Secondo l’analisi, quando l’adozione è volontaria, le app per la ricerca di contatti presentano il classico problema dell’uovo e della gallina – o “partenza a freddo” – sperimentato da qualsiasi piattaforma alla ricerca di forti effetti di rete: non hanno praticamente alcun valore finché non raggiungono una massa critica di utenti.

Lo stesso vale per le app di tracciamento Covid-19. Invece di lanciarle in modo ampio e indiscriminato, dovremmo dispiegarle in comunità altamente focalizzate, contenute, affini, dove sarebbero immediatamente utili: famiglie, comunità religiose, luoghi di lavoro, scuole, bar e ristoranti, spiagge, hotel, treni, aerei, ecc.

App di comunità e incentivi

Un esempio di “app di tracciamento di comunità” è quello di UBI Banca: i suoi dipendenti utilizzano UBISafe, la sua applicazione per la ricerca di contatti, a partire dal 1° luglio e al loro rientro in ufficio. L’applicazione è stata installata automaticamente sugli smartphone aziendali, e gli altri saranno stimolati a utilizzarla. Questo può permettere all’app di raggiungere una penetrazione molto elevata, rendendola più efficace.

Altri modi per rendere un’app di tracciamento istantaneamente preziosa sono quello di fornire informazioni sul livello di contagio locale, in modo che gli utenti conoscano i rischi, e quello di includere una funzione di tracciamento dei sintomi in modo che gli utenti possano inserire i loro e ricevere informazioni su quando cercare aiuto medico (come succede in Irlanda).

Infine, sarebbe più probabile che le persone adottassero l’app se ci fossero aspettative concrete di essere così testate più rapidamente e senza costi aggiuntivi nel caso in cui ricevano la notifica di essere stati esposti al virus.

Certamente c’è ancora molto da fare: sia da parte dei cittadini, che non dovrebbero giocare all’assenteismo, ma informarsi e decidere su basi logiche di scaricare o meno l’app; sia da parte dei governi e dei produttori di queste app, che dovrebbero impegnarsi per renderle più utili per il pubblico, anche a livello europeo.

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L’evoluzione dell’azienda è già cominciata (e non ce ne siamo accorti)

  • La pandemia ha cambiato tutto: anche il modo di concepire il rapporto fra aziende e consumatori.
  • Quando parliamo di Purpose, parliamo di qualcosa di tangibile e sempre più determinante. Influenzerà il futuro del concetto stesso di “company”?
  • Le aziende, è ormai assodato, sono in tutto e per tutto delle piattaforme: cosa c’è dopo?

 

Preparing for the new reality. KPMG non poteva scegliere titolo più evocativo per presentare in un report uscito lo scorso giugno sui trend globali relativi al mondo retail, ovviamente frutto di un primo semestre dell’anno che ci ha portato a cambiare radicalmente il nostro percepito del mondo.

La società di consulenza svizzera isola quattro macrotrend che saranno al centro delle strategie di chi si occupa di retail:

  • l’implementazione dell’eCommerce come direzione strategica obbligatoria, in un mercato che ha dovuto confrontarsi con l’impossibilità a spostarsi;
  • la conferma del Purpose come driver indispensabile alla relazione con il consumatore;
  • il concetto di Profittabilità del business, che deve essere riconsiderato partendo dal presupposto che la riduzione dei costi non è l’unica soluzione per il mantenimento dei margini di guadagno;
  • la conoscenza dei consumatori, che dev’essere sempre più approfondita, garantendo la reperibilità della merce più che un vasto assortimento.

Distribuzione, valori, marginalità e modelli, offerta commerciale: era evidente che il COVID avrebbe impattato sul concetto alla base dell’idea di negozio, di distribuzione, anche di esperienza di consumo. Ma come questi fattori si intersecano fra loro, e perché, forse esula anche dalla pandemia stessa, aprendo a ragionamenti che sono più legati al mondo che il COVID-19 ha mostrato.

Prendiamo un altro aspetto: il modo di lavorare.

Per molte aziende il lockdown è stata l’occasione per sperimentare il lavoro da remoto: secondo Eurofound, il lockdown ha costretto al remote working il 40% circa dei cittadini europei. Un primo passo per aprirsi al mondo del lavoro agile, che è diventato anche nei mesi che hanno seguito il periodo di quarantena un tema di discussione non più rinviabile.

Allo stesso modo, sempre KPMG già a marzo parlava di un nuovo rapporto con il risk management, indicando come necessario per i CEO cominciare a concepire nelle proprie strategie di contrasto alle crisi anche gli scenari geopolitici e sanitari, facendo proprio un approccio data driven che sia sempre più a “trazione predittiva”.

Se con il virus riusciremo ad un certo punto a fare pace, grazie si spera ad una cura, con i suoi effetti dovremo far conto per anni, a tutti i livelli. Nelle aziende, ancor di più.

Da piattaforme a comunità

Diciamolo pure: per molti il lockdown è stata una specie di epifania.

Così come i dipendenti hanno capito -molti, almeno- che il loro lavoro poteva diventare veramente agile, in una nuova modalità che comprendesse flessibilità negli orari e nuovi KPI per la misurazione della propria attività, così i consumatori hanno cominciato a rivedere le proprie abitudini, privilegiando un approccio spurio al consumo, dove i grandi marketplace digitali venivano affiancati dal piacere di tornare fisicamente ad acquistare beni e servizi.

Torniamo per un attimo al Purpose, di cui si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi ma che già da diversi anni sta spingendo sempre più le aziende a interrogarsi sul quale sia la strada migliore per interpretare il proprio set valoriale.

Da un punto di vista strettamente narrativo, non può esistere un Purpose senza che ci sia una reale concretizzazione dello stesso sotto forma di esperienze, che devono essere tangibili e coinvolgenti per tutti gli stakeholder aziendali.

Che forma avranno le esperienze?

Il COVID-19 ha aiutato a ricalibrare le priorità, e conseguentemente le necessità e le aspettative dei consumatori. Secondo lo Spring Update del report 2020 Edelman Trust Barometer, ad esempio, si indica come il 64% degli intervistati indichino necessario un riequilibrio delle risorse fra componente “ricca” della società e la working class, mentre il 67% indica come sempre più importanti valori come la salute e l’istruzione.

Riferimenti che c’erano anche prima della pandemia, ma che semplicemente sembravano meno prioritari nelle agende delle persone. Stesso discorso per il Global Warming e i cambiamenti climatici, che stanno rapidamente salendo nella classifica poco edificante delle urgenze da risolvere: secondo la Banca dei regolamenti internazionali, saranno proprio loro a scatenare la prossima crisi finanziaria.

Ecco che allora le esperienze serviranno a rendere concreti propositi che necessariamente dovranno essere sempre più tangibili, condivisi e soprattutto distribuiti.

In altre parole, le aziende dovranno passare dal proporre visioni ideali e talvolta utopistiche a progettazioni reali che ne giustifichino l’esistenza anche da un punto di vista sociale, oltre che economico: le esperienze che proporranno saranno quindi il volano per il realizzo di essi.

Per questa ragione, da un sistema più legato alle logiche di piattaforma, stiamo vedendo evolvere il concetto di azienda verso una logica di community, in cui tutti gli stakeholders diventano parte integrante di un ecosistema dove a far da padrone è la co-creazione di senso, e in cui si lavora per un benessere diffuso e distribuito.

Un principio di narrazione transmediale in cui l’obiettivo è edificare un universo di marca incentrato sul Purpose, e dove le dimensioni spaziali e temporali che lo compongono siano condivise non solo da chi dell’azienda fa parte, ma anche da chi attraverso le proprie aziende le permette di esistere: i consumatori, prima di tutto.

Forse l’evoluzione che stiamo osservando non è così remota o inattesa: era evidente da tempo che i ritmi di crescita che l’umanità ha osservato nell’ultima metà del ‘900 siano insostenibili alla luce dei paradigmi di produzione e consumo che li hanno permessi.

Quello che è forse inatteso, ed è probabilmente uno dei pochissimi effetti positivi che la pandemia ha avuto, è stato capire che un altro futuro è possibile, dove le aziende lavorano strenuamente per generare profitto e, al contempo, benessere reale e duraturo per chi le sceglie -e non solo- nel tentativo di lasciare qualcosa di più che un semplice ricordo di marca. Dove il consumo può essere veramente sostenibile, e anche dove il lavoro deve andare in una direzione più “umana” e meno “meccanica”.

Probabilmente è una fase di transizione quella che stiamo vivendo, e non sappiamo dire quanto sarà effettivamente lunga e complessa: quello che però sembra chiaro è che all’orizzonte qualcosa è cambiato, e le aziende sono al centro di questo cambiamento.

Chi se ne renderà conto otterrà un vantaggio competitivo non secondario: perché è vero che si deve lavorare per un Purpose, ma è pur vero che questo si può e deve realizzare (anche) con un profitto.

fiducia sul luogo di lavoro

Perché un ambiente di lavoro basato sulla fiducia migliora il processo decisionale

  • La fiducia è una necessità e non una “soft skill” secondaria.
  • Il 55% dei CEO ritiene che la mancanza di fiducia sia una minaccia per la crescita della propria organizzazione.

 

Numerose ricerche hanno evidenziato che un solido e proficuo rapporto di fiducia tra direzione e impiegati è fondamentale per creare un ambiente di lavoro performante. Un luogo di lavoro a bassa fiducia può creare un ambiente altamente stressante e poco attrattivo per i lavoratori. Chi si trova in posizioni alte in gerarchia deve, infatti, prediligere comportamenti volti a favorire l’instaurarsi di un clima di fiducia, virtuoso, che si auto-alimenti e si rafforzi con il tempo.

Il tema della fiducia nei luoghi di lavoro è diventato uno degli argomenti più popolari dall’inizio dell’attuale pandemia Covid-19. Secondo il “Trust Barometer” di Edelman, la più importante indagine globale sul tema della fiducia realizzata dall’agenzia di comunicazione Edelman in 28 paesi su di un campione di 34.000 persone, una persona su tre non si fida del suo datore di lavoro. 

In Italia l’indice generale di fiducia è aumentato di 3 punti percentuali rispetto al 2019, l’Italia è seconda in Europa dopo l’Olanda. Il 61% degli italiani, tuttavia, crede che il capitalismo di oggi sia un fattore negativo su scala globale e l’87% teme di perdere il posto di lavoro. La ricerca, ha inoltre evidenziato che la fiducia diminuisce partendo dalle posizioni aziendali più alte a quelle più basse.

In altre parole, i dipendenti si fidano di più dei loro colleghi che degli amministratori delegati e dei dirigenti superiori in grado. Diventa quindi fondamentale costruire la fiducia nelle posizioni apicali e di leadership all’interno dell’azienda.

fiducia a lavoro

Perché oggi è fondamentale creare fiducia sul posto di lavoro

I dipendenti che lavorano in un luogo di lavoro contraddistinto da bassa fiducia non comunicano tra di loro, mantengono comportamenti sleali e si mostrano poco propositivi in relazione alle attività lavorative quotidiane. In un ambiente così ostile è difficile lavorare e ottenere performance ad elevata redditività.

I dipendenti delle organizzazione con bassa fiducia non esprimono al meglio le loro capacità, non mostrano i loro talenti, non danno sfogo alla loro creatività e sono meno propositivi.

L’azienda perde quindi produttività, innovazione e di conseguenza non riesce ad ottenere i corretti vantaggi competitivi che le consentono di contrastare la concorrenza.

fiducia

La fiducia migliora il lavoro di squadra e la collaborazione

La fiducia nei luoghi di lavoro ha un grande impatto sul modo in cui i dipendenti collaborano e lavorano insieme sugli stessi progetti.

In questo periodo di pandemia la maggior parte dei dipendenti continua a lavorare da casa e, non essendo fisicamente presenti in azienda, non sono sottoposti al controllo diretto/fisico del datore di lavoro, non hanno uno scambio “reale” con il loro gruppo di lavoro. Proprio durante questo periodo di “delocalizzazione” i datori di lavoro hanno iniziato a comprendere quanto sia importante creare un ambiente di lavoro basato sulla fiducia.

Il primo passo verso la creazione di luoghi di lavoro affidabili e collaborativi è quello di promuovere una comunicazione aperta e onesta. Una scarsa comunicazione genera inevitabilmente una scarsa collaborazione.

Nella maggior parte dei casi, la scarsa comunicazione dei dipendenti è il motivo primario che comporta una scarsa collaborazione. Secondo una ricerca di Accenture il 55% dei CEO ritiene che la mancanza di fiducia sia una minaccia per la crescita della propria organizzazione.

La fiducia e la condivisione contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi aziendali

Quando i dipendenti si fidano dei loro datori di lavoro, sono molto più propensi a collaborare per raggiungere gli obiettivi aziendali prefissati.

Non arrivare a questo elevato standard organizzativo, soprattutto quando ci si trova in un contesto di delocalizzazione, comporta una perdita di produttività e crea un ambiente di incertezza. Incertezza che è, in questo momento storico, alimentata ulteriormente dalla pandemia attualmente in corso.

Ecco perché le aziende devono fin da subito comunicare ai dipendenti, in modo chiaro, i valori, la missione, la vision aziendali e anche le decisioni prese in momenti di crisi economica.

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La fiducia migliora l’efficienza, l’impegno e la produttività

Secondo la sopra citata ricerca, il disengagement costa alle società statunitensi circa 450/550 miliardi di dollari l’anno ed è strettamente correlato con il concetto di fiducia sul posto di lavoro.

In effetti, il 96% dei dipendenti engaged si fida della gestione aziendale, mentre solo il 46% dei disengaged ha fiducia nella gestione da parte della proprietà. La ricerca dimostra, inoltre, che i luoghi di lavoro altamente affidabili godono di :

  • Una maggiore produttività dei dipendenti (superiore del 50%);
  • Più energia e determinazione sul lavoro (106% in più);
  • Meno giorni di malattia (13% in meno).

Le aziende con alti livelli di fiducia superano del 186% le aziende con bassi livelli di fiducia.

La fiducia migliora il processo decisionale

Altro punto a favore della creazione di un ambiente di lavoro basato sulla fiducia è il miglioramento del processo decisionale: se i dipendenti si fidano dei loro superiori e i manager si fidano del team si crea una sinergia forte, una maggiore condivisione e quindi un clima di fiducia.

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La fiducia riduce lo stress e il burnout sul posto di lavoro

Sempre secondo la ricerca di Edelman un clima di fiducia riduce notevolmente lo stress (meno 74%) e il burnout (meno 40%). Lo stress e il burnout sono due variabili da limitare nelle organizzazioni, poiché  impattano negativamente sulla motivazione e sulla produttività dei dipendenti. Per farlo, le organizzazioni devono creare un clima di lavoro collaborativo, trasparente, basato sulla comunicazione, ossia sulla fiducia.

È importante, quindi, che i dipendenti si sentano liberi di parlare di questioni lavorative, delle loro preoccupazioni e delle loro esigenze, senza che si sentano limitati in questa libertà.

La fiducia aumenta la lealtà e la fidelizzazione dei dipendenti

Un ambiente di lavoro che lascia spazio al burnout dei dipendenti è spesso seguito da un forte turnover degli stessi. I lavoratori che si trovano in queste situazioni hanno una probabilità 2,5 volte maggiore di lasciare il posto di lavoro.

La ricerca ha inoltre evidenziato che il 67% dei lavoratori statunitensi si sente frequentemente colpito da burnout, ciò comporta un aumento della probabilità (63%) che il lavoratore stesso acceda alla malattia, aumentando di fatto l’assenteismo.

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La fiducia supera la resistenza al cambiamento

Durante la pandemia da Covid-19 molti datori di lavoro hanno dovuto cambiare radicalmente e velocemente il modello organizzativo e la gestione delle risorse umane, accelerando il processo di trasformazione digitale. Si tratta di un cambio culturale interno alle aziende, che passa attraverso un cambio tecnologico. Spesso le persone sono resistenti al cambiamento e attuano comportamenti volti a rallentare il processo, piuttosto che accelerarlo.

Mai come in questo momento storico difficile, la fiducia diventa l’ingrediente in più per agevolare questa evoluzione. Il consenso e la comunicazione interna delle aziende attivano un processo di trasparenza, che consente alle persone di adattarsi con velocità e nel modo migliore al cambiamento. Tuttavia, sempre secondo la ricerca, solo il 38% dei dipendenti, coinvolti nel processo di trasformazione digitale sul posto di lavoro, afferma di essere stato correttamente informato dal suo datore di lavoro.

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La fiducia migliora l’innovazione e la creatività

Quando le persone si sentono libere di comunicare, libere di esprimere il proprio pensiero e, soprattutto, quando si fidano dei propri datori di lavoro, sono anche più innovative. La ricerca in questione evidenzia, infatti, che i dipendenti in ambienti dove si è creato un clima fiduciario forte, aumentano del 23% la loro capacità di produrre nuove idee e creare nuove soluzioni. Un vantaggio competitivo elevato per le aziende.

Promuovere una cultura aziendale basata sulla fiducia incoraggia la collaborazione e contribuisce alla creazione di un ambiente di lavoro creativo.

I dipendenti che non percepiscono la fiducia tendono a non essere proattivi, a non prendere iniziative, a non produrre e condividere nuove idee, creando così un ambiente di lavoro che non innova. Se coltivata con cura, mettendo ogni singolo dipendente nella condizione di poter contare su chi gli sta accanto e su chi coordina il team di lavoro, diventa uno dei più importanti e proficui vantaggi competitivi aziendali.

metodo montessori

Il metodo Montessori: anche Google, Amazon & Co. ne hanno beneficiato

  • Il metodo montessoriano pone le basi per l’uguaglianza (di genere, delle culture) in maniera implicita e favorisce lo sviluppo dell’intelligenza emotiva.
  • Rappresenta ancora oggi un metodo di formazione innovativo di cui hanno beneficiato anche grandi imprenditori come il CEO di Google ed il fondatore di Wikipedia.
  • Alcuni consigli per favorire l’inclusione sin da piccoli.


La pedagogista, medico e scienziata Maria Montessori immaginava una comunità umana non definita in base alla nazionalità. Non trovava coerente che le merci potessero oltrepassare i confini e che le persone non potessero invece muoversi liberamente. Sono passati già più di 100 anni da quando il primo asilo montessoriano, chiamato “la casa del bambino”, aprì le porte ad un nuovo percorso didattico. La pedagogista dell’omonimo metodo ha messo in pratica teorie che ancora oggi sono alla base di varie ricerche. Da questi studi emerge che il metodo montessoriano favorisce l’indipendenza e l’innovazione. Personaggi noti come Larry Page, CEO di Google, Sergey Brin, co-fondatore di Google, Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia, Jeff Bezos, CEO di Amazon, Henry Ford sono solo alcuni dei molti imprenditori di successo che da piccoli hanno avuto una formazione montessoriana.

“Credo che buona parte del merito del nostro successo sia dovuto all’educazione che abbiamo ricevuto. Il non dover seguire delle regole rigide o degli schemi, il poter autogestire, il poter mettere in discussione cose che ci venivano date per assodate ci ha permesso di agire un po’ differentemente dagli altri e diventare quello che siamo.” Larry Page


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La diversità allena i più piccoli al futuro

Per agevolare l’inclusività in classe, la pedagogista tolse la regola delle fasce d’età, favorendo anzi la formazione di classi ad annate miste. Una scuola internazionale, un po’ come il viaggiare, prepara gli allievi ad un futuro che sarà sempre più multietnico. I principi fondati sulle teorie montessoriane favoriscono l’apprendimento della lingua italiana e permettono di superare ostacoli in questo processo.

Lo sviluppo dell’intelligenza sociale

Al fine di comprendere eventuali diversità nello sviluppo cognitivo tra classi multietniche e non, la provincia di Trento ha condotto uno studio comparativo tramite osservazioni, interviste e questionari nelle scuole medie della zona. È emerso che gli alunni di classi multietniche sviluppano competenze sociali più avanzate rispetto ad altri contesti.

Il metodo Montessori favorisce infatti l’inclusività, la parità di genere e una educazione priva di stereotipi. Maria Montessori già nei primi anni del 1900, quando ancora il patriarcato era ben più diffuso, riteneva che a livello cognitivo tutti i bambini e le bambine avessero lo stesso potenziale. Le neuroscienze poi le diedero ragione. Il suo metodo infatti pone le basi per l’uguaglianza in maniera naturale e implicita.

I bambini, nel rispetto del prossimo, sono liberi di muoversi e di sperimentare con il materiale a loro disposizione. Tra le varie attività ci sono anche quelle “di vita pratica” – a misura di bambino – come pulire i tavoli, ripiegare calzini e sbattere i tappeti, per trasmettere ai più piccoli il valore che hanno gli spazi e gli oggetti.

casa del bambino

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I consigli per favorire l’inclusione

Sonia Coluccelli, pedagogista e autrice del libro “Il metodo Montessori nei contesti multiculturali”, stila alcuni suggerimenti per favorire un ambiente multietnico positivo, tra i quali:

– Il lavoro in cerchio nella quotidianità scolastica: mostra una comunità di pari, dove non ci sono primi o ultimi.
– Educare i bambini a frequentare luoghi diversi (teatro, cinema ecc.): questo significa abituarli anche ad una vastità di pensieri e culture
– Lavorare sul proprio linguaggio con un occhio critico, riflettendo sulle parole dette in presenza dei bambini.

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La libertà stimola la creatività secondo il metodo Montessori

L’ambiente montessoriano è a misura di bambino, con materiali naturali appositamente ideati. Questi materiali sensoriali, creati per la scrittura e la lettura, promuovono lo sviluppo del senso di autonomia e di indipendenza del bambino. L’adulto e l’educatore, quindi, non si impongono come coloro che detengono il sapere, ma come dei registi che accompagnano i bambini nel loro viaggio alla scoperta della vita.

“Il più grande segno di successo per un insegnante è poter dire: i bambini stanno lavorando come se io non esistessi” Maria Montessori