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Burger King riapre al pubblico e lancia la novità: il Social Distancing Whopper

I ristoranti di Burger King hanno riaperto da oggi gli oltre 220 punti in Italia e per festeggiare questo importante momento il brand ha lanciato il Social Distancing Whopper®, il panino con tre strati di cipolla che aiuta gli altri a starti lontano, disponibile in tutti i punti vendita allo stesso prezzo del classico Whopper®.

Burger King non manca di riaccogliere i suoi clienti con lo spirito e anche l’umorismo che lo contraddistingue da sempre e così, proprio quando la distanza sociale rappresenta una delle regole fondamentali per affrontare la Fase 2, sforna una “profumata” ricetta.

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Nuovo Whopper e misure di sicurezza nei ristoranti Burger King

Porte aperte da oggi dunque, dopo aver predisposto le condizioni e messo in atto tutte le misure di sicurezza richieste dalle attuali disposizioni di legge e rispondere alle nuove regole imposte nella Fase 2 a seguito dell’emergenza sanitaria causata dal Covid-19: sanificazione dei locali, delle cucine e delle attrezzature più volte al giorno, distanziamento dei tavoli, dispositivi di sicurezza per i dipendenti, percorsi sicuri per i clienti, controllo della temperatura a dipendenti e clienti che accedono ai locali, gel igienizzanti e guanti, oltre a una formazione specifica che in questi due mesi ha coinvolto tutto il personale in modalità eLearning e in pre-apertura.

“Abbiamo messo in atto tutte le procedure necessarie per poter riavviare la nostra catena di ristoranti e riaccogliere i clienti in tutta sicurezzaafferma Andrea Valota, Amministratore delegato Burger King® Restaurants Italia. In sala abbiamo ridotto e predisposto i tavoli adibiti alla consumazione distinguendoli da quelli che non possono essere utilizzati in modo da poter garantire le corrette distanze fra i clienti. Oltre a questo, siamo pronti ad aggiungere sui tavoli ulteriori plexiglass ove se ne verificherà la necessità.”

All’entrata il cliente troverà un vero e proprio check-point, con un addetto alla misurazione della temperatura con termometro ad infrarossi e alla verifica del corretto utilizzo dei DPI. Successivamente il cliente potrà sanificarsi le mani, indossare i guanti, e seguendo un percorso guidato, raggiungere i kiosk digitali per fare il suo ordine e pagare anche in modalità contactless. L’ordine verrà comunicato telematicamente in cucina dove verrà prodotto e consegnato al cliente in un sacchetto chiuso con safety sticker attraverso un ulteriore pannello di plexiglass.

“Abbiamo riorganizzato anche le cucine spostando i macchinari per garantire il corretto distanziamento tra i dipendenti marcando sui pavimenti e sulle pareti le aree di confinamento delle singole persone. In alcuni punti vendita il personale è stato addirittura diviso in gruppi di lavoro distinti per ulteriore sicurezzacontinua Valota-. “Inoltre, abbiamo rinforzato le nostre procedure di igiene e sicurezza già molto rigide: ad esempio tutto il personale, oltre ad indossare maschere e guanti, deve lavarsi le mani ogni mezz’ora. Mi preme sottolineare infine, che per primi abbiamo messo le basi per una grande rivoluzione: abbiamo predisposto un’app – disponibile da quest’estate – che consentirà ai nostri clienti direttamente dallo smartphone di riservare un posto a sedere in modo da poter consumare in tutta tranquillità e sicurezza all’interno del punto vendita, saltando eventuali file all’ingresso. Tramite l’app sarà anche possibile ordinare, prenotare l’asporto e pagare.”

Negli ultimi tre anni Burger King® ha investito enormemente nell’innovazione tecnologica: dalla nuova app ai kiosk digitali, alla corsia drive, che oggi rappresenta il metodo di consumo più sicuro sul mercato visto che garantisce un’esperienza totalmente contactless. Proprio grazie a questa strategia e agli investimenti fatti, oggi siamo in grado di reagire meglio e più rapidamente alla crisi del momento”.

Da oggi dunque diventano attivi tutti i servizi di Burger King®: ristoranti, home delivery attraverso le principali piattaforme e le 114 corsie di King-drive, le corsie dedicate che permettono l’acquisto senza scendere dall’auto.

Gender gap, a che punto siamo nel mondo dell’arte

  • La vita delle artiste non è mai stata facile, fin dagli albori. Per questo si susseguono ancora oggi iniziative e opinioni sulla disparità di genere nel mondo dell’arte;
  • Facciamo il punto sulla situazione delle artiste, perché alcuni dati rivelano un gender gap oggi ancora forte.

 

Una donna deve essere nuda per entrare al MET. Museum?

Era il 1989 quando un collettivo di artiste femministe, The Guerrilla Girls, invasero le strade di New York con manifesti che denunciavano le discriminazioni di genere dell’art system. Secondo una statistica del 1984 solo 13 dei 169 artisti esposti al Metropolitan Museum erano donne, e indovinate un po’? L’83% dei nudi presenti della collezione rappresentavano corpi femminili. Donne rappresentate come oggetto artistico ma limitate nell’essere fautrici di una rivoluzione artistica. Perché?

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The Guerrilla Girls, 1989

Questa è una delle tante proteste contro la discriminazione nei confronti del talento e del genio artistico delle donne, che, per troppo tempo, sono state sottovalutate per portare avanti una cultura mainstream a vantaggio della controparte maschile. Ovviamente non stiamo assolutamente dicendo che uomini e donne devono fronteggiarsi in una competizione infinita su chi è più bravo/a nel proprio campo, ma sarebbe il caso di cominciare a render giustizia a tutti e tutte, senza distinzioni di genere, e oltre.

La situazione delle artiste in passato

Nel campo dell’arte, le donne sono state tenute lontane dalle professioni artistiche e dalla formazione fino al 1870, ma possiamo trovare talentuose artiste già prima di quella data, anche se non vengono valutate come meriterebbero. Troviamo riscontro in questo atteggiamento anche a scuola, durante l’ora di storia dell’arte. A volte ci sarà capitato di porci la domanda sulla loro scarsa presenza, chiedendoci perché ci sono così poche biografie, così poche opere, e perché dobbiamo saltare questa o quella pittrice, per passare direttamente all’artista successivo?

Fateci caso, i primi nomi di artiste, a meno che non lavoriamo e studiamo nel campo delle belle arti, che ci vengono in mente, sono sempre gli stessi.

Nel 1971 Linda Nochlin pubblica un saggio dal titolo provocatorio, “Perché non ci sono mai state grandi artiste donne?”, per affrontare una questione delicata sul ruolo delle donne nel mondo delle arti figurative. In questo saggio l’autrice cerca di dare una spiegazione per cui il numero delle donne artiste che hanno ottenuti gli stessi successi dei colleghi uomini, sono davvero minime.

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“Perché non ci sono state grandi artiste?” di Linda Nochlin

Afferma che le donne artiste non hanno mai avuto un ruolo di protagoniste in campo sociale e istituzionale perché la produttività artistica è il risultato di un condizionamento culturale, sociale e istituzionale per cui il talento si affina e si allena. Per molto tempo la  donna è stata esclusa da questi meccanismi. L’arte non è un’attività autonoma e libera, ma soggetta alle accademie, alle istituzioni culturali, agli organismi economici e familiari. Non è solo quello che più comunemente chiamiamo genio, ma come in tutte le cose richiede metodo, disciplina e tempo.

Contrariamente agli uomini, alle aspiranti artiste era proibito studiare dal vero con modelli e modelle senza veli. Il problema principale è che le donne non sono state agevolate nell’apprendere e nell’esercitarsi con tecniche e mezzi adeguati, ma hanno dovuto lottare, e spesso sono state derise, etichettate in modo dispregiativo, per inseguire la propria aspirazione. Lacerate da una costante ambivalenza, divise tra aspirazioni e aspettative sociali, sentono la propria autostima cedere, combattute se aderire o meno a una distorta concezione di femminilità che la stessa società vuole. Ma a che prezzo?

Il mondo dell’arte non è l’unico campo in cui sussiste una differenza tra uomo e donna. Quante volte ci siamo ritrovati ad ascoltare storie sulle disparità di compensi tra lavoratori e lavoratrici? Passano gli anni, mutano mode e costumi, ma non abbiamo ancora raggiunto una parità di genere su molte cose.

Ma com’è oggi la situazione delle artiste in Italia?

La ricerca sul gender gap nel mondo dell’arte

Kooness, realtà milanese operante nel settore artistico, ha recentemente rilasciato i dati di una ricerca sul divario di genere tra uomini e donne nel campo dell’arte. I risultati confermano, purtroppo, la tendenza di cui abbiamo discusso fin ora. Il divario esiste ed è tangibile.

Lo studio è stato condotto prendendo in considerazione una lista di 440 artisti che collaborano con essa e oltre 2700 opere. La metodologia di studio si basa principalmente su 4 punti:

  • il prezzo delle opere
  • gli artisti presenti in galleria
  • i premi vinti da artisti uomini e donne
  • la percezione pubblica del valore di un’opera

I premi di riferimento sono i cinque riconoscimenti più importanti dell’arte contemporanea: il Turner Prize, il Mac Arthur, l’Hugo Boss, il Bucksbaum Award e il Duchamp Prize.

I risultati ottenuti non sono incoraggianti. Guardiamoli insieme.

1. Il valore delle opere artistiche

Parlando meramente in termini economici, il valore delle opere d’arte create da artisti uomini hanno un prezzo maggiore rispetto a quello delle donne. Gli uomini guadagnano il 24% in più rispetto alle creative. Il prezzo medio per un artista uomo è di 3700 euro circa, mentre per una donna ci aggiriamo intorno ai 2900 euro.

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Gli uomini guadagnano il 24% in più rispetto alle donne.

2. Il numero degli artisti e delle artiste

Lista alla mano, su 2723 opere d’arte, 1723 sono state realizzate da uomini, 1000 da donne. In percentuale, la presenza maschile è del 63,3%, quella femminile un 36,7%. Un dato particolare se diamo uno sguardo ai dati sul sito del MIUR per l’anno accademico 2018/2019, relativi agli iscritti alle accademie pubbliche di belle arti in Italia. Le donne rappresentano la maggioranza degli studenti: su 26.756, 18.152 sono ragazze. Che succede dopo? Che tipo di carriere e di percorso scelgono? 

Su 2.723 opere d’arte, 1.723 (63,3%) sono state realizzate da uomini e 1.000 (36,7%) dalle donne.

3. Premi vinti da artisti e artiste

Considerando 5 premi prestigiosi: il Turner Prize, il Mac Arthur, l’Hugo Boss, il Bucksbaum Award e il Duchamp Prize, assegnati ai più brillanti e migliori artisti del mondo dell’arte, ne viene fuori che: su 406 vincitori, 253 artisti sono uomini e 153 donne. Il 62,3% contro il 37, 7%.

gender gap

Su 406 vincitori, 253 artisti sono uomini contro 153 donne. Il 62,3% contro il 37, 7%.

4. La percezione pubblica del valore dell’arte

Voi sareste in grado di giudicare il valore di un dipinto semplicemente guardandolo? Il genere dell’artista influenzerebbe la vostra decisione? Durante un’intervista a 2000 persone, sono state mostrate loro 10 opere d’arte, chiedendo di assegnare un valore.

Incredibilmente, i risultati mostrano che le opere d’arte delle donne hanno una probabilità 3 volte maggiore di essere sottovalutate rispetto a quelle degli uomini. Oltre la metà, il 51,60% dell’arte femminile è stata sottovalutata dagli intervistati, e solo il 12,20% l’ha sopravvaluta. Al contrario, il 31,80% delle persone ha sopravvalutato le opere d’arte prodotte da uomini. Nel complesso, la percezione pubblica del valore dell’arte è che l’arte delle donne vale meno degli uomini, precisamente 3 volte di meno.

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Le opere d’arte create da donne hanno una probabilità 3 volte maggiore di essere sottovalutate rispetto a quelle degli uomini.

I motivi del gender gap e cosa si può fare

Le origini di questa disuguaglianza così forte è dovuta principalmente dal lungo divieto, a discapito delle donne, dalla formazione artistica. Districare le ragioni per cui questa disparità persiste oggi è difficile.

Possiamo rintracciare tante motivazioni: le differenze nell’essere rappresentati in una galleria, i pregiudizi culturali dell’interpretazione dell’arte, il peso sbilanciato della genitorialità tra uomo e donna, ma anche la mancanza di assertività tra le artiste è stata proposta come causa ipotetica. Probabilmente sono cause valide, in un modo o nell’altro, ma alcune fanno veramente storcere il naso e digrignare i denti.

Insieme, questi e altri meccanismi contribuiscono a un effetto in cui il vantaggio genera vantaggio, ed è difficile rompere questo circolo vizioso. 

Oggi le artiste hanno più riconoscimenti rispetto al passato, ma purtroppo la strada è ancora lunga e piena di ostacoli. Donne che lottano per far emergere la propria arte, non possono essere abbandonate a loro stesse dalle istituzioni e dallo stesso panorama artistico.

Frida Kahlo, una delle artiste più apprezzate, riscoperta specialmente negli ultimi anni, diceva che tutti la etichettavano come pittrice surrealista, cercando così di giustificare cosa la ispirasse, quali sogni e quali incubi. Lei dipingeva semplicemente la sua realtà.

Ogni artista ha una voce, uomo o donna che sia. Quanti sono ancora i passi che le artiste dovranno fare per uscire da un alone che le avvolge da così tanto tempo?

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La lettera di Airbnb che potrebbe passare alla storia delle HR

Se non avete già visto la lettera che parla dei licenziamenti imminenti scritta dal CEO Brian Chesky al suo team di Airbnb, probabilmente vi siete persi qualcosa.

Si tratta di una missiva che sta già iniziando a diventare virale, e si trasformerà certamente in un caso di studio per le HR, non solo perché si parla di licenziamenti in tempo di COVID-19.

Per capire cos’è che rende così incredibile la lettera, e soprattutto il sentimento che sta dietro alla lettera, basta leggerla. Ne riportiamo qui il testo tradotto.

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Un messaggio dal co-founder e CEO Brian Chesky

5 maggio 2020

Questa è la settima volta che vi parlo da casa mia. Ogni volta che abbiamo parlato, ho condiviso notizie buone e cattive, ma oggi devo condividere alcune notizie molto tristi.

Quando mi avete chiesto dei licenziamenti, vi ho detto che niente può essere fuori discussione. Oggi devo confermare che stiamo riducendo la forza lavoro di Airbnb. Per un’azienda come la nostra, la cui mission è incentrata sull’appartenenza, questo è incredibilmente difficile da affrontare, e sarà ancora più difficile per chi dovrà lasciare Airbnb. Condividerò tutti i dettagli possibili su come sono arrivato a questa decisione, su cosa stiamo facendo per coloro che se ne vanno e su cosa succederà in seguito.

Permettetemi di iniziare con il modo in cui siamo arrivati a questa decisione. Stiamo vivendo collettivamente la crisi più straziante della nostra vita e, mentre cominciava a svilupparsi, il viaggio globale si è arrestato. L’attività di Airbnb è stata colpita duramente, con un fatturato che quest’anno dovrebbe essere meno della metà di quello che abbiamo guadagnato nel 2019. In risposta a questo, abbiamo raccolto 2 miliardi di dollari di capitale e abbiamo tagliato drasticamente i costi che hanno toccato quasi ogni reparto di Airbnb.

Sebbene queste azioni fossero necessarie, è diventato chiaro che avremmo dovuto andare oltre quando ci siamo trovati di fronte a due dure verità:

  1. Non sappiamo esattamente quando torneremo a viaggiare.
  2. Quando torneremo a viaggiare, il viaggio avrà un aspetto diverso.

Anche se sappiamo che l’attività di Airbnb si riprenderà completamente, i cambiamenti che subirà non saranno temporanei o di breve durata. Per questo motivo, dobbiamo apportare ad Airbnb cambiamenti più radicali riducendo le dimensioni della nostra forza lavoro intorno ad una strategia di business più mirata.

Dei nostri 7.500 dipendenti, quasi 1.900 compagni di squadra dovranno lasciare Airbnb, vale a dire circa il 25% della nostra azienda. Poiché non possiamo permetterci di fare tutto quello che facevamo prima, questi tagli hanno dovuto essere mappati su un business più mirato.

Un business più mirato

I viaggi in questo nuovo mondo avranno un aspetto diverso, e dobbiamo far evolvere Airbnb di conseguenza. La gente vorrà opzioni più vicine a casa, più sicure e più convenienti. Ma la gente avrà anche il desiderio di ritrovare qualcosa che oggi sente come se gli fosse stata portata via – la connessione umana. Quando abbiamo dato vita a Airbnb, si trattava di appartenenza e di connessione. Questa crisi ha acuito la nostra attenzione per tornare alle nostre radici, alle basi, a ciò che è veramente speciale in Airbnb – le persone comuni che ospitano nelle loro case e offrono esperienze.

Questo significa che dovremo ridurre i nostri investimenti in attività che non sostengono direttamente il nucleo della nostra community di host. Stiamo mettendo in pausa i nostri sforzi nei Trasporti e negli Airbnb Studios, e dobbiamo ridurre i nostri investimenti in Hotel e Lux.

Queste decisioni non sono un riflesso del lavoro svolto dalle persone di questi team, e non significa che tutti i membri di questi team ci lasceranno. Inoltre, i team di tutti i reparti di Airbnb ne risentiranno. Molti team saranno ridotti di dimensioni in base alla loro capacità di individuare la direzione di Airbnb.

Come ci siamo approcciati ai tagli

Era importante che avessimo una serie di principi chiari, guidati dai nostri valori fondamentali, per come avremmo affrontato la riduzione della nostra forza lavoro. Questi erano i nostri principi guida:

  • Tracciare una mappa di tutti i tagli in base alla nostra strategia aziendale futura e alle capacità di cui avremo bisogno.
  • Fare tutto ciò che possiamo per coloro che ne sono colpiti.
  • Essere incrollabili nel nostro impegno per la diversità.
  • Ottimizzare la comunicazione 1:1 per coloro che ne sono colpiti.
  • Aspettare a comunicare qualsiasi decisione fino a quando tutti i dettagli non saranno stati definiti – la trasparenza di informazioni solo parziali può peggiorare la situazione.

Ho fatto del mio meglio per rimanere fedele a questi principi.

Il processo per fare riduzioni

Il nostro processo è iniziato con la creazione di una strategia di business più mirata, costruita su un modello di costo sostenibile. Abbiamo valutato il modo in cui ogni team ha mappato la nostra nuova strategia e abbiamo determinato la dimensione e la forma di ogni team che andrà avanti. Abbiamo poi fatto una revisione completa di ogni membro del team e abbiamo preso decisioni basate sulle competenze critiche e su come queste competenze corrispondano alle nostre future esigenze di business.

Il risultato è che dovremo separarci dai compagni di squadra che amiamo e che apprezziamo. Abbiamo persone fantastiche che lasciano Airbnb, e altre aziende saranno fortunate ad averle.

Per prenderci cura di coloro che se ne vanno, abbiamo tenuto conto della liquidazione, dell’equità, dell’assistenza sanitaria e del sostegno al lavoro e abbiamo fatto del nostro meglio per trattare tutti in modo compassionevole e premuroso.

TFR

I dipendenti negli Stati Uniti riceveranno 14 settimane di stipendio base, più una settimana supplementare per ogni anno presso Airbnb. La retribuzione sarà arrotondata all’anno più vicino. Ad esempio, se qualcuno è stato in Airbnb per 3 anni e 7 mesi, riceverà 4 settimane aggiuntive di stipendio, o 18 settimane di stipendio totale. Al di fuori degli Stati Uniti, tutti i dipendenti riceveranno almeno 14 settimane di stipendio, più gli aumenti di ruolo in linea con le pratiche specifiche del Paese.

Equity

Stiamo diminuendo a un anno le regole per l’equity per tutti quelli che abbiamo assunto nell’ultimo anno, in modo che tutti coloro che se ne vanno, indipendentemente da quanto tempo sono stati qui, siano azionisti. Inoltre, tutti coloro che se ne vanno hanno diritto alla data di maturazione del 25 maggio.

Assistenza sanitaria

Nel bel mezzo di una crisi sanitaria globale di durata sconosciuta, vogliamo limitare l’onere dei costi sanitari. Negli Stati Uniti, copriremo 12 mesi di assicurazione sanitaria attraverso il piano federale COBRA. In tutti gli altri Paesi, copriremo i costi dell’assicurazione sanitaria fino alla fine del 2020. Questo perché non siamo legalmente in grado di continuare la copertura, oppure i nostri attuali piani non consentiranno una proroga. Forniremo anche quattro mesi di supporto per la salute mentale attraverso KonTerra.

Sostegno al lavoro

Il nostro obiettivo è quello di mettere in contatto i nostri compagni di squadra che lasciano Airbnb con nuove opportunità di lavoro. Ecco cinque modi in cui possiamo aiutare:

  • Alumni Talent Directory – Lanceremo un sito web rivolto al pubblico per aiutare i membri del team che lasciano Airbnb a trovare nuovi lavori. I dipendenti che lasciano possono scegliere di avere profili, curriculum e portfolio di lavoro accessibili ai potenziali datori di lavoro.
  • Alumni Placement Team – Per il resto del 2020, una parte significativa di Airbnb Recruiting diventerà un Alumni Placement Team. I reclutatori che rimarranno in Airbnb forniranno supporto ai dipendenti che lasciano per aiutarli a trovare il loro prossimo lavoro.
  • RiseSmart – Offriamo quattro mesi di servizi di carriera attraverso RiseSmart, una società specializzata in servizi di transizione professionale e di collocamento.
  • Supporto agli Alumni – Stiamo incoraggiando tutti i dipendenti rimasti ad aderire a un programma per aiutare i compagni di team in partenza a trovare il loro prossimo ruolo.
  • Computer portatili – Un computer è uno strumento importante per trovare un nuovo lavoro, quindi stiamo permettendo a tutti coloro che se ne vanno di tenere i loro portatili Apple.

Ecco cosa succederà dopo

Voglio fare chiarezza su tutti voi il prima possibile. Abbiamo dipendenti in 24 paesi e il tempo necessario per fare chiarezza varia in base alle leggi e alle pratiche locali. Alcuni paesi richiedono che le notifiche sull’impiego siano ricevute in modo molto specifico. Anche se il nostro processo può differire a seconda del Paese, abbiamo cercato di pianificare con cura ogni dipendente.

Negli Stati Uniti e in Canada, posso fornire chiarezza immediata. Entro le prossime ore, quelli di voi che lasciano Airbnb riceveranno un calendario con l’invito a una riunione di commiato con un senior leader del vostro dipartimento. Per noi era importante che, ovunque fosse legalmente possibile, le persone fossero informate in una conversazione personale, uno a uno. L’ultimo giorno lavorativo per i dipendenti in partenza con sede negli Stati Uniti e in Canada sarà lunedì 11 maggio. Abbiamo pensato che lunedì avrebbe dato alle persone il tempo di iniziare a fare i passi successivi e di salutarsi – capiamo e rispettiamo quanto questo sia importante.

Alcuni dipendenti che rimarranno avranno un nuovo ruolo e riceveranno un invito ad un incontro sul tema “Nuovo Ruolo” per saperne di più. Per quelli di voi negli Stati Uniti e in Canada che si trovano nel team Airbnb, non riceveranno l’invito per il calendario.

Alle 18:00, ora del Pacifico, ospiterò un incontro world@ per i nostri team dell’Asia-Pacifico. Alle 12 del mattino, ora del Pacifico, ospiterò un incontro world@ per i nostri team dell’Europa e del Medio Oriente. Dopo ognuna di queste riunioni, procederemo con i passi successivi in ogni Paese sulla base delle pratiche locali.

Ho chiesto a tutti i leader Airbnb di aspettare a riunire le loro squadre fino alla fine di questa settimana per rispetto ai nostri compagni di squadra che sono stati colpiti. Voglio dare a tutti i prossimi giorni per elaborare la questione, e ospiterò un Q&A CEO anche questo giovedì alle 16:00, ora del Pacifico.

Alcune parole finali

Come ho imparato in queste ultime otto settimane, una crisi porta chiarezza su ciò che è veramente importante. Anche se abbiamo attraversato un vortice, alcune cose mi sono più chiare che mai.

In primo luogo, sono grato a tutti qui alla Airbnb. In tutta questa esperienza straziante, sono stato ispirato da tutti voi. Anche nelle peggiori circostanze, ho visto il meglio di noi. Il mondo ha bisogno di connessioni umane ora più che mai, e so che Airbnb sarà all’altezza della situazione. Ci credo perché credo in voi.

In secondo luogo, provo un profondo sentimento d’amore per tutti voi. La nostra missione non riguarda solo i viaggi. Quando abbiamo iniziato Airbnb, il nostro slogan originale era: “Travel like Human”. La parte umana è sempre stata più importante della parte del viaggio. Ciò di cui ci occupiamo è l’appartenenza, e al centro dell’appartenenza c’è l’amore.

A quelli di voi che restano,

uno dei modi più importanti per onorare coloro che se ne vanno è che sappiano che i loro contributi sono importanti e che faranno sempre parte della storia di Airbnb. Sono fiducioso che il loro lavoro continuerà a vivere, proprio come questa missione.

A chi lascia l’Airbnb,

sono veramente dispiaciuto. Sappiate che non è colpa vostra. Il mondo non smetterà mai di cercare le qualità e i talenti che avete portato ad Airbnb… che hanno contribuito a creare Airbnb. Voglio ringraziarvi, dal profondo del cuore, per averle condivise con noi.

Brian

Qui il link per leggere il testo originale.

Bambini curiosità

La curiosità è importante e stimolarla nei bambini porta a un migliore apprendimento

  • È stato dimostrato come la curiosità, unita a un corretto approccio all’apprendimento, possa essere fondamentale in un bambino per apprendere nuove conoscenze;
  • Uno studio dellaUniversity of Michigan ha cercato di dimostrare come solo la curiosità, intesa come componente socio-emozionale, può effettivamente garantire maggiore propensione all’imparare in un bambino con conseguenti migliori risultati scolastici.

 

Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso.

Diceva Albert Einstein, un uomo straordinario che indubbiamente ha lasciato un segno indelebile sul mondo. La parola curiosità, e quindi anche l’aggettivo curioso, deriva dal latino curiosus, che a sua volta deriva da cura, ovvero “sollecitudine”. Il curioso è qualcuno che si cura, che è sollecito nell’investigare e nel ricercare i fatti. Potremmo sintetizzare la definizione epistemologica di “curioso” come qualcuno che è desideroso di sapere, quindi. Tutto ciò si collega alle parole del padre della teoria della relatività, che ci può far pensare che dietro a un genio, oltre al talento, c’è sempre curiosità.

Molte ricerche hanno portato una grande consapevolezza sull’importanza delle componenti socio-emozionali di un individuo quando si tratta di apprendere nuove conoscenze. In particolare, si è notata una correlazione con una maggiore predisposizione dei bambini a imparare e ottenere buoni risultati scolastici. Tra le componenti socio-emozionali da considerare c’è senza dubbio la curiosità, intesa come capacità di immaginare e inventare. Un’importanza fondamentale, poi, la riveste la capacità di autoregolazione dei comportamenti, anche detta “effortful control“, che si collega all’attenzione e tenacia nel portare a termine dei compiti. A queste si collegano i comportamenti pro-sociali, quindi l’abilità a formare e mantenere relazioni, e l’autoregolazione emotiva.

Come si collegano queste componenti alla capacità di apprendere di un bambino? Esistono correlazioni reali e tangibili tra la curiosità e la capacità di imparare cose nuove?

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Che cos’è la curiosità?

La curiosità è caratterizzata dalla gioia di scoprire cose nuove, dalla motivazione di cercare risposte a qualcosa che ancora non si conosce.

Se guardiamo alle moltissime storie di successo di imprenditori, scienziati, sportivi o qualunque altra personalità, ci possiamo accorgere che hanno in comune il fatto di aver scoperto qualcosa di nuovo, o di averlo fatto in modo diverso dall’ordinario: hanno avuto la curiosità di esplorare l’ignoto, di andare oltre, portando innovazione. La curiosità, infatti, è fondamentale per l’apprendimento ed è per questo che è importantissima per i bambini, i quali la sviluppano sin da molto piccoli. Lo psicologo Jean Piaget li ha definiti come dei “piccoli scienziati“, per la loro fame di conoscenza.

Si può definire la curiosità come uno stato motivazionale, un approccio personale, associato all’esplorazione. Può essere collegata a più dimensioni, riferendosi alla persona o a una situazione specifica. Nel primo caso si parla di tratti caratteriali, qualcosa di profondo, insito in un individuo. Una persona può essere curiosa per natura, risultando aperta alle esperienze, desiderosa di novità, propensa ad accogliere tutto ciò che è inaspettato. La curiosità, però, può anche essere situazionale, relativa agli interessi più eccentrici di una persona, e può essere influenzata dal contesto individuale e sociale in cui si trova.

È stato dimostrato, infatti, come le persone possano diventare più curiose se coinvolte in attività a cui danno effettivamente molto significato dal punto di vista personale. Quindi, si potrebbe presupporre che intrattenere i bambini con attività legate a esperienze per loro significative può stimolare la loro curiosità. 

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Bambini curiosità

Come la curiosità stimola l’apprendimento: lo studio

Ci sono molti studi che hanno provato come la curiosità, unita a un corretto approccio all’apprendimento (l’autoregolazione dei comportamenti o effortful control), possa essere fondamentale in un bambino per apprendere nuove conoscenze, soprattutto in età pre-scolastica. Ma la curiosità, da sola, può effettivamente garantire maggiore propensione all’imparare?

È la domanda a cui hanno cercato di rispondere alcuni studiosi della University of Michigan in uno studio del 2018. Se effettivamente la curiosità spinge un bambino a cercare di conoscere qualcosa che ancora non conosce, allora spingendolo a essere sempre più curioso e incoraggiando certi suoi atteggiamenti lo si potrebbe favorire nel suo percorso di apprendimento, scolastico e non.

Ecco quindi che lo studio ha cercato di dimostrare come la curiosità possa diventare un vero e proprio indicatore di risultati per l’apprendimento. Nello specifico, sono stati presi in esame i risultati in matematica e capacità di lettura. Non solo: gli studiosi hanno cercato di analizzare il fenomeno anche considerando alcune variabili, come i livelli di effortful control di un bambino (la sua attitudine verso l’apprendimento), il suo genere, e il suo stato socio-economico. Questo per comprendere come la curiosità possa essere incentivata anche in situazioni e contesti specifici, non solo per sottolinearne l’importanza come tratto di personalità.

6200 bambini hanno preso parte allo studio, che consisteva in alcuni assessment di matematica e lettura per testarne le loro capacità. Genitori e insegnanti, invece, si sono visti somministrare dei questionari legati al comportamento dei bambini. Analizzando i risultati in periodi di tempo diversi (a 9 mesi, a 2 anni, all’asilo, ecc.), si è potuto comprendere pattern e correlazioni tra risultati scolastici e curiosità.

curiosità bambini

I risultati dello studio

Lo studio ha evidenziato come ci sono effettive correlazioni tra curiosità e ottimi risultati scolastici. Ciò è risultato indipendente dai livelli di effortful control dei bambini: chi risultava più curioso apprendeva più facilmente nuove conoscenze e otteneva migliori risultati. In particolare, si è notato che questo accade soprattutto in bambini con uno status socio-economico non elevato.

Dallo studio è stato evidenziato come non sia solo l’approccio all’apprendimento a essere importante per un bambino, ma anche la sua curiosità. Il “mostrare desiderio di imparare nuove cose” diventa fondamentale, soprattutto prima di entrare in un percorso scolastico. Ecco quindi che sarebbe opportuno identificare maggiori opportunità per coltivare la curiosità nei bambini, incoraggiando soprattutto quelli più piccoli.

curiosità

Il fatto che i bambini in condizioni socio-economiche meno rilevanti siano più soggetti a queste correlazioni tra curiosità e apprendimento, poi, può farci riflettere. In un’epoca in cui si è bombardati da fatti e notizie in tempo reale è inevitabile pensare come siamo sempre più circondati da meno curiosità. Può sembrare un paradosso, ma se da un lato abbiamo maggiori possibilità di esplorare il mondo, allo stesso tempo le informazioni a cui siamo esposti non sempre sono significative, di valore. Non solo: diamo per scontato che ottenere un’informazione sia facilissimo, basta un click o pronunciare la parola “Alexa”. Questa facilità ci porta a un calo della voglia di esplorare, del desiderio di sapere, di tuffarsi nella conoscenza di qualcosa. Scoprire qualcosa di nuovo è ormai troppo facile, e non sempre implica uno sforzo.

Una minore esposizione alla tecnologia o una minore interazione con strumenti che ci consentono questo accesso immediato alla conoscenza, forse, potrebbe farci modificare il modo in cui “utilizziamo” la nostra curiosità. Quest’ultima è la nostra sete di sapere, la nostra volontà di scoprire ciò che non si conosce, la voglia di impegnarsi per apprendere qualcosa di nuovo. Può bastare solo quella per portarci a un ottimo apprendimento, e lo studio illustrato precedentemente ha cercato di dimostrarlo. Meno si ha, più si avrà volontà di conoscere qualcosa di nuovo.

Un bambino non ha esperienza, è solo all’inizio di un percorso che dovrà costruirsi, cercando di seguire i suoi interessi e le sue passioni. Per questo, è importante stimolare la voglia di sapere dei bambini, sin dalla tenera età. La curiosità sarà qualcosa che potrà poi accompagnarli per tutta la vita. Se nasce nell’infanzia, con raffiche di domande e richieste, si rafforza nell’adolescenza, accompagnando i ragazzi nella loro crescita. Negli adulti, poi, è uno degli indicatori principali che può portare verso la capacità di innovare e il sentirsi realizzati, fino ad alimentare la voglia di vivere negli anziani. La curiosità, quindi, non è solo qualcosa che può portare i bambini ad apprendere più facilmente la matematica o a leggere meglio, ma una componente emotiva di enorme potenza e valore, che va coltivata continuamente.

Nel tech per le donne ci sono ancora stereotipi da abbattere e insicurezze da vincere

  • È un dato di fatto: le aziende che assumono donne sono più produttive, ciononostante il gender gap continua a persistere;
  • Le insicurezze e gli stereotipi influenzano i percorsi lavorativi delle donne nel settore tech;
  • Il report della Commissione europea dimostra che gli uomini – a parità di esperienza – valutano con più ottimismo le proprie competenze rispetto alle donne.

 

Prima di approfondire la tematica “donne in tech”, è necessario citare gli studi della Columbia University secondo i quali aziende con alte percentuali di dipendenti donne superano i loro concorrenti in termini di redditività. Nonostante ciò, posizioni di vertice, promozioni e salari più alti non sono equamente distribuiti tra i generi. I motivi attribuiti al divario sono diversi, tra cui le barriere burocratiche e le differenze culturali. Numerosi studi, inoltre, dimostrano come la carenza di fiducia nei propri mezzi delle donne le spinga spesso a sottovalutarsi e a frenarsi.

La disparità per le donne in tech

Women in the digital age, il report della Commissione Europea sulla disparità di genere nel settore tecnologico, dimostra che il divario tra uomo e donna è ancora grande. Il gender gap nelle alte posizioni dell’high-tech è ancora quasi il doppio rispetto agli altri settori.

Al giorno d’oggi, nel settore della programmazione, le developer di sesso femminile sono sotto-rappresentate. Il digital report conferma il cosiddetto “confidence-gap” ovvero che le donne – a parità di anni di esperienza dei colleghi maschi – sottovalutano le loro capacità. Su una scala da 1 a 10, più del 70% dei developer maschi hanno valutato le loro abilità nella programmazione con voto 7 o più, mentre solo la metà delle donne ha scelto di darsi un voto uguale o superiore al 7.

Report "Women in the digital age"

Statistica tratta dal report della Commissione europea “women in the digital age”

Gli stereotipi di genere hanno fatto sì che le donne tendano molto meno degli uomini a pubblicizzare i risultati ottenuti.

La scrittrice e giornalista di ABC News Claire Shipmann, nel suo libro “The Confidence Code”, racconta che inizialmente giustificava il suo successo avuto come corrispondente della CNN con un semplice “sono solo fortunata”, essendosi trovata a suo parere nel posto giusto al momento giusto.

Inconsciamente credeva che i suoi colleghi di sesso maschile, in quanto più sicuri di sé, dovessero parlare di più in televisione rispetto a lei. Ma erano davvero più competenti?

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Donne in tech: l’insicurezza alla base delle scelte lavorative

La carenza di fiducia femminile è sempre più quantificata e documentata. Nel 2011, l‘Institute of Leadership and Management, nel Regno Unito, ha effettuato un sondaggio tra i dirigenti britannici sulla fiducia che hanno nelle loro competenze. La metà delle donne intervistate ha espresso dubbi su prestazioni lavorative e carriera, rispetto a meno di un terzo degli intervistati di sesso maschile. 

Hewlett-Packard (HP) diversi anni fa ha condotto degli studi per cercare di capire come portare più donne nelle posizioni di vertice. La revisione dei documenti interni ha rilevato che le donne assunte da HP hanno presentato domanda di promozione solo quando ritenevano di soddisfare il 100% delle qualifiche elencate per la posizione offerta. Gli uomini invece erano felici di candidarsi quando pensavano di poter soddisfare il 60% delle esigenze lavorative. Vari studi antecedenti a quelli di HP confermano l’ipotesi che la maggioranza degli uomini, seppur sotto-qualificati e sotto preparati per una certa mansione, non pensano due volte prima di lanciarsi in una nuova sfida.

Il cosiddetto “sesso debole” in realtà non lo è. È forse debole chi passa ore ed ore in sala parto per mettere al mondo un figlio? È debole colei che mensilmente si reca al lavoro seppur abbia il ciclo con forti dolori mestruali? È debole chi giostra famiglia-lavoro-casa?

Storia di una donna in tech: Mada Seghete, dal fallimento al successo

La carriera di Mada Seghete, oggi CEO di una startup della Silicon Valley, è iniziata quando ha lasciato la sua città natale in Romania per studiare ingegneria informatica negli Stati Uniti. Rimasta poi all’università per ottenere anche un master in economia aziendale, il suo primo tentativo di avviare un’azienda è stato un fallimento, ma proprio in quel momento di crisi ha scoperto una lacuna sul mercato, trasformando così la sua impresa.

Seghete racconta d’aver trovato equilibrio e supporto in gruppi di imprenditrici, dove ha potuto esprimere liberamente dubbi e insicurezze.

“Credi nel fatto di potercela farce. Credi che solo il cielo sia il limite. Credi che puoi fare più di quanto pensi di poter fare”.

In questa video-intervista racconta la sua carriera come donna in tech.

Il femminismo non è contro il genere maschile

Il femminismo ideologicamente non combatte per togliere diritti al genere maschile, ma combatte per ricevere equamente gli stessi diritti. Scende in strada anche per i diritti degli uomini, dei padri. Perché anche i neo-papà, al giorno d’oggi, non possono automaticamente prendersi un periodo di paternità, a meno che le circostanze non lo richiedano.

Ciononostante, molte persone alla parola “femminista” storcono ancora il naso o rispondono con un semplice “il mondo ha altri problemi”. Parlando di problemi, vogliamo citarne solo alcuni:

  • I dati del rapporto Eures 2019 su Femminicidio e violenza di genere mostrano che in Italia nel 2018 sono state 142 le donne uccise, +0,7% rispetto all’anno precedente, il valore più alto mai censito in Italia;
  • Il senato del Missouri nel 2019, composto maggiormente da uomini, ha deliberato che l’aborto dopo la 6a settimana rappresenta un reato, anche di fronte a stupro o incesto. Un giudice federale ha poi bloccato l’entrata in vigore della norma.
  • Il gender gap persisterà nel mondo in media per altri 99 anni. In Italia ci vorranno circa 54 anni per superare il divario;
  • Oggi, oltre ai femminicidi e alle violenze domestiche, non mancano innumerevoli episodi di insulti e l’uso di linguaggi violenti. Non basterebbe un articolo per completare la lista. L’avversario dei femministi e delle femministe non sono dunque gli uomini, ma è un sistema di ideologie discriminatorie.

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Genau das! ???

Pubblicato da EDITION F su Martedì 13 agosto 2019

L’educazione è fondamentale

La società odierna educa maggiormente le bambine ad essere gentili, perfette e diligenti, mentre i bambini ad essere più forti e più combattivi, ad avere successo, ad osare.  I media, i libri e le pubblicità negli scorsi anni – con le dovute eccezioni – suggerivano alle bambine di aspirare ad una vita da principesse in attesa di un principe che le salverà. Ai bambini invece ad essere forti come i supereroi. L’esperimento della BBC spiega come gli stereotipi di genere possono involontariamente educare i bambini e le bambine a comportasi in un certo modo.

Insegniamo il coraggio, non la perfezione

Reshma Saujani, una delle più conosciute donne in tech, CEO e fondatrice di Girls who code, insiste sull’importanza di educare ogni ragazza a essere coraggiosa: è necessario uscire dalla logica della perfezione, perché è proprio questo tipo di educazione che favorisce atteggiamenti arrendevoli ed eccessivamente prudenti. “Dobbiamo insegnare loro ad avere fiducia, a osare e a credere nelle proprie capacità. È ormai famoso il discorso tenuto da Saujani al TEDx, da vedere e rivedere:

“Insegnate alle giovani donne il coraggio piuttosto che la perfezione”.

Anche il detto “dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna” è fuori luogo, non è più al passo con i tempi. Le grandi donne hanno diritto di stare affianco ad un grande uomo, non dietro. (Per par condicio: I grandi uomini hanno diritto di stare affianco ad una grande donna, non dietro).

Coronavirus e Digital Transformation: spinte evolutive per la direzione HR

  • Le HR si configurano come il vero driver dell’innovazione e della digital transformation;
  • Le aziende devono ridisegnare i processi aziendali e al tempo stesso rassicurare le persone per accompagnarle verso un nuovo modo di lavorare.

 

L’emergenza sanitaria in corso, scatenata dalla pandemia COVID-19, ha cambiato in poco tempo, e probabilmente cambierà per sempre, le abitudini di vita e di lavoro delle persone. Ha cambiato anche le strategie aziendali e, in particolar modo, ha modificato la gestione e l’organizzazione delle persone verso una modalità di lavoro delocalizzata e sempre più digital.

Questo veloce cambiamento ha portato le Human Resource ad essere il vero driver dell’innovazione e della digitalizzazione. Le HR, infatti, sono state chiamate (dalla sera alla mattina) a reinventare processi organizzativi per consentire all’impresa di proseguire l’attività lavorativa; non hanno solo modificato il modo di lavorare delle persone ma sono profondamente cambiate anche nel loro interno, mettendo in luce in poco tempo skill come leadership e change management.

Digital transformation, digital tools

La prima scelta delle HR, imposta anche dal Governo, è stata quella di implementare velocemente:

Attraverso l’utilizzo di questi strumenti le organizzazioni sono riuscite a dare continuità all’attività lavorativa. La risposta lato umano è stata ottima, passando a una riorganizzazione del privato per accogliere il lavoro all’interno dell’ambiente domestico.

Non solo, le persone hanno dovuto sviluppare differenti capacità: autonomia, collaborazione, condivisione e responsabilizzazione. Perché una modalità di lavoro agile passa, in primis, da un rivoluzione organizzativa d’impresa e poi da un cambiamento personale dell’individuo.

In poco tempo, le HR hanno dovuto creare processi digital che consentissero alle aziende di continuare ad operare, e ai lavoratori delocalizzati di gestire il lavoro in autonomia pur rispettando le scadenze prefissate.

Sfida non facile, perché comporta un cambio culturale e organizzativo obbligato e veloce, legato a questi due fattori:

  • Change management. Con questo termine inglese (traducibile come “gestione del cambiamento”) si intende un approccio strutturato al cambiamento negli individui, nei gruppi, nelle organizzazioni e nelle società che rende possibile (e/o pilota) la transizione da un assetto corrente ad un futuro assetto desiderato. Il change management, così come viene comunemente inteso, fornisce strumenti e processi per riconoscere, comprendere e gestire l’impatto umano di una transizione, ad esempio dovuto all’innovazione tecnica o a una variazione nella gestione operativa.
  • Employee experience. Racchiude tutto ciò che un lavoratore osserva e percepisce durante l’intera esperienza di lavoro con una determinata azienda. La qualità di questa esperienza viene influenzata da elementi come gli spazi di lavoro e la flessibilità nella gestione del tempo e degli obiettivi, le interazioni con colleghi e dirigenti, il work-life balance (ovvero l’equilibrio ideale tra lavoro e vita personale, che per ogni lavoratore si trova su un punto diverso), la dotazione di strumenti tecnologici per rendere più efficiente e semplice il lavoro e, ovviamente la remunerazione e la presenza di benefit.

Si va quindi verso una cooperazione forte tra HR (driver) ed employee, ossia verso una visione persona-centrica.

Come le HR modificheranno l’ambiente di lavoro

La pandemia inevitabilmente cambierà le organizzazioni, i metodi di lavoro e le relazioni con le persone.

Ecco come le Risorse Umane diventeranno il driver della digitalizzazione.

Si investirà nell’HR

Il Coronavirus ci sta mostrando la centralità delle risorse umane in tandem con la digital transformation.

Mai come in questa situazione abbiamo visto che investire in questo binomio, ha consentito di dare continuità all’attività lavorativa utilizzando la digitalizzazione come medicina contro il virus, consentendo altresì, in alcuni casi, anche di aumentare le performance dei collaboratori.

Si andrà verso un modello employee-centric

Le HR lavoreranno per:

  • Un coinvolgimento importante dei lavoratori partendo dai punti di forza di ciascuno. In questo modo si otterrà maggiore produttività anche in situazione di lavoro a distanza;
  • KPI innovativi, tra cui: la capacità di progressione, ossia l’abilità di sapersi evolvere velocemente quando necessario, ridefinendo spazi, tempo ed energie, la leadership ecologica, che va in ottica di una valorizzazione della crescita e dell’evoluzione delle persone, la ricerca di Ambassador della Positività, persone che sanno trasformare un momento critico in un’occasione di vicinanza, cioè persone con una buona dose di intelligenza emotiva, empatia e ottimismo.

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Si continuerà verso lo smart working ma solo insieme al team building

Non sarà sicuramente possibile far rientrare massivamente le persone sul posto di lavoro, per questo motivo lo smart working sarà ancora, per molto tempo, il protagonista assoluto.

Lo smart working, per funzionare nel modo corretto, dovrà necessariamente essere supportato da un importante lavoro di team building al fine di ottenere una comunicazione efficace, fluida e condivisa in tutti i reparti. Eliminare i protagonismi per dare spazio al lavoro di squadra.

Una grande sfida per le HR.

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Si ridisegnerà la formazione

Il ritorno in aula per i consueti appuntamenti formativi rimane ancora un miraggio, per cui è il momento questo di puntare sull’innovazione e sul digital learning.

Le HR dovranno quindi spingere in questa direzione per creare percorsi formativi personalizzati sulle esigenze degli employee in un’ottica di community, come il social learning, ad esempio.

Occorrerà ripensare tutta l’esperienza di apprendimento investendo su metodi sempre più innovativi, gamification e AR su tutti.

Pianificazione e riorganizzazione degli spazi aziendali

Le HR dovranno anche ridisegnare gli spazi aziendali, per accogliere le persone mantenendo la distanza di sicurezza che la legge impone.

Occorrerà strutturare un lavoro su turni, per esempio, oppure creare per alcune tipologie di lavoro (come i commerciali) degli spazio di lavoro virtuali (digital desk).

Cushman & Wakefield, società americana di servizi immobiliari globali, ha elaborato delle linee guida per un corretto rientro in ufficio. “The 6 feet office”, questo il nome del progetto, sta per “6 piedi” (i nostri 2 metri), ovvero la distanza consigliata dagli esperti per evitare la trasmissione del virus da persona a persona. È composto da sei punti chiave.

  1. un’analisi dell’attuale ambiente di lavoro nell’ottica di migliorarlo per impedire la diffusione del virus;
  2. l’introduzione di un codice di condotta che tutti devono rispettare per mantenere l’ambiente in sicurezza;
  3. la creazione di un percorso unico per ogni ufficio con un sistema di segnalazione visivo;
  4. l’individuazione delle figure chiave che possano verificare che tutto il processo si svolga correttamente;
  5. il conseguimento di una certificazione di sicurezza: un attestato vero e proprio che determini la sicurezza del luogo di lavoro;

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Le sfide delle HR per il prossimo futuro

Ridisegnare i processi aziendali e, al tempo stesso, rassicurare le persone accompagnandole verso un nuovo modo di lavorare non è una sfida semplice.

Le organizzazioni dovranno inevitabilmente sostenere dei costi per potersi adeguare a questa trasformazione obbligata. Le realtà che hanno già iniziato, nel passato, il percorso di digital transformation sono meno impreparate, ma purtroppo sono ancora tante quelle che non hanno intrapreso questa strada.

Le HR possiedono competenze gestionali e, da un po’ di tempo a questa parte, anche digitali e sono quindi il driver più importante per accompagnare le imprese verso una nuova e mai provata operatività. Appare oramai piuttosto scontato che la modalità di lavoro a distanza sarà ancora per molto tempo la forma di lavoro preponderante in molti settori, per cui le istituzioni dovranno intervenire per introdurre strumenti agevolativi per consentire a tutti di adeguarsi a questa trasformazione in ottica di abbattimento dei costi.

Giovani imprenditori ai tempi del COVID-19: le nuove idee ci salveranno

  • Il 2020 lo ricorderemo, oltre che per la sua bisestilità, anche per uno dei più grandi stravolgimenti prima sanitari e poi economici della storia: il COVID-19
  • I settori trend trainanti, i rapporti sociali, il modo di essere imprenditore: ancora una volta si punta sui giovani per idee innovative che ci guideranno in questo nuovo mondo post apocalittico

 

Alcuni la definiscono come un periodo di crisi mai visto per il nostro tessuto economico, una crisi sanitaria che si è trasformata velocemente anche in crisi economica e dell’imprenditoria, una situazione in cui non si riesce a vederne la via d’uscita certa, ma nella quale oggi ci si sta muovendo per tentativi. Tutto vero, ma poi si legge e si guarda di come, in una situazione così buia, il popolo italiano abbia ritrovato senso di unione e umanità e si sia fatto valere per quello che è: una Nazione piena di innovazione e di idee, che salvano anche la vita, come quelle di alcuni giovani imprenditori.

Ecco che possiamo citare un caso emblematico: Issinnova con il team bresciano guidato da Cristian Fracassi con le sue valvole stampate in 3D che ha trasformato un hobby, lo snorkeling, nella soluzione creando una partnership con Decathlon. O ancora parlare di Copan, guidata dall’italianissima Stefania Riva, a cui è stato chiesto di incrementare la produzione di tamponi per far fronte all’emergenza.

Continuare ad essere un brand di successo convertendo le produzioni per fare la propria parte è forse quello che ci si aspettava, ma essere un neo imprenditore in un contesto come quello attuale è una mossa coraggiosa e cosa più importante di nomi ce ne sono!

Il trend economico per il 2020, previsioni e settori “caldi”

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È importante partire da dove saremmo se il 2020 fosse stato l’anno che tutti si aspettavano. In particolare guardando a quelli che sono e saranno i settori caldi.

Lo scenario previsto all’inizio di quest’anno vedeva tutti gli economisti d’accordo su una crescita del PIL ed una decrescita della disoccupazione nella maggior parte dei Paesi con un ruolo delle banche centrali sempre più defilato.
Insomma si era considerato il 2020 come un anno di rinascita e crescita dopo l’ultima crisi finanziaria.

Sul fronte Globalizzazione, invece, seppur pareva un trend in continua crescita, i dati parlavano di slowbalisation e a questo punto sarà il vero trend economico rilevante: ossia la condizione per il quale tutte le economie del mondo continueranno ad essere interconnesse, ma con meno accelerazione rispetto agli anni passati. Il tessuto locale su cui fare focus si fa un’esigenza sempre più importante e questo sia per i dazi imposti all’import-export di alcuni beni, ma anche per lo sviluppo economico in crescita dei cosiddetti Paesi Emergenti.

Dopo aver inquadrato lo scenario macro, vediamo quelli che sono i settori trend e trainanti dell’economia 2020.

Se i sistemi di pagamento via smartphone sono uno dei comparti in crescita costante da qualche anno, vedi Apple Pay o Google Wallet, e uno dei settori trainanti del Fintech, non solo in Italia, con il raddoppio degli utenti che ne utilizzano le funzionalità anche la sezione bot e chatbot non scherza. Tecnologia sempre più “umana” con un’attenzione particolare alla loro interazione con l’uomo e al fatto che possano rendere interattivi gli oggetti più comuni.

Al terzo e quarto posto un grande tema: l’alimentazione. Non solo per le tecnologie blockchain, ma anche perché forse siamo pronti, o no, al cambiamento: da carne da animali alla farina di insetti. Ce lo dice Fucibo, startup italiana, che per metà maggio ha in programma il lancio della sua linea di pasta con 100% farina di insetti.
Quando invece si preferisce ancora la carne tradizionale, ecco che al quarto posto, si fa strada l’eticità dell’allevamento: focus sugli allevamenti attenti agli animali, al bio o anche solo all’aria aperta; Slowfood ha lanciato una vera e propria campagna di sensibilizzazione verso una riduzione di consumo di carne e di un prodotto di qualità migliore

Quinto e sesto per l’economia della cura così suddivisa: il tech nel beauty e l’attenzione per il prossimo, per altro vero trend del 2020 ad oggi.
L’acquisto di prodotti online di beauty ha un valore attuale di 22,1 miliardi di dollari con una previsione di crescita a 27,8 miliardi nel 2022. Con più mercato per i giovani imprenditori che vogliano partire da un eCommerce per fare la loro fortuna e un diffuso impiego della realtà aumentata per “la prova” sul proprio viso del prossimo makeup.
La cura per gli altri invece, si sta concretizzando in startup come Ugo, in grado di incrociare domanda ed offerta nel campo dell’assistenza alla persona, soprattutto per le esigenze quotidiane come la spesa o il trasporto in ospedale per le visite di routine.

Ultimo, ma legato a quello che il tema ecologia e green, è il settore legato al mondo vegetale, non solo alimentare, ma anche giardinaggio, cura del verde, architettura con nuovi modi di riportare gli alberi in città. Ci basta pensare al lancio del famoso Hashtag #urbanjungle.

Le startup nate con il COVID, l’innovazione non si ferma

Se queste erano le previsioni, probabilmente qualcosa andrà rivisto o solamente adattato, il fintech e la cura del prossimo sono anche in questa situazione COVID oriented tra i settori più di interesse per le nuove startup che si fanno avanti.

Si parla già di economia del confinamento e chi fa o vuol fare impresa la deve conoscere al meglio per sfruttare quelle che sono nuove o vecchie leve che porta con sè.

Questa emergenza, primariamente sanitaria, ha portato al coinvolgimento in una situazione di limitazione delle libertà umane di praticamente tutta la popolazione mondiale e anche quando il lock-down avrà termine le abitudini umane avranno subito un notevole cambiamento, tutto si concentrerà ancora di più sul demand, l’on-line e la consegna a domicilio, gli italiani potrebbero, per una volta, essere un popolo freddo e distaccato.

Se ai grandi brand vogliamo dire di farsi ricordare come chi ha fatto del bene durante l’emergenza e non solo inventando ed implementando format anche social di intrattenimento per i clienti rinchiusi, ma anche, e soprattutto, come colui che ha donato, che ha riconvertito la propria produzione per produrre il materiale utile ai soccorsi e che ci ha messo la faccia nel fare qualcosa per il suo Paese e i suoi dipendenti.
Tranquilli, finita l’emergenza i risultati saranno tangibili: la clientela avrà ben presente su che brand investire e i migliori talenti sapranno qual è l’azienda per cui vogliano lavorare.

E per i giovani imprenditori?

I giovani imprenditori sono sempre una delle risorse più importanti del tessuto economico perché con sé portano nuovi bagagli di conoscenze, nuove idee, la fame di successo e la flessibilità di adattamento.

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Ecco allora che sbucano bandi, sia della commissione Europea sia di Innova, per chi è in grado di creare tecnologie ed idee al servizio del periodo di emergenza, che possano essere anche rivoluzionari nel bel mezzo della pandemia.
La Commissione Europea ha messo a disposizione 164 milioni di euro e chiama startup e PMI puntando sul comparto tecnologico e innovativo per il monitoraggio o la misurazione del contagio.
Il bando di Innova, concluso a fine marzo, ha preso in considerazione 3 settori di provenienza dei candidati:
l’ambito DPI, dispositivi di protezione individuale, e respiratori o componentistica per chi è in grado di produrne in quantità:

  • l’ambito diagnosi con i soggetti in grado di produrre tamponi o kit innovativi che misurino il contagio
  • l’ambito monitoraggio e prevenzione includendo tutte quelle app o tecnologie che possano registrare gli spostamenti dei cittadini e relativi comportamenti

Ecco, quindi, che vogliamo citare, dopo aver già citato in apertura Issinova e Fracassi, altre due startup guidate da giovani imprenditori che in questo periodo hanno avuto l’idea, hanno saputo prendere il bello anche da questa situazione come solo dei giovani imprenditori sanno fare.

Il primo caso è quello di Webtek, guidata dal 35enne Piasini, che ha convertito parte della sua azienda di software nella creazione di un’app in grado di tracciare gli spostamenti e con chi è venuto a contatto un paziente positivo al Covid.
La app ha un nome chiaro “Stop Covid 19” e sarà in grado, tramite incrocio di tracciati GPS, di fornire una mappa quasi precisa degli spostamenti del soggetto andando quindi ad intercettare e avvisare chi negli ultimi giorni è venuto in contatto con lui.
E sul tema privacy? L’utente deve fornire autorizzazione, per 2 volte, dell’utilizzo della sua geolocalizzazione ed è obbligato solo a fornire il suo numero di telefono.
Ovviamente questi arresti forzati non danno grande evidenza del funzionamento in quanto la maggior parte dei soggetti è confinata, ma alla riapertura potrebbe rappresentare davvero uno strumento molto utile.

La seconda startup è Pharmap, nata nel 2017 da una coppia di oggi trentenni premiati da Forbes per il 2020 e che sostanzialmente fonda il suo business sulla consegna a domicilio dei farmaci.
Pharmap è un servizio importantissimo per i cittadini che possono ricevere a casa propria i farmaci da loro acquistati abitualmente o occasionalmente anche quelli con prescrizione medica, ma altrettanto importante per la farmacia aderente: una via nettamente utile per incrementare clientela e fidelizzazione.
La startup che già aveva la strada segnata, con un incremento del 200% nel 2019 degli utenti, ha visto incrementare con questa emergenza la sua popolarità garantendo anche la consegna gratuita per un periodo limitato. I piani per il futuro vedono l’azienda proiettata in altri Paesi d’Europa, quindi stiamo a vedere.

Classifiche: i talenti Under 30 del 2020

Ecco quindi che, come da tradizione, spunta la classifica dei 100 talenti under 30 di Forbes sia America che Italia. Sono praticamente 200 ragazzi che con le loro idee stanno cambiando il mondo.

Tra i 100 USA ci sono anche tre nomi italiani: i primi due sono di due sorelle, Recchi che hanno creato un chatbot-tutor per gli studenti universitari (EdSight) e quello di un italoamericano, Stefano Daniele, impiegato nella ricerca medica per quella che parrebbe una vita cerebrale dopo la morte.

Ma la classifica completa la trovi qui

Per gli italiani, invece, abbiamo già citato Pharmap, ma i settori dei giovani talenti sono tra i più diversi, non solo quindi il settore Healthcare, ma anche intrattenimento, finanza, food&drink e marketing che mettono in luce talenti.
I candidati non devono necessariamente essere startupper, ma anche o giovani imprenditori che, presa l’azienda del padre, ne hanno cambiato l’immagine o hanno puntato su nuove feature per renderla al passo coi tempi.

Ragazzi su cui puntare e ai quali verranno affidati tutor d’eccellenza del loro settore di operatività che li aiuteranno “a diventare grandi”.

La classifica la puoi leggere sul sito di Forbes.

contact tracing app immuni privacy

Perché non è la privacy la giusta preoccupazione sulle contact tracing app

  • La discussione sui rischi legati alla privacy delle contact tracing app potrebbe essere una “distrazione” da ciò che è davvero importante;
  • Il funzionamento dell’app ha già preso in considerazione i rischi per la privacy ed è conforme alle normative;
  • Ci sono problematiche diverse che rischiano di rendere l’app poco efficace, specialmente se non si riesce a coinvolgere davvero il cittadino.

 

Sì, la cosa si fa sempre più simile a un film di fantascienza. Se qualcuno avesse avuto, solo qualche mese fa, l’idea di scrivere una sceneggiatura su una società in cui le persone sono obbligate a restare a casa o a utilizzare i propri dispositivi tecnologici per verificare i propri contatti, sarebbe entrato di diritto nella lista dei grandi autori a fianco di Orwell con 1984.

Ma si sa, la vita è molto più creativa del più creativo degli esseri umani, e a volerla guardare esclusivamente dal punto di vista tecnologico il Coronavirus ha reso realtà i film fantascientifici che ci dilettavamo a guardare su Netflix.

L’ultima evoluzione è quella che, con scelta altrettanto hollywoodiana, è stata definita “Fase 2”. Ebbene sì, una delle soluzioni che ci aiuteranno ad attuarla, ormai è ufficiale, è la contact tracing app sui nostri smartphone: Immuni, dell’azienda tecnologica italiana Bending Spoons.

Chiaramente, come era più che prevedibile, ancora prima che l’annuncio fosse ufficiale, l’app ha attirato più critiche e teorie complottiste che proseliti. Si sono susseguite teorie di tutti i tipi, sia sugli usi che potrebbe farne il governo, sia sulla legittimità dell’azienda scelta.

Da una parte è lecito che sia così: si tratta di una soluzione talmente ampia e inedita che non possiamo semplicemente accettarla passivamente. Soprattutto visto che siamo tra i Paesi con più leggi a tutela della privacy, e che come UE abbiamo sottoscritto solo due anni fa il famoso GDPR.

Dall’altra, come al solito, pare che il dibattito si concentri più su temi politici che su quelli di reale importanza, e quindi per l’appunto la discussione sulla privacy è l’unica (o quasi) che sembra aver monopolizzato le prime pagine dei giornali.

Ma è davvero questo il punto? O si tratta, come spesso capita, di una “distrazione” da temi ben più sensibili? Proprio quelli che possono davvero mettere a rischio il successo o meno non solo dell’app, ma dell’intera Fase 2?

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contact tracing app immuni privacy

La privacy come “distrazione” dai veri problemi dell’app

A suggerirlo è qualcuno che di privacy, sorveglianza tecnologica e simili temi ne sa qualcosa: Zak Doffman, CEO di Digital Barriers, azienda internazionale che sviluppa soluzioni avanzate di sorveglianza per la difesa, la sicurezza nazionale e l’anti-terrorismo.

In un lungo articolo apparso su Forbes, Doffman esplora proprio la risposta a questa domanda: dobbiamo davvero preoccuparci della privacy con queste app, o è appunto una “distrazione” dai veri problemi che potrebbero renderle inefficaci? È possibile che qualcuno o qualcosa le utilizzi per spiarci, in uno scenario orwelliano?

“C’è un vecchio adagio nel settore della sorveglianza: se hai troppe informazioni, non ne hai abbastanza“, spiega nell’articolo. “L’idea che le contact tracing app siano il sogno di qualche spia è insensata. Se lo Stato volesse controllarvi, avrebbe metodi molto più pratici già a portata di mano. Qualcosa come un cellulare, che ha un sistema di accensione e spegnimento, non sarebbe efficace. Qualunque ‘persona di interesse’ potrebbe semplicemente disattivarlo, è inutile”.

Inoltre, aggiungo io, se qualche organizzazione malintenzionata volesse approfittarsi della situazione per ottenere i nostri dati, presumibilmente non lo farebbe in questo contesto: la contact tracing app di Stato sarà probabilmente la cosa più controllata (e criticata) a cui si possa pensare. E dove ci sono i riflettori di tutti puntati, solitamente non c’è abbastanza ombra per operare inosservati.

Infine, consideriamo che quello della privacy è spesso un “falso problema”, che vediamo come terribile nel futuro ma a cui siamo ciechi nel presente. Se siamo preoccupati dei dati di tracciamento che qualche azienda potrebbe avere su di noi, proviamo a dare un’occhiata a quelli che Google Maps raccoglie sui nostri spostamenti, a meno che non si siano rimossi i relativi permessi.

Quindi, posto che la privacy non è un problema di cui dovremmo preoccuparci quando parliamo di app ufficiali per il tracciamento per contrastare il Coronavirus, di cosa dovremmo preoccuparci?

problemi app di tracciamento

Come funzionerà (e ci tutelerà) la contact tracing app nostrana

Per fortuna (almeno sotto certi punti di vista), al contrario che in altri Paesi, in Italia e in Europa ci si sta orientando verso soluzioni tecnologicamente più rispettose della privacy.

E forse il fatto che giganti come Google e Apple abbiano deciso non solo di intervenire, ma anche di unire le forze, potrebbe rendere il tutto paradossalmente più sicuro: cane e gatto non potranno che controllarsi a vicenda.

In Cina (e in misura diversa in altri Paesi, come la Corea del Sud e Singapore) la contact tracing app designata è stata introdotta e utilizzata in maniera estremamente pervasiva, non solo per notificare ai diretti interessati un possibile contatto con un contagiato, ma anche per verificare l’isolamento e le attività svolte.

Qui la grande differenza tra Oriente e Occidente, per quanto riguarda la lotta “tecnologica” al Coronavirus. E paradossalmente uno dei motivi per cui noi arriviamo a parlare solo adesso di un’app di tracciamento, quando è realtà da diverse settimane nei sopra elencati Paesi.

contact tracing app italia

Ecco alcuni degli elementi che, in Italia in particolare con Immuni, verranno messi in campo per garantire la sicurezza della privacy e la libertà dei cittadini:

  • L’adesione all’app sarà su base totalmente volontaria, anche se si stanno valutando diversi tipi di incentivi
  • Si è scelto di utilizzare unicamente la tecnologia Bluetooth Low Energy (BLE), che non contiene informazioni di localizzazione ma solo di prossimità (si saprà che due dispositivi sono stati vicini, ma non dove né per quanto tempo)
  • Per aumentare la privacy, la sicurezza dei dati e andare incontro alle indicazioni di GoogleApple, si segue il progetto Decentralised Privacy-Preserving Proximity Tracing (DP-3T) che si è separato da Pepp-Pt perseguendo un modello più decentralizzato (e quindi più sicuro)
  • Quando due cellulari si avvicinano a una determinata distanza e per un tempo definito, si scambiano il proprio codice anonimo generato localmente e crittografato (quindi un numero casuale senza alcun dato sensibile sulla persona a cui è associato)
  • I codici degli altri device con cui si entra in contatto verranno conservati nella memoria del dispositivo
  • Qualora uno dei soggetti che ha scaricato l’app risulti positivo al virus, gli operatori sanitari gli forniscono un codice di autorizzazione con il quale l’utente può scaricare su un server ministeriale il proprio codice anonimo
  • Se l’app riconosce tra i codici anonimi resi noti uno di quelli con cui è entrata in contatto, invia una notifica all’utente (quindi senza possibilità di sapere chi/come/quando era il contagiato) – sarà poi sua responsabilità auto-isolarsi di conseguenza
  • Il Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione si impegna a rendere il codice dell’applicazione open source, quindi non solo utilizzabile da altri governi nella lotta contro il virus, ma anche verificabile e revisionabile (ma NON modificabile) da chiunque vi abbia interesse

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contact tracing app immuni privacy

Per tutelare la privacy, mettiamo a rischio la Fase 2 in altri modi

Quindi, messa da parte la preoccupazione legata alla privacy, siamo a posto, giusto? Quest’app ci permetterà di tornare praticamente alla vita di prima?

Purtroppo non è così facile, in parte proprio perché, per riuscire a rendere l’app il più rispettosa della privacy, abbiamo almeno parzialmente dovuto compromettere la sua efficacia, in vari modi.

Il primo scoglio sarà l’adozione da parte della popolazione, essendo totalmente libera e volontaria. Che non significa solo scaricarla, ma accettare tutte le impostazioni sulla privacy, non disattivare le notifiche, continuare a utilizzarla, etc. Consideriamo che, a detta degli esperti, per essere davvero efficace il sistema dovrebbe essere utilizzato almeno dal 60-70% della popolazione. In Italia nel 2019 si collegava almeno una volta al mese da mobile il 66.6% degli italiani, quindi dovrebbe utilizzare l’app praticamente la totalità dei possessori di smartphone. Già così è complicato.

Poi c’è un tema di funzionamento: non avendo finalità di controllo, l’efficacia del sistema si baserà quasi totalmente sul senso di responsabilità del singolo, che dovrà auto-isolarsi quando notificato. Bastano pochi falsi-positivi o problemi simili per compromettere l’intero sistema, facendo perdere agli utenti fiducia nel processo e quindi vanificando il senso di responsabilità civica necessario perché il tutto funzioni.

Inoltre, il sistema basato sul Bluetooth non è così sensibile nel calcolare l’esatta distanza tra due dispositivi (saranno essenziali i contributi di Apple e Google per ridurre questo problema quanto possibile). Un sistema misto (blended), che comprenda sia Bluetooth che dati GPS, sarebbe più accurato in questo senso perché permetterebbe di avere informazioni aggiuntive oltre alla semplice vicinanza; ma, come dicevamo, per maggiore privacy non sarà possibile usare il GPS e quindi identificare informazioni quali la durata del contatto o la località – rendendo praticamente identico il livello di rischio di uno sconosciuto incrociato per strada e di un collega di lavoro con cui si condivide l’ufficio.

contact tracing app immuni privacy

Infine, come ha reso chiaro il successo nel contenimento dell’epidemia in Corea del Sud, la soluzione tecnologica può avere successo solo se associata agli altri due elementi dell’ormai ben noto paradigma delle “tre T”: Testing, Tracing, Treating. L’app potrà funzionare, quindi, solo se il sistema complessivo sarà in grado di effettuare tamponi a tappeto per individuare i positivi, trattare i malati e isolare i meno gravi, implementando anche un’assistenza sanitaria quanto più possibile a distanza. E su questi ulteriori due punti, complice anche l’acceso dibattito che è divampato sui temi della privacy, il governo non ha ancora fatto chiarezza.

Insomma, le scelte fatte finora, più politiche che tecnologiche, hanno dato priorità alla sicurezza dei nostri dati; e questa linea, pur essendo comprensibile e anche eticamente giusta, rischia di compromettere almeno in parte il successo dell’app, del sistema e quindi, per estensione, dell’intera Fase 2.

Specialmente se la disinformazione e il “panico da privacy” contribuiranno a ridurre l’adozione dell’app da parte della popolazione.

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smart watch

Quindi sarà davvero utile l’app di tracciamento?

Nessuno può rispondere a questa domanda, ma è chiaro che difficilmente sarà “la soluzione a tutti i nostri mali”, come in certi ambiti si vorrebbe far passare.

Servirà un grande impegno da parte del governo, delle imprese, della cooperazione internazionale, e specialmente dei cittadini.

In ogni caso, pur con un’efficacia ridotta, l’importanza di questo tipo di app sarà massima nel prossimo futuro, per riuscire non solo come Paese ma come ecosistema globale a riprendere una parvenza di normalità, nell’attesa di soluzioni permanenti come un vaccino.

E per riprendere le parole di Luca Ferrari, l’amministratore delegato di Bending Spoons, l’app potrà essere davvero utile per aiutare a limitare la diffusione del Covid-19 e tornare a vivere una vita la più normale possibile, ma serve l’aiuto di tutti. Spero sia un motivo valido per unirci con spirito di solidarietà e anche un po’ di sano orgoglio nazionale, che talvolta ci è mancato. Mi piace l’idea di viverla come una gara e far vedere che la diffusione dell’app in Italia supererà quella di tutti gli altri Paesi. Noi ce la stiamo mettendo tutta, poi starà a ognuno fare la sua parte.

L’uomo che ha creato l’impero Disney: Bob Iger in 15 citazioni

  • Capacità di leadership innate, fiducia nella creatività e nella possibilità di crearsi opportunità per il futuro, un mindset orientato al rischio e ad abbandonare lo status quo. Tutto questo e molto altro è Bob Iger;
  • Torna alla guida di Disney il CEO che in 15 anni ha rivoluzionato l’azienda con le sue acquisizioni: Pixar, Marvel, Lucasfilm e 21st Century Fox.

 

Lo scorso martedì 25 febbraio Robert “Bob” Iger ha annunciato il suo ritiro dall’incarico come CEO di Walt Disney Company. Una notizia sorprendente su una decisione inaspettata, dato che il suo mandato sarebbe durato fino a fine 2021. Si tratta comunque di una transizione graduale, con il testimone operativo che passa a Robert Chapek (direttore dei parchi a tema Disney dal 2015) e con Iger che prende il ruolo di Executive Chairman. L’incarico prevede di supervisionare il lavoro del suo successore fino a fine mandato, conservando comunque la delega alla gestione della produzione del contenuto. Un cambiamento “soft”, per così dire.

È con l’emergenza Coronavirus, però, che si sono rimescolate le carte in tavola. Meno di due mesi dopo questa fatidica decisione, infatti, Bob Iger è tornato alla guida di Disney, per gestire l’azienda in un periodo a dir poco preoccupante. Ecco quindi che si è dimostrato subito disponibile per aiutare attivamente il “nuovo” Bob, dopo aver gestito la multinazionale di Topolino per ben 15 anni. Quest’ultima, infatti, si trova attualmente in grande difficoltà, essendo una delle società in ambito media che più ha risentito della pandemia globale, tra uscite cinematografiche ritardate, produzioni di film e serie TV interrotte, oltre alla chiusura di parchi a tema e di altre numerose attività previste in questi mesi.

I numeri pre-Coronavirus di Disney, però, sono a dir poco impressionanti. Nel 2019 l’azienda ha prodotto da sola un terzo dei ricavi del box office USA. Nel 2005, quando Iger è diventato amministratore delegato, valeva 29 miliardi di dollari. Oggi, 15 anni dopo, quei miliardi sono diventati quasi 230, con i profitti che sono aumentati del 335%. Grazie alla guida del CEO che si era ritirato lo scorso febbraio, la Walt Disney Company è diventata la più grande azienda cinetelevisiva del mondo.

Bob Iger ha fatto sua la citazione di Walt DisneyIf you can dream it, you can do it“, ed è proprio con 15 sue citazioni che vogliamo raccontarlo.

La storia di Bob Iger

Nato a New York nel 1951, Bob Iger debutta sul piccolo schermo già da studente come conduttore di uno show televisivo della sua università, Campus probe. Si laurea in Scienze della televisione e della radio e poco dopo inizia a lavorare per ABC. Questa viene comprata da Disney nel 1996, e 4 anni più tardi Iger ne è già il numero due sotto il CEO e presidente Michael Eisner. Dal 2005, è alla guida della multinazionale.

Una scalata incredibile, contando che nel 1974 era un semplice assistente di produzione con uno stipendio da 700 dollari al mese. Nella sua biografia “The Ride of a Lifetime”, infatti, ha dichiarato:

A volte mi sento un concorrente in un reality show che probabilmente si chiamerebbe “L’Apprendista Sopravvissuto che è diventato Milionario”. 

Bob Iger ABC

(Credits: ABC)

I valori di un leader secondo Bob Iger

  1. «La vera autorevolezza e la vera leadership vengono dal sapere chi sei e non dal pretendere di essere qualcun altro.»
  2. «Nella sua essenza, la buona leadership non ha a che fare con l’essere indispensabile; ha a che fare con l’aiutare gli altri a essere preparati a mettersi al tuo posto, in caso di necessità […]»
  3. «Questi sono i 10 principi che penso siano necessari per la vera leadership: Ottimismo, Coraggio, Concentrazione, Capacità di prendere decisioni, Curiosità, Fantasia, Premura, Autenticità, implacabile Ricerca della Perfezione, e Integrità
  4. «Se i leader non articolano chiaramente le loro priorità, allora le persone attorno ad essi non sapranno quali dovrebbero essere le loro, di priorità».

Bob Iger è entrato nella lista delle 100 persone più influenti secondo Time, mentre lo scorso gennaio è stato anche inserito nella Hall of fame della televisione statunitense. Innegabile come in 15 anni ai vertici di Disney ci abbia dimostrato doti di leadership innate, diventando una tra le figure più importanti nel mondo dell’intrattenimento. La crescita della sua azienda, poi, è a dir poco mostruosa: con Iger ai vertici, i risultati che ha ottenuto si rivolgono “all’infinito e oltre”, come direbbe Buzz Lightyear. 

Gli elementi che ruotano intorno al suo concetto di leadership sono sicuramente riconducibili all’essenza stessa del guidare le persone, del farle sentire coinvolte. Un vero leader cerca di trasmettere al suo team i suoi valori personali, senza cercarne altrove, così da diventare un punto di riferimento per la vera persona che è. Così, ci si sente guidati da qualcuno che si conosce, lavorando come un unico sistema in grado di funzionare perfettamente anche senza una persona “al comando”.

Non c’è innovazione senza creatività

Sotto la gestione Eisner, Disney era diventata di nuovo grande dopo molte difficoltà. Agli inizi anni Duemila, però, entrò di nuovo in crisi quando il produttore Jeffrey Katzenberg lascia la compagnia per andare a fondare il dipartimento Animation di DreamWorks SKG.

Nel frattempo, un certo Steve Jobs rivoluzionava il mondo dell’animazione con l’azienda Pixar, sia dal punto di vista tecnico che creativo. Ed è proprio con il fondatore di Apple che Bob Iger aveva un feeling particolare. Egli succedette a Eisner con l’aiuto del nipote di Walt Disney, Roy Edward. Probabilmente, proprio perché il suo predecessore non fu in grado di gestire i rapporti con Jobs.

A inizio 2006, invece, il primo colpo di Iger fu proprio l’acquisizione della Pixar. L’operazione portò la famiglia Jobs e Apple ad acquisire un’importante fetta di azioni Disney, e il direttore creativo John Lasseter insieme al top management Pixar a prendere la guida di tutta la produzione animata dell’azienda di Topolino, che da quel momento iniziò a risalire velocemente.

Bob Iger, quindi, rivoluzionò l’azienda in un momento in cui rischiava di perdere tutto ciò di buono che aveva portato Pixar. Una visione che donò a Disney nuova linfa creativa, oltre a spianare la strada per numerosi ed enormi successi. Con questa acquisizione, costata 7,4 miliardi di dollari, Iger lasciava un’impronta indelebile per gli anni successivi, caratterizzata da una capacità indescrivibile di raccontare storie che sprigionano creatività da tutti i pori.

D’altronde, secondo lui è proprio la creatività uno dei valori principali per un’azienda, una qualità imprescindibile se si vuole davvero innovare

5. «Non c’è nulla di scientifico nella creatività. Se non ti dai la possibilità di fallire, non potrai portare innovazione.»

6. «Il cuore e l’anima di un’azienda sono la creatività e l’innovazione

Steve Jobs, Bob Iger

[Credits: Paul Sakuma]

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Come nacque l’impero: i segreti di Bob Iger per la crescita Disney

Dopo l’acquisizione della Pixar, Bob Iger non si è fermato. Nel 2009 ha comprato quello che sembrava il “nemico”, Marvel, per 4 miliardi, entrando in un mondo che dava a disposizione di Disney oltre 5mila personaggi usciti dalla testa di Stan Lee. È stato lo stesso Iger, poi, a contribuire alla pianificazione della saga degli Avengers, realizzando il franchise più redditizio della storia del cinema (28mld in 10 anni). Nel 2012, poi, un’altro colpo di scena: l’acquisizione della casa cinematografica di George Lucas, Lucasfilm, aka Star Wars e Indiana Jones.

Inutile dire i successi derivati da questa mossa strategica. Basti pensare che la nuova trilogia di Guerre Stellari ha incassato da sola circa 4 miliardi e mezzo di dollari. Disney, oggi, monopolizza i box office grazie a un’altra famosa acquisizione avvenuta a marzo 2019: 21st Century Fox. Un vero e proprio impero dell’entertainment, creato sotto la guida di Iger.

Lo scorso settembre ha dichiarato allo show “The Talk” che una delle ragioni per cui è riuscito ad acquisire realtà come Pixar, Marvel, Lucasfilm e 21st Century Fox è che non si è mai preoccupato di proteggere lo status quo Disney.

Qui la chiave del nativo di New York per la crescita e il cambiamento: mai andare sul sicuro. Se non ci si prende dei rischi difficilmente si potrà ottenere grandi risultati. Il suo consiglio è quello di essere ambiziosi, così da crearsi le proprie opportunità senza aver timore di sbagliare o di non capire. C’è sempre possibilità di imparare. I rischi più grandi per lui, infatti, e quindi anche quelli da evitare, sono proprio affidarsi allo status quo e alla staticità, e non saper prendere rischi.

7. «Si guardi al mondo oggi e a quanto sconvolgimento si può trovare, a quanti cambiamenti sono in atto: penso che se si va sul sicuro, se in un modo o nell’altro si prova a proteggere lo status quo, non si va da nessuna parte.»

8. «Nulla è sicuro, ma come minimo a volte avrai bisogno di essere disposto a prenderti grandi rischi. Non puoi ottenere grandi risultati senza rischiare

9. «Non puoi lasciare che l’ambizione si allontani troppo dall’opportunità.»

10. «Chiedi ciò che ti serve sapere, ammetti senza timore ciò che non capisci, e fai in modo di imparare ciò di cui hai bisogno più velocemente che puoi.»

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Consumer-first. I bisogni delle persone sono il futuro

11. «Se approcci e coinvolgi le persone con rispetto ed empatia, quello che sembra impossibile può diventare reale.»

12. «È nei nostri migliori interessi lasciare perdere alcune vecchie regole, crearne di nuove e seguire i consumatori – quello che i consumatori vogliono e dove vogliono andare.»

13. «Le persone amano ancora una bella storia, e non credo che questo cambierà mai.»

Quando Bob Iger salì sul palco del keynote di Steve Jobs nell’ottobre 2005, durante il quale Apple presentava l’iPod video e la possibilità di guardare comodamente non solo film ma anche le serie TV ABC, disse che secondo lui quello sarebbe stato «il primo passo da gigante verso il rendere più contenuti disponibili a più persone online […] È il futuro, per quanto mi riguarda». Da lì a Disney+ sono passati 14 anni, ma il percorso che ha segnato Iger sin dall’inizio è ben chiaro.

Con la sua piattaforma di streaming, che ha avuto molta fortuna in Europa vista la quarantena causata dal fenomeno Coronavirus, Disney lancia un bel messaggio a Netflix e agli altri concorrenti, superando i 50 milioni di abbonati in 5 mesi. Disney+ è la dimostrazione che sotto la guida di Bob Iger l’azienda di Topolino non solo ha saputo destreggiarsi nello sviluppo creativo di nuovi prodotti, ma anche ascoltare il consumatore cercando di soddisfare al meglio i suoi desideri. Questi ultimi, secondo Iger, ruoteranno sempre attorno al racconto di una bella storia.

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La parola d’ordine per Bob Iger: ottimismo

Alcuni sostengono che l’addio di febbraio 2020 sia dovuto alla sensazione della fine di un periodo d’oro che difficilmente potrà continuare, per Disney. Probabile, ma ora come ora la realtà dei fatti ci dice che Bob Iger è tornato alla guida del suo gioiello in un momento difficile, di crisi, con pochi spiragli luminosi per il futuro. Come riemergere? Per Iger, la qualità più imprescindibile per un leader è l’ottimismo. D’altronde, chi seguirebbe una guida pessimista? Bisogna quindi crearsi tutte le opportunità con entusiasmo, guardando al futuro con la fiducia che le cose miglioreranno. Un pensiero che, oggi, può aiutare tutti noi anche nel nostro piccolo. Magari con una piccola spintarella made in Disney, che, come dice Iger, «produce felicità».

14. «Ottimismo. Una delle qualità più importanti per un grande leader è l’ottimismo, un entusiasmo pragmatico per quello che si può realizzare. Anche quando ci si trova davanti a scelte difficili e risultati non del tutto confortanti, un leader ottimista non si lascia condizionare dal pessimismo.»

15. «Il tono che tieni da leader ha un effetto enorme sulle persone attorno a te. Nessuno si ispira o viene motivato da un pessimista.»

dirigente preoccupato lavoro remoto

La vera sfida del lavoro da remoto? È per i dirigenti

  • Il lavoro da remoto in quarantena è una sfida per i tanti dirigenti che non erano preparati o interessati allo smart working (56%)
  • In un contesto in cui questa modalità di lavoro sembra essere qui per restare, è essenziale un cambio di paradigma, anche in ottica post-Coronavirus

 

Chi ha ruoli manageriali in azienda di questo periodo non ha certamente vita facile.

Stiamo vivendo uno dei momenti di massima incertezza che probabilmente non ha paragoni in questo secolo, con aziende fino a prima della crisi del Coronavirus in perfetta salute che ora annaspano in cerca di aria. E lo smart working “obbligato” che tutto il Paese sta affrontando, senza la giusta preparazione e pianificazione, non aiuta.

È una grande sfida per tutti, ma soprattutto per chi riveste ruoli dirigenziali. Si parla molto delle difficoltà per i dipendenti, per chi d’improvviso si ritrova a lavorare da casa e a fare i conti con i lati negativi di questa modalità (dato che quelli positivi, a causa della quarantena, è difficile percepirli). E così il web si è riempito di consigli su come sedersi in maniera corretta, come ottimizzare il tempo, come coltivare i rapporti con i colleghi anche a distanza.

Ma per i capi azienda? Soprattutto per quelli che lo smart working non è che fossero proprio in procinto di introdurlo, prima che diventasse l’unico modo per lavorare?

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Chi ha detto “smart” working?

In fondo le statistiche parlano chiaro: nel tessuto aziendale fatto di PMI del nostro Paese, prima di questa crisi, erano ancora pochi i responsabili aziendali interessati ad applicare lo smart working.

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico, nel 2019 in questa categoria erano ben il 51% le aziende non interessate (con un 4% in più addirittura ignaro del fenomeno). Il motivo? Nel 23% dei casi, mancanza d’interesse e resistenza da parte dei capi.

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Sarà interessante vedere, nella prossima edizione di questo report, come saranno cambiati i dati in seguito all’introduzione del Decreto Cura Italia e a tutte le sue conseguenze.

Ma per ora i dati parlano chiaro: questa situazione è “capitata” in maniera passiva, ricadendo nella maggior parte dei casi su aziende in cui lo smart working non era minimamente nei piani; anzi era spesso considerato come qualcosa di negativo, un grosso rischio di perdita di produttività, da evitare quanto più possibile.

Come confermava Methodos, società di consulenza specializzata proprio in questo campo, nell’intervista a Ninja Marketing raccolta in questo articolo, l’introduzione dello smart working richiede tempo e sforzi deliberati, ascolto e analisi, ma soprattuto volontà di farlo con successo.

Tutti elementi che sono mancati in questo frangente, e che pare ovvio ora portino molti dipendenti che lavorano da casa a lamentare, più ancora dei mal di schiena e degli altri “disturbi” da quarantena, la mancanza di comprensione e supporto da parte dei capi.

manager lavoro remoto

Che tipo di manager vuoi essere?

Il fatto è che, volontà o meno, interesse o meno, adesso l’opinione personale sullo smart working non conta più.

Non si tratta di poche settimane, visto che la durata del lockdown è stata già raddoppiata. Né di pochi mesi, presumibilmente, visto che è già stato chiaramente spiegato che la chiave per il successo della Fase 2 dell’emergenza Coronavirus si baserà anche sullo smart working.

Adesso non si tratta di fare buon viso a cattivo gioco, ma di imparare a sfruttare questa situazione per migliorare la propria azienda e per migliorarsi come manager. Tutto dipende dalla risposta a una domanda: “che tipo di dirigente vuoi essere?“.

Credo che nessuno che si trovi in posizione di responsabilità pensi a se stesso come a un carceriere, eppure è quello che più spesso finisce per risultare come opinione tra i dipendenti, specialmente per quei dirigenti che basano sul “controllo” la propria idea di successo.

Come ha spiegato Maria Vittoria Mazzarini: La chiave del successo per lo smart working è la fiducia: avere un rapporto di fiducia con i responsabili, con i team, con i dipendenti, etc. È quella la leva che fa funzionare tutto, ed è una moneta che qualcuno deve giocare per primo”. 

Il dipendente, lavorando da casa, si deve impegnare a portare a termine i compiti che gli sono assegnati e a renderne conto ai propri dirigenti. Ma dall’altra parte? Qual è l’impegno del capo nei confronti delle risorse che dirige?

Deve essere una presa di posizione basata in primis sulla volontà, su un cambio di paradigma: chi lavora non lo fa perché controllato dall’alto come in una prigione, ma perché si sente valorizzato e motivato a farlo. È chiaro che l’approccio deve essere completamente diverso, con responsabili che credono nella buona fede dei dipendenti e dei colleghi e non il contrario.

Ma non si tratta solo di “fiducia incondizionata”: ci sono metodi e strumenti che si possono, anzi, si dovrebbero utilizzare per tenere traccia del lavoro svolto e della produttività personale, anche a distanza. Non sono strumenti “coercitivi” o di controllo remoto, come quello di registrare lo schermo del computer a distanza, ma tool e approcci di project management che sono stati definiti e implementati appositamente per questo.

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lavoro remoto coronavirus

Gli strumenti della fiducia nel lavoro da remoto

Una gestione dei compiti e delle attività ben definita, basata sulla verifica del raggiungimento degli obiettivi e non sul numero di ore di lavoro (che tra l’altro finiscono spesso per essere di più, quando si lavora in smart working e gli orari d’ufficio sfumano).

Utilizzare strumenti come Trello o Asana per tenere traccia delle attività poteva sembrare un simpatico escamotage all’inizio della quarantena, ma in un’ottica di mantenimento di lungo termine di questa modalità di lavoro e della produttività necessaria, diventa indispensabile.

Ed è il capo il primo a doversi fare paladino di questa modalità di lavoro, perché essa possa aver successo. Incoraggiare l’uso di questi strumenti, provandoli e mettendoli in pratica, perché è appunto lui/lei che ha la vision necessaria per sceglierli.

Allo stesso tempo, il rischio dello smart working, soprattutto se il management non lo sposa completamente, è quello di creare un senso di distanza sociale incolmabile, che finisce per rendere meno efficaci le comunicazioni e forzate le interazioni.

Compito dei dirigenti invece, anche qui, è riuscire a ricreare le dinamiche sociali dell’ufficio al di fuori di esso, grazie agli strumenti di comunicazione remota quali le videochiamate. Dinamiche che faccia a faccia possono essere spontanee, come le chiacchiere davanti alla macchinetta del caffè da cui spesso nascono le migliori idee, ora dovrebbero essere introdotte volontariamente.

Non solo riunioni “produttive”, quindi. Pranzi o pause caffè social davanti alla webcam, canali di interazione libera su Slack dove si incoraggi la condivisione della vita quotidiana, comunicazioni leggere e “off-topic” sono linfa vitale per il senso di appartenenza e di partecipazione in azienda, quando queste diventano interamente dipendenti da un computer.

Esistono (quasi) più strumenti che necessità quando si parla di smart working, e se la parte difficile è trovare quelli che più si addicono alla singola realtà aziendale, la buona notizia è che sicuramente esistono. E probabilmente in questo periodo, grazie alla piattaforma Solidarietà Digitale, possono anche essere gratuiti o comunque fortemente scontati.

strumenti lavoro remoto

La vera sfida dello smart working è il post-Coronavirus

Quel che è certo è che le aziende dovranno ragionare su come rendere lo smart working uno strumento davvero efficace, e non ‘di riserva’, per non trovarsi impreparati di fronte a probabili altri periodi di isolamento, che secondo gli esperti seguiranno anche in futuro.

Per farlo, è necessario creare un’organizzazione e una cultura aziendale che non “capita”, ma che anzi si deve implementare volontariamente e consapevolmente con cambiamenti e sforzi specifici.

“La sfida futura per le aziendesecondo Simone Colombo, HR fractional ed esperto di direzione del personale in outsourcing – sarà quella di riuscire ad avere un sistema di gestione che definisca gli obiettivi per ogni area di lavoro e riesca a misurarli, ora che nella misurazione manca la variabile tempo e spazio e soprattutto non è possibile indire riunioni o verifiche quando si vuole, lasciando il lavoratore libero (ma al contempo solo) di autodeterminare la propria attività”.

È una sfida per i dipendenti, che dovranno imparare ad essere molto più autonomi e focalizzati, ricreando a casa le condizioni lavorative che li rendono efficaci in ufficio, con orari, abitudini e attività specifiche.

Ma è una sfida soprattutto per i manager e i responsabili, che si trovano praticamente costretti a rivedere il proprio stile di leadership. Continuare a fare muro contribuirà solo alla creazione di una cultura del lavoro sbagliata e controproducente, che nel lungo termine farà più danno che altro a qualsiasi organizzazione.

La chiave di volta, in questa situazione, è una sola: abbracciare il cambiamento invece di opporvisi, e trasformare questo periodo di crisi in una grande opportunità, una vera e propria scuola di management e leadership.