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A Milano nasce Phyd Hub, un nuovo spazio tecnologico che guarda al futuro del lavoro

Entro il 2022 in Italia ci sarà bisogno di 2,5 milioni di nuovi occupati e il 75% delle aziende reagirà alla crisi prodotta dal Covid-19 con attività di re-skilling.

Da questi dati nasce l’idea del nuovo spazio di Phyd, digital venture di The Adecco Group, nel cuore di Milano, dedicato a orientamento e percorsi di up-skilling e re-skilling per studenti, professionisti e imprese attraverso esperienze Phy-gital.

La location è stata ideata e costruita con un investimento di oltre 6 milioni di euro, compresa la realizzazione della piattaforma, e ha l’obiettivo di formare e valorizzare il capitale umano con le nuove skill richieste dalla costante trasformazione che il mercato del lavoro sta conoscendo.

Il futuro del lavoro (e delle competenze)

Secondo il World Economic Forum, nei prossimi 3 anni, a livello globale, l’evoluzione del mondo del lavoro – accelerata dalla tecnologia, dal digitale e dell’automazione – determinerà la nascita di 133 milioni di nuove opportunità occupazionali, a fronte di 75 milioni di posti di lavoro destinati a scomparire. Unioncamere stima che solo in Italia, ci sarà bisogno di 2,5 milioni di occupati in più.

L’impatto della crisi economica legata alla pandemia rischia di avere un impatto al ribasso su queste stime, ma il tema delle competenze diventerà ancor più cruciale. Secondo il dossier 2020 Unioncamere-ANPAL, il 75% delle aziende italiane dichiara che, per fare fronte alla crisi, nei prossimi sei mesi metterà in campo azioni di reskilling del personale già presente in azienda. Questo produrrà un’ulteriore accelerazione del processo di riconversione e rafforzamento delle competenze del capitale umano, anche per favorire l’allineamento alle nuove forme organizzative del lavoro.

Secondo Andrea Malacrida, Fondatore di Phyd e Country Manager di The Adecco Group in Italia: “Il tema dell’aggiornamento professionale continuo rappresenta uno dei punti centrali per il mondo del lavoro del futuro. Nei prossimi anni, anche a seguito dell’emergenza sanitaria appena vissuta, il mondo del business subirà cambiamenti ancor più repentini di quelli che abbiamo vissuto fino ad ora e solo chi riuscirà a coltivare le proprie competenze professionali, aggiornandole e sviluppandone di nuove, avrà l’opportunità di rimanere appetibile sul mercato del lavoro”.

Fondamentale, dunque, l’acquisizione di nuova conoscenza, sia tecnica che trasversale, tanto per gli studenti quanto per i professionisti. Le soft skill, in particolare, sono destinate ad avere un impatto determinante sulle retribuzioni, fino a incrementare uno stipendio di oltre il 40%.

Inoltre, resta attuale la criticità rappresentata dalla distanza che separa le competenze richieste dal mercato con quelle proposte dai programmi scolastici e universitari: lo skill mismatch impatta negativamente sia sui lavoratori che sulle aziende, frenando la crescita dell’intero sistema-Paese. Nel settore ICT, per esempio, il gap tra domanda e offerta di competenze è attualmente del 18%.

Come spiegato da Silvia Candiani, Amministratore Delegato di Microsoft Italia: “Lo skills mismatch è un fenomeno che in Italia sta diventando davvero rilevante e urgente. […] Non si tratta solo di implementazione di nuove tecnologie come il Cloud Computing o l’Intelligenza Artificiale, ma di avere le giuste competenze per cogliere tutte le opportunità di sviluppo che il digitale offre. Un recente studio Microsoft ha rilevato per esempio che le organizzazioni che traggono maggior valore dall’adozione dell’AI sono quelle che non puntano solamente sull’automazione e sull’efficienza operativa ma anche sulla formazione”.

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Lo spazio di Phyd Hub

Phyd Hub nasce con l’idea di permettere a studenti e lavoratori di vivere un’esperienza phy-gital e rappresenta la naturale evoluzione della piattaforma digitale Phyd, che, attraverso le soluzioni di Intelligenza Artificiale di Microsoft, misura l’attitudine e l’occupabilità di una persona rispetto ad una professione, ricavandone il grado di adeguatezza e rilevanza (employability index).

Proprio come la piattaforma, anche la location di Phyd Hub, aperta a tutti, offre contenuti poliedrici, inserendoli nella cornice di un luogo progettato in modo inedito. Lo spazio, organizzato su più livelli, ospiterà incontri, eventi, opportunità di networking e percorsi di up-skilling e re-skilling caratterizzati da un denominatore comune: interpretare nel modo più ampio il futuro del lavoro attraverso attività di career gym, preparazione ai colloqui e di controllo del curriculum vitae.

Situata nel centro di Milano, in via Tortona, la nuova location si caratterizza per un palinsesto di contenuti cross-generazionali che si svilupperà ogni anno nell’arco di 44 settimane e sarà incentrato sui temi del future of work, del life long learning e delle skill emergenti. Tra i partner di contenuti formativi anche Ninja Academy.

Phyd Hub è organizzata su più livelli per dare spazio a una dimensione immersiva che segna il passaggio dal mondo fisico esterno a quello phygital della nuova piattaforma e un’area training pensata per la formazione individuale; infine il luogo dedicato all’apprendimento verticale per piccoli gruppi e quello più esteso che ospiterà corsi, workshop, talk ed eventi.

Manlio Ciralli, Chief Executive Officer di Phyd, ha dichiarato: “Phyd nasce con l’obiettivo di nutrire la conoscenza attraverso un percorso di esperienze e fruizione che coniuga fisico e digitale. L’obiettivo primario è quello di dare alle persone la possibilità di porsi in uno stato di aggiornamento continuo. […] L’ambizione di amplificare – attraverso l’intelligenza artificiale – le opportunità di conoscenza e l’accesso ai contenuti senza distinzioni territoriali e, attraverso il luogo fisico, di mantenere la prossimità tra le persone laddove il networking e lo scambio di esperienze rappresenta di per sé uno strumento di miglioramento, contaminazione e conoscenza”.

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Verso la Project Economy: come gestire oggi progetti e team in azienda

Mettere al centro dell’economia i Progetti e di conseguenza la Gestione dei Progetti (Project Management) significa stravolgere in molti casi processi, pratiche e abitudini che hanno caratterizzato molte imprese: fare un progetto oggi non è più semplicemente “fare quanto richiesto”, ma “generare valore”.

Se pensiamo alla situazione attuale, la crisi sanitaria ed economica del 2020, la buona gestione dei progetti diventa una questione ancora più importante: commettere degli errori nell’economia del progetto significa ridurre i margini e compromettere l’impresa stessa.

Per fare questo però dobbiamo ripensare il modo in cui viene fatto Project Management.

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Una nuova visione del Project Management

Si tratta di un cambiamento importante perché richiede un cambiamento nei Project Manager, nella considerazione dei Progetti e nei team che si trovano a dover realizzare questi progetti: come spesso accade non è un cambiamento di strumenti, ma è un cambiamento radicale nella cultura aziendale.

Se dovessimo identificare il cambiamento principale nella gestione dei progetti in questi decenni troveremmo la risposta in un cambio di prospettiva da parte del Project Manager (PM).

Infatti possiamo distinguere tra:

  • una visione Tradizionale, nella quale al PM viene chiesto di raggiungere i risultati definiti inizialmente rispettando tempi e costi;
  • una visione Moderna, nella quale al PM viene chiesto di generare valore attraverso uno o più progetti rispettando tempi e budget.

E questo piccolo cambiamento ha un impatto enorme sul modo in cui vengono gestiti i progetti.

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  • avere una panoramica sulle principali metodologie di Project Management;
  • valutare quale sia l’approccio ottimale per i tuoi progetti;
  • migliorare la gestione dei team da remoto.

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diversità nel mondo del lavoro

Da dove cominciare per portare le diversità (e il talento) nel mondo del lavoro

  • Le diversità sono importanti nella nostra società anche se non tutti le rispettano. Ci permettono d’integrarci con gli altri e di accrescere la forza di un’azienda.
  • Un team dovrebbe essere lo specchio della società in cui viviamo, ossia una comunità multiculturale e variegata.

 

Viviamo in un mondo cosmopolita, dove i confini sono sempre più ridotti e ognuno di noi può comunicare con l’altro attraverso un semplice click. Ci sentiamo tutti più vicini, viaggiamo liberamente per piacere e per lavoro, conosciamo aspetti di culture diverse, assaporiamo gusti d’oltreoceano e impariamo lingue nuove. Ha ancora senso parlare d’integrazione e rispetto per le diversità?

Certo che sì. Oggi più che mai. Parliamo tanto di diritti, di libertà, di positività e amore verso sé stessi, ma non tutti viviamo in pace con le nostre unicità. Spesso veniamo etichettati per qualche attributo che ci differenzia dalla maggior parte della comunità in cui viviamo.

Le differenze risultano evidenti e pericolose agli occhi di coloro che non le accettano, perché non le conoscono, e le scrutano e additano con un’accezione negativa senza nemmeno sforzarsi di vedere la persona che c’è dietro.

Ammettere le diversità e accoglierle è importante non solo per una questione etica e morale, ma bisogna cambiare mentalità anche nei contesti lavorativi. Le diversità nel mondo del lavoro permettono alle aziende di crescere, di distinguersi e mutare anima.

diversità nel mondo del lavoro

LEGGI ANCHE: Gender gap, a che punto siamo nel mondo dell’arte

Cosa si intende per diversità nel mondo del lavoro

Quando parliamo di diversità nel mondo del lavoro ci riferiamo a tutte quelle persone con un background eterogeneo, che possa riguardare l’età, la cultura, le abilità, l’orientamento sessuale, l’identità di genere.

Un team dovrebbe essere lo specchio della società in cui viviamo, ossia una comunità multiculturale e variegata.

L’accettazione e l’inclusione delle diversità nei contesti lavorativi permettono alle aziende di essere più competitive nel mercato, ma solo se le persone che fanno parte del team sono integrate realmente nel gruppo. Abbiamo bisogno di un cambiamento dall’interno. Un’azienda deve decidere come vuole essere davvero, il modo in cui verrà percepita dagli altri e che tipo di persone vuole attrarre, a chi vuole rivolgersi.

LEGGI ANCHE: Il progetto “TrueColors” ci mostra cosa manca oggi per il diversity management

Perché le diversità migliorano le aziende

Le diversità nel mondo del lavoro incrementano il valore di un’azienda, ma perché?

Perché un team variegato permette di vedere le cose da diversi punti di vista, che non siano sempre gli stessi. Avere diversi tipi di personalità in squadra comporta vantaggi a livello di prestazioni, oltre che di produttività, ma soprattutto d’innovazione.

Scambi d’idee, confronto e inclusione sono tutti elementi che migliorano l’umore ma anche la reputazione di una società. Sono sempre più le persone che vorrebbero lavorare in un luogo di lavoro tollerante, diversificato e poliedrico, dove tutti hanno le stesse chance di crescere e diventare qualcuno.

Le diversità nel mondo del lavoro migliorano la vita aziendale e il suo employer branding.

Come integrare le diversità nel mondo del lavoro

Il mondo è bello perché è vario, recitava un antico detto, e lo sono anche le diversità. Nel mondo del lavoro troviamo persone con un’istruzione superiore, chi ha un ceto sociale basso, chi fa parte della comunità LGBTIQA+, chi ha una fede religiosa diversa, tutte caratteristiche che sono innate o acquisite nel tempo (come l’istruzione). 

Integrare la diversità significa che le aziende, durante la fase di reclutamento, non devono avere nessun tipo di pregiudizio contro qualsiasi individuo. Ovviamente nemmeno avere delle preferenze. Purtroppo, chiunque abbia fatto un colloquio di lavoro, ha visto passarsi davanti persone meno qualificate, ma favorite per qualche motivo che non riguarda assolutamente il merito. Dovrebbe essere un discorso scontato quello delle pari opportunità, ma le diversità nel mondo del lavoro sono ancora penalizzate.

Leggiamo di donne lavoratrici pagate meno dei colleghi uomini, di razzismo, di preconcetti su chi appartiene a una cultura diversa o sgomento verso chi ha un orientamento sessuale che non riusciamo a inquadrare. Sentiamo un incessante bisogno di etichettare qualsiasi cosa, dimenticando chi siamo realmente.

LEGGI ANCHE: Il potere della differenza: come brand e agenzie possono assumere e mantenere la diversità nei team

diversità nel mondo del lavoro

Molti talenti si sentono esclusi e non ne capiscono il motivo, anche perché una motivazione reale non c’è. Per far fronte a questo problema molti professionisti in campo creativo hanno deciso di creare e riunirsi in delle piattaforme virtuali.

Assistiamo così alla nascita di microcomunità, divise per etnie, genere e svariati indicatori, in cui le persone si identificano e mostrano il proprio talento.

Dove trovare nuovi talenti

Negli ultimi anni sono nati diversi siti che hanno come obiettivo quello di unire e supportare le persone con diversità e allo stesso tempo rendere più facile, per agenzie e reclutatori, trovarle e lavorare con loro.

Fabricio Teixeira, design director di Work & Co. ha lanciato Brazilians Who Design per puntare i riflettori sui talenti provenienti dal suo paese d’origine. Ispirato da Womenwho.design, lo scopo è quello di mostrare l’esistenza di diverse comunità i cui membri hanno ottime competenze nel proprio lavoro anche se sono poco conosciuti, o per niente.

Queste piattaforme non vogliono puntare sull’apparenza, su come gli individui si presentano, ma sul genio creativo, sull’unicità delle loro opere.

Sapevate che esiste un sito simile tutto made in Italy? Si chiama Italians Who Design e mostra a tutto il mondo i lavori di giovani illustratori italiani. Questo progetto aiuta questi artisti a emergere in rete e a farsi conoscere, creando delle opportunità di lavoro. Sono numerosi i designer italiani che lavorano all’estero progettando prodotti utilizzati da milioni di persone anche se sono poco noti nel panorama internazionale.

LEGGI ANCHE: 9 modi per cambiare le nostre abitudini e rendere il marketing (e il team) più inclusivo

Il caso di Hue

Un’altra realtà giovane e interessante è Hue, creata da Fahad Khawaja. Hue è una piattaforma sviluppata per sostenere il cambiamento, amplificando le voci delle persone di colore che lavorano nel marketing, aumentando la loro visibilità e aprendo la strada alla crescita di tutti gli iscritti. Un’idea per creare equità e prosperità incoraggiando i talenti a partecipare, a fare rete con le aziende e ottenere un lavoro.

Khawaja fa una riflessione che fa pensare, ossia che nonostante ogni anno vengano spesi più di 350 miliardi di dollari in marketing and recruiting, la rappresentanza dei dipendenti con diversità razziale è rara nella maggior parte delle aziende. Inoltre, sottolinea, questo gap è ancora più pronunciato ai livelli di leadership, con una presenza in progressiva diminuzione. Fin quando le aziende attingeranno i candidati sempre dagli stessi posti, non ci sarà mai un effettivo ricambio. Khawaja definisce questo fenomeno con il nome di network gap.

Il caso di We are Rosie

We are Rosie è un’agenzia famosa che si è evoluta per soddisfare le esigenze dei nostri tempi. Pochi mesi fa ha lanciato Rosie Recruits, un’iniziativa che si occupa di ricercare contratti di sei mesi per i dipendenti. Ha promesso che almeno il 40% dei suoi candidati saranno persone di colore. 

La sua fondatrice, Stephanie Nadi Olson, ha affermato che l’intento di We are Rosie è quello di fornire l’accesso al maggior numero possibile di persone appartenenti a comunità emarginate.

La piattaforma ha registrato un aumento del 30% di persone in cerca di lavoro da marzo. Ora ha un pool di 6.000 candidati. Ci sono molte aziende che urlano ai 4 venti di avere a cuore le diversità e le minoranze, ma nel concreto non rispettano ciò che dicono. Con tutte le promesse di cambiamento nel mercato, Olson si auspica che ciò avvenga rapidamente. 

Per un cambiamento reale e una maggiore inclusività, le aziende dovrebbero porsi al servizio dei talenti, e non viceversa.

Strumenti finanziari per superare con agilità e resilienza il post-lockdown

Molte imprese oggi si trovano in situazione di stress finanziario in quanto i ricavi si sono contratti in misura tale da non disporre più della liquidità in ingresso necessaria per far fronte alle obbligazioni correnti (stipendi, fornitori, ecc.).

Come affrontare quindi l’ansia scatenata dall’incertezza sul proprio futuro finanziario? Daremo una serie di utili risposte a questo interrogativo durante il Ninja Talk organizzato in collaborazione con EMINTAD Italy, che analizzerà le difficoltà che le imprese si trovano a fronteggiare nell’attuale contesto economico e individuerà le strategie e le diverse opportunità di supporto finanziario alle stesse, in particolare alle PMI.

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I dati del post-lockdown in Italia

Secondo il Rapporto Regionale Cerved – Confindustria 2020, il Covid-19 ha avuto un impatto senza precedenti sui conti delle PMI, con ricadute molto pesanti sugli indici di redditività, superando addirittura gli effetti della recessione del 2009, fin qui la peggiore nel secondo Dopoguerra per l’Italia.

Si prevede che le PMI italiane contrarranno il fatturato del 12,8% nel 2020, con un rimbalzo nel 2021 dell’11,2%, insufficiente per ritornare oltre i livelli del 2019. Nel complesso, questo si tradurrà in una perdita di 227 miliardi di fatturato nel biennio 2020-21 rispetto a uno scenario tendenziale di lenta crescita delle vendite.

Gli impatti saranno fortemente asimmetrici a seconda dell’attività di impresa, con shock maggiori per i settori più penalizzati dalle norme sul distanziamento sociale, o dagli effetti sul commercio internazionale.

Come rispondere alla crisi del Covid-19 e quali strumenti finanziari adottare

La resilienza del business, la capacità di un’azienda di adattarsi ai cambiamenti delle circostanze e di implementare misure che sostengano la salute delle operazioni, delle persone e dei beni, è qualcosa che tutte le organizzazioni stanno implementando durante la sfida della pandemia. Ma in questo contesto la gestione della crisi richiede un approccio olistico, che coinvolga l’intera organizzazione.

Le aziende – e le PMI in particolare – sono state chiamate a rispondere con rapidità alla crisi, ma ora ogni scelta dovrebbe essere ben ponderata e organizzata. Le azioni correttive da mettere in atto per il raggiungimento degli obiettivi di crescita prefissati, infatti, potrebbero anche comportare un ripensamento del proprio modello di business.

Cosa imparerai durante il Webinar

Questo webinar è rivolto a tutti quegli imprenditori e manager che vogliono vederci chiaro sulla situazione economica italiana in questi tempi così incerti e difficili per capire come le imprese potranno uscire da questo stress finanziario.

L’obiettivo è quello di indirizzare le imprese verso azioni concrete da mettere in atto per migliorare la risposta alle esigenze attuali, attraverso i corretti strumenti finanziari per prepararsi al futuro.

Nello specifico il webinar risponderà alle seguenti domande:

  • Qual è lo scenario economico attuale?
  • Quanto tempo ci vorrà per tornare alla normalità?
  • Quali sono gli strumenti finanziari a supporto delle PMI?
  • Quali sono le azioni concrete che le aziende possono compiere lato finanziario per raggiungere gli obiettivi di crescita?

Il webinar è online e gratuito, iscriviti adesso! Ma se proprio non ce la fai a seguirla in diretta, potrai recuperarla on demand, attraverso la tua area utente.

RICAPITOLANDO

Ninja Talk “Ninja Finance: tutto quello che devi sapere per superare il post lockdown”
con Gianluca Cedro, Luciano Di Fazio, Massimo Armanini di EMINTAD Italy. Conduce Federica Bulega di Ninja Academy

martedì 22 settembre 2020 dalle ore 13 alle 14

ISCRIVITI ORA AL WEBINAR GRATUITO

lavoro da remoto

5 miti che sopravvivono ancora sul lavoro da remoto, da sfatare nel 2020

  • Ci sono molti falsi miti sul lavoro agile che inducono le aziende ad essere resistenti verso questa tipologia di lavoro.
  • L’argomento del lavoro agile va affrontato con un orizzonte temporale ampio senza legarlo al contingente momento emergenziale generato dalla pandemia.

 

Il lavoro agile o smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Lo dice il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Smart Working o Lavoro Agile: definizione e sviluppi

L’Osservatorio del Politecnico di Milano lo definisce: “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Quello che abbiamo sperimentato fino ad oggi, nel periodo pandemico, è uno smart working agevolato, un po’ improvvisato, molto più vicino al concetto di telelavoro ma pur sempre una buona base di partenza per iniziare ad avvicinarsi alla corretta adozione.

Durante la pandemia il Governo, attraverso un decreto attuativo approvato con urgenza, ha previsto l’adozione dello smart working senza accordo preventivo con i dipendenti (in deroga alla Legge 81/2017) al fine di contenere e contrastare la diffusione del Covid-19, bloccando, di fatto, l’attività in presenza per milioni di italiani.

DL 111/2020

Lo smart working è stato poi ulteriormente esteso dal DL 111/2020 (contenente alcune misure a sostegno dell’avvio dell’anno scolastico) al genitore lavoratore, per tutto il periodo (o parte di esso) corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente, minore di anni 14, disposta dall’ASL, a seguito di contatto verificatosi a scuola.

La previsione è contenuta nell’art. 5 che stabilisce inoltre che se la prestazione lavorativa non può essere svolta in modalità lavoro agile, alternativamente, uno dei genitori può fruire di un apposito congedo straordinario percependo un’indennità pari al 50% della retribuzione (il calcolo avviene secondo le modalità fissate dall’art. 23 del D.lgs. 151/2001). Secondo il dettato legislativo i periodi in cui si è fruito del congedo sono coperti da contribuzione figurativa.

La possibilità di fruire dello smart working o del congedo, quando il figlio è stato posto in quarantena, non spetta al lavoratore genitore se l’altro già fruisce di una delle predette misure, oppure svolge la prestazione in modalità lavoro agile ad altro titolo. Congedo straordinario o smart working non spettano nemmeno se l’altro genitore è già a casa perché privo di impiego.

Dal 15 Ottobre

Il Governo, con la delibera 7/10/2020, ha prorogato dal 15 ottobre al 31 gennaio 2021 lo stato di emergenza dovuto alla diffusione dell’epidemia da Covid-19.

Fino al 31/01/2021 sarà quindi ancora possibile accedere allo Smart Working senza preventivo accordo individuale con il lavoratore. Permane, quindi, la line agevolativa. Il DL 125/2020 apporta modifiche anche al DL 83/2020 (L. 124/2020) disponendo in particolare la proroga dal 15 ottobre 2020 al 31 dicembre 2020 del diritto di svolgere il lavoro in Smart Working riconosciuto ai lavoratori c.d. fragili, ossia coloro che sono maggiormente esposti al rischio di contagio da Covid-19.

LEGGI ANCHE: Dal Remote Working allo Smart Working: come evolve il lavoro nelle organizzazioni

5 miti sul lavoro da remoto da sfatare nel 2020

Ci sono molti falsi miti sul lavoro agile che inducono le aziende ad essere resistenti verso questa tipologia di lavoro. Qui di seguito indichiamo i 5 principali falsi miti sul lavoro da remoto che dovranno essere superati nel futuro.

1. I dipendenti che lavorano da remoto sono poco produttivi e lavorano molto meno

Uno dei primi miti da sfatare è proprio l’assenza di produttività.

Spesso si pensa che il lavoratore non presente in ufficio, quindi non a stretto contatto con il capo o collega, sia meno produttivo di quello impiegato in azienda.

Questa convinzione, in realtà, è stata smentita; molti lavoratori hanno affermato di aver lavorato più ore da remoto rispetto al lavoro in presenza.

LEGGI ANCHE: Come aumenta la produttività aziendale con lo smart working

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2. I dipendenti che lavorano da remoto non fanno squadra e tendono ad isolarsi

Anche questo “mito” è frutto di una cultura non matura rispetto all’argomento.

Il lavoro agile non è sinonimo di isolamento, un programma di remote working può infatti alternare periodi in presenza con periodi a distanza. Durante i periodi in presenza si può continuare a coltivare le relazioni face to face, a seguire corsi di formazione e continuare a fare team building.

La comunicazione tra colleghi può avvenire in modo snello e completo anche se non si è vicini di scrivania, esistono infatti moltissimi software per la gestione delle comunicazioni a distanza e che consentono di tenere traccia di ogni conversazione.

Si possono organizzare video call con il proprio team che vadano al di là dei semplici meeting di lavoro ma che si tramutino, per esempio, in pause caffè per socializzare in modo informale con i membri del team.

Questi alcuni strumenti utili per il lavoro a distanza:

smart working e video call

3. Il lavoro da remoto permette di dedicarsi alle faccende domestiche

Nell’immaginario comune lo smartworker viene spesso rappresentato intento a lavorare e a svolgere, nel contempo, anche attività domestiche quali: prendersi cura dei figli, pulire la casa, cucinare ecc.

Il vero lavoratore remotizzato, in realtà, organizza molto bene la sua giornata al fine di evitare distrazioni e interruzioni legate alla sfera domestica/privata.

L’importante è definire una routine quotidiana e stabilire regole precise per interagire con eventuali altre persone della famiglia.

Anche il mercato immobiliare si sta muovendo nella direzione del lavoro agile. Aumentano, infatti, le richieste di immobili più ampi dove poter ricavare lo studio per collocare la propria postazione di lavoro, senza dover condividere spazi comuni quali salotto, cucina ecc…

Più che l’esposizione della camera da letto o la luminosità della cucina nella scelta dell’immobile si valutano il livello di comfort e il corretto isolamento dal resto della casa della stanza adibita a studio professionale. La priorità è poter lavorare in un ambiente tranquillo, che favorisca la concentrazione. Si tende a traslocare più di rado, ma anche a preferire l’affitto all’acquisto, in modo da poter cambiare domicilio più facilmente non appena ci si imbatte in un’offerta migliore. La parola d’ordine è flessibilità, concetto che si applica non solo agli orari di lavoro ma anche al modo di concepire la casa.

Va inoltre sottolineato che il lavoro agile non è necessariamente coincidente con l’home working, è possibile infatti lavorare a distanza da spazi neutri al di fuori delle mure domestiche, come ad esempio in apposite strutture di coworking (oggi meno utilizzati a causa della pandemia).

skill smart working

4. Il lavoratore da remoto non sarà mai un buon capo

Se i datori di lavoro sono scettici in relazione all’assunzione di dipendenti che lavorino da remoto, lo sono ancora di più quando sono i manager stessi a non essere fisicamente in ufficio a controllare e coordinare le risorse.

Anche questo è un falso mito, come sostiene HubSpot, dove la forza lavoro remotizzata è di oltre 300 persone e la maggior parte sono manager di medio e alto livello.

In Italia le aziende che hanno siglato accordi di smartworking sono:

  • Tim Spa;
  • Eni;
  • Enel;
  • Fincantieri;
  • Fastweb;
  • Leonardo.

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5. Il lavoratore da remoto ha tutto il tempo per prendersi cura di se stesso

Quante volte abbiamo sentito dire: “Ora che lavoro in smart working avrò sicuramente il tempo di andare in palestra” oppure “Ora finalmente potrò coltivare il mio hobby”.

Anche questo (purtroppo) è un falso mito.

Lo stile di vita remoto è in realtà molto più frenetico e la giornata lavorativa è molto più occupata.

Spesso chi lavora da remoto perde il contatto con la realtà: salta la pausa pranzo, non intervalla la routine lavorativa con delle pause, tende a non scollegarsi mai.

Molte volte questo burnout avviene perché si sente la pressione psicologica di dover dimostrare al proprio datore di lavoro che, anche da distanza, si mantengono alti i nostri standard produttivi, aumentando di fatto la prestazione lavorativa a discapito della sfera personale. Oppure perché non si è in grado, come indicato sopra, di porre dei limiti e di organizzare in modo corretto la giornata.

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smart working

Il futuro del lavoro da remoto

Il ricorso allo smart working è aumentato esponenzialmente durante il periodo pandemico e post-pandemico, ed è spesso stato confuso con il telelavoro o peggio ancora con l’home working.

In realtà occorre affrontare l’argomento del lavoro agile con un orizzonte temporale ampio, senza legarlo al contingente momento emergenziale generato dalla pandemia.

Le organizzazioni che hanno introdotto il lavoro da remoto durante il periodo pandemico devono interrogarsi su quanto questa forma di lavoro possa diventare un modello organizzativo stabile nel tempo, analizzando gli aspetti positivi e negativi di questa metodologia di lavoro.

Dal lato dell’organizzazione aziendale è un modo per essere in grado non solo di rispondere alle esigenze delle persone, ma di creare spazi di lavoro ottimizzati che consentono risparmi sugli affitti e facilities, con tecnologie che agevolano i processi lavorativi dell’impresa.

Il risvolto negativo che si otterrà, dalla scelta di adottare o meno il lavoro agile, sarà sui settori produttivi il cui indotto è strettamente correlato al lavoro in presenza negli uffici: ristorazione, pulizie e facility management i settori duramente colpiti.

“Per questi comparti la crisi generata dal lockdown è stata solo l’inizio: l’estrema prudenza con cui continueranno a essere gestiti i rientri nei luoghi di lavoro per evitare i contagi sarà, di fatto, una minaccia per la continuità dei conti di queste aziende, tranne per chi non ha saputo radicalmente rinnovare il proprio business”.

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Il lavoro da remoto sarà la forma di lavoro vincente solo se sussistono una serie di condizioni, tra cui:

  • una migliore standardizzazione e organizzazione dell’attività produttiva richiesta ad ogni lavoratore, attraverso una precisa definizione dei tempi di svolgimento della prestazione;
  • evitare che il distanziamento sociale e di spazio appesantisca le procedure all’interno dell’organizzazione;
  • una corretta modalità di controllo e vigilanza del lavoro, tema delicato poiché nelle organizzazioni non esistono funzioni aziendali dedicate a questa attività.

UPDATE: In una precedente versione di questo articolo si riportava quanto segue: “A partire dal 15 Ottobre, invece, per poter continuare ad applicare lo Smart Working le aziende dovranno stipulare accordi individuali e inviare la comunicazione al Ministero del Lavoro attraverso l’apposita piattaforma e accedendo con le credenziali SPID. Il 15 ottobre è la data spartiacque per il futuro dello smart working per l’Italia.

Non esistendo una norma di raccordo tra il lavoro agile prima del 15 e dopo il 15 ottobre, sarà interessante valutare come le aziende si comporteranno: si inserirà strutturalmente lo smart working come tipologia di lavoro stabile oppure ci sarà un totale ritorno al lavoro in presenza?

La disciplina normativa del lavoro agile, Legge 81/2017, definisce in modo chiaro e preciso le modalità per introdurre e gestire questa forma di lavoro in azienda, nell’immaginario comune e nel web spesso lo SW viene visto in modo distorto“.

Marketing per il B2B: strumenti e strategie per vincere la trasformazione digitale

Ti sei già reso conto di come sono cambiate le abitudini dei consumatori negli ultimi mesi? O hai difficoltà a raggiungerli? Forse non stai ancora usando le strategie corrette di Digital Marketing, o non conosci tutti gli strumenti per rispondere alla grande sfida della digitalizzazione nel B2B.

Negli ultimi anni, infatti, le abitudini e la demografia dell’acquirente B2B sono cambiate e utilizzano regolarmente i canali di interazione digitali durante tutto il processo decisionale.

Per fare crescere un’azienda bisogna saper padroneggiare le novità del digital marketing: da qui l’idea della MasterClass AvantGrade, quest’anno con focus sul marketing digitale per il B2B, che si terrà il prossimo 23 settembre sulle sponde del lago di Como.

sicurezza marketing B2B

A cosa serve il marketing digitale nel B2B

Praticamente tutte le aziende utilizzano quotidianamente Internet, ma ne conoscono davvero le potenzialità e i vantaggi? Anche se come imprenditore sei già abituato a cercare informazioni online, a inviare e ricevere comunicazioni via email o attraverso messaggistica istantanea, a richiedere la fatturazione elettronica e ad archiviare i documenti nel cloud, potresti ancora non sfruttare al massimo le risorse offerte dalla rete in termini di marketing.

Si tratta di un fenomeno relativamente comune tra le aziende B2B e, se è anche il tuo caso, devi sapere che potresti restare indietro e perdere importanti opportunità di business. Il principale vantaggio del marketing digitale B2B, infatti, è quello di aiutarti ad aumentare le vendite della tua azienda. Questo perché il 98% delle aziende cerca i propri fornitori online.

Una buona strategia di marketing digitale è progettata per accompagnare il cliente durante tutto il processo di acquisto, che inizia da quando scopre di avere un bisogno (consapevolezza) e culmina quando acquista un prodotto o un servizio.

Ma non solo, il digital marketing aiuta le aziende anche nel processo di branding, nel posizionamento e nella crescita dell’awareness.

I vantaggi del marketing digitale per il business to business

I benefici e il ritorno che una corretta strategia digitale può portare al B2B sono davvero numerosi. Abbiamo provato a riassumerne alcuni qui di seguito.

1. Aumentare le vendite

I tuoi potenziali clienti sono già online alla ricerca delle opzioni che esistono sul mercato, confrontarne le caratteristiche, i fornitori e i prezzi.

La  ricerca online è semplice e veloce e viste le diverse opzioni, il cliente poi passa alla fase decisionale per scegliere tra un’azienda o l’altra, a seconda delle proprie esigenze, per poi agire ed effettuare l’acquisto. Se durante la ricerca di informazioni la tua azienda non appare tra i suoi risultati di ricerca, avrai perso un cliente.

2. Portfolio clienti

Una delle strategie più utilizzate nel marketing digitale B2B è l’email marketing, che permette di contattare i potenziali clienti, contribuendo a far crescere la base clienti e a fidelizzarli.

Ma la loyalty si ottiene principalmente attraverso un processo di accompagnamento e comunicazione che l’azienda realizza durante tutti il ciclo di acquisto, e che avviene attraverso sito web, social network, blog, video.

Se la tua presenza online sarà con un sito web attraente, informazioni complete, un supporto online efficiente, contenuti di qualità e inviando email al momento giusto, sarai in grado di offrire un’esperienza positiva ai clienti che, soddisfatti, instaureranno relazioni più durature.

3. Branding

Il branding è il processo di costruzione del marchio, e il marketing digitale è un modo pratico per realizzarlo. Si riferisce agli attributi, ai benefici, alla qualità e alla categoria del brand, e ha la funzione di influenzare i clienti e i potenziali clienti prima di iniziare il processo di acquisto, cioè prima che abbia luogo la fase di awareness.

Quando si dispone di un marchio consolidato, è possibile raggiungere i futuri clienti prima del processo di acquisto. Questo significa che il brand ha più opportunità di essere scelto rispetto alla concorrenza, poiché il cliente non avrà troppi dubbi al momento di decidere, con un notevole risparmio di tempo e denaro.

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Si parlerà di personal branding su LinkedIn del Manager B2B con Ale Agostini – CEO di AvantGrade; ascolteremo la guida per il management per avere una strategia definita, un team competente e sinergie su tutta la catena del valore di Luisella Giani – EMEA Industry Strategy Director di Oracle; scopriremo come usare le parole giuste per ingaggiare, sedurre e convincere i tre cervelli insieme a Paolo Borzacchiello – Co-creator & University Director di HCE.

E ci sarà anche tanto altro da apprendere, con focus sulla sostenibilità, o su come “difendersi da Amazon”, il tutto accompagnato da un importante momento di networking.

La formazione si svolgerà presso il prestigioso Grand Hotel Imperiale, nell’ampia e ariosa veranda della Sala Manzoni con vista mozzafiato sul lago di Como.

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KitKat Australia lancia uno speciale ‘Have a Break pack’ e lo fa per una buona causa

  • KitKat stringe una collaborazione con l’ente benefico “RU OK?” a sostegno della prevenzione dei suicidi, in Australia.
  • Per l’occasione il suo packaging si veste di nuovo, invitando tutte le persone ad un comportamento più attento e altruista. 

 

Il famoso payoff dello snack KitKat Have a Break– ci ha sempre invitato a concederci una meritata pausa dai momenti più stressanti. Ma questa volta il suo invito è rivolto ad una situazione particolare e per una causa molto più importante. In un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, Nestlè Australia ha stretto una partnership in prima linea con l’Organizzazione benefica “RU OK? che ha avviato un progetto di sostegno contro i rischi del suicidio attraverso un portale interamente dedicato alle diverse situazioni di negatività.

Una conversazione che potrebbe cambiarti la vita

Il brand, famoso da sempre per invogliare a prendersi una spensierata pausa dal lavoro e da circostanze impegnative, stavolta vuole incoraggiare le persone ad esternare le proprie emozioni negative, come solitudine paura o smarrimento, coinvolgendo altrettante persone nell’ascolto e nel supporto a distanza. Un punto molto importante di condivisione e di conversazione che si trasforma in dialogo e che diventa dunque aiuto prezioso specialmente in determinati frangenti.

Una sensibile iniziativa quella di Nestlè che purtroppo ancora non vedremo in Italia ma che sarebbe davvero necessaria, non solo in questo momento storico un po’ critico. Molte sono infatti le persone che non riescono a reggere il peso delle delusioni e quello di una vita che non va esattamente nella giusta direzione; poche sono le richieste di aiuto come poche sono le persone che riescono ad entrare in empatia con le altre. La società fatta di schermi, una quotidianità che va troppo di fretta, la paura di non farcela.

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KitKat in una altruista edizione limitata

La campagna ‘Chit Chat’ per RU OK? di quest’anno vede KitKat come suo partner ufficiale che per l’occasione ha vestito di nuovo il suo dolce snack. Croccante dentro e solidale fuori, con il suo packaging creato ad hoc riportante la premurosa domanda RU OK? (Stai bene?) e che invita a collegarsi al sito per condividere pensieri e preoccupazioni grazie a conversazioni autentiche.

L’edizione limitata del pack del cioccolato KitKat, in vendita in Australia dagli inizi di settembre, è stata ideata proprio per aumentare la consapevolezza della necessità per tutti di fare una domanda tanto semplice quanto importante alle persone che abbiamo attorno. Stai bene? Potrebbe sembrare per la maggior parte di noi una frase retorica ma che si rivela di sicuro come un campanello di allarme per intuire una prima problematica in qualcuno dei nostri cari. Una domanda che va oltre: un’apertura ad un ascolto più profondo e a proposte di una conversazione meno frettolosa, più attenta ed insieme genuina.KitKat-pack-ruok-ninjamarketing

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L’importanza di sentirsi simili

Il progetto “RU OK?”con uno sguardo alla società si preoccupa di agevolare e suggerire connessioni reali ed autentiche. Unire le persone in un momento di fragilità, sostenere l’un l’altro attraverso l’espressione di debolezze comuni per non sentirsi diversi. Per non sentirsi soli e messi da parte. Insomma, un’azione altruista verso le persone a noi vicine e forse anche verso noi stessi. Una piattaforma di supporto che si augura di aiutare a prevenire lo scatenarsi di problematiche più profonde e che potrebbero, in alcuni casi, portare a pensieri di gesti estremi.

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L’organizzazione benefica sottolinea di non volersi sostituire ad un aiuto professionale e competente ma di porsi meramente come connettore di scambi empatici ed emotivi, ponendo l’attenzione sulla condivisione ed il dialogo reali, valori che purtroppo questa nuova società sta perdendo.

Ed in questo atto generoso, un’azienda così importante non poteva non condividerne il valore più alto: quello della vita.

Brand, social responsibility e salute mentale

Sono in particolare i consumatori della Gen Z che si trovano ad affrontare livelli di stress senza precedenti, che danno valore alla salute mentale e si aspettano che i marchi si impegnino anche con le loro esigenze emotive in modo sincero. Secondo uno studio pubblicato dal Journal of Adolescent Health i tassi di depressione, autolesionismo e suicidio tra i ragazzi della Gen Z sono in aumento e sono addirittura raddoppiati nel corso del decennio in cui sono stati valutati gli studenti universitari.

Per questo l’esempio di KitKat è emblematico in questo particolare momento storico e può essere d’esempio per altri brand. La collaborazione con organizzazioni esterne può aiutare i marchi a mantenere la loro rilevanza attraverso la partecipazione, piuttosto che la semplice influenza.

È una linea sottile da bilanciare per i marchi e i marketer: infatti, se i social media sono uno dei punti di stress principale per i giovani, sono anche un canale di comunicazione fondamentale e utile per i brand.

Nella lotta per attrarre clienti della Gen Z, questa dicotomia si manifesta in modo ancora più importante.

L’American Psychological Association ha osservato che le notizie di sparatorie di massa, cambiamenti climatici e deportazioni sono altamente scatenanti e contribuiscono a creare un senso di ansia collettiva che permea la Gen Z, mentre i social media hanno promosso una cultura del cyberbullismo. Secondo un rapporto dell’UNICEF, un giovane su tre sperimenterà il cyberbullismo e la motivazione principale sarà il suo aspetto.

Lo spostamento dell’attenzione generazionale sulla salute mentale rappresenta un’opportunità per i brand, quando sono in grado di dare risposte al proprio pubblico. Posizionandosi come alleato, grazie alla collaborazione con organizzazioni e associazioni di beneficenza, possono mantenere la loro rilevanza.

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Campagne dei brand in evoluzione: alcuni esempi

Oltre a quello di KitKat, ci sembra utile riportare altri esempi pratici e case study per scoprire come i marchi possano davvero impegnarsi per le persone, amplificando la propria social responsibility.

Boohoo

Il rivenditore online orientato alla Gen Z, Boohoo, ha collaborato con l’ente di beneficenza anti-bullismo Ditch the Label per creare un video incentrato sulla causa, intitolato “The Insta-Lie”, che espone come la falsa percezione di vivere “vite migliori” sui social media abbassa l’autostima delle altre persone e rende più profonde le dipendenze online.

Adidas e Nike

Nel 2018 Adidas ha prodotto “Infinite Silence”, un cortometraggio del regista Max Luz, con protagonista il rapper e artista britannico Kojey Radical che parla di depressione, suicidio e dell’importanza del legame umano.

Lo scorso agosto, Nike ha lanciato le In My Feels Air Max, per raccogliere fondi per l’American Foundation for Suicide Prevention. La salute mentale è stata incorporata nel design della scarpa con un logo ondulato di swish reinterpretato per fare riferimento alle cime e alle valli della vita emotiva.

Le scarpe da 180 dollari sono andate esaurite in meno di 48 ore. Il successo delle scarpe da ginnastica indicava che la consapevolezza della salute mentale è in risonanza con i clienti.

nike salute mentale

JanSport

JanSport è un’azienda multinazionale che produce zaini e borse. Il brand ha dato il via a #LightenTheLoad, una campagna per aiutare a mettere in contatto i giovani con esperti della salute mentale – soprattutto nel periodo di acuto stress della pandemia COVID-19.

Ogni mercoledì di maggio, sul canale Instagram Live (con un archivio disponibile nella pagina dedicata alla campagna sul loro sito web), l’azienda ha proposto conversazioni con terapisti esperti.

Il marchio ha anche pubblicato sul suo sito informazioni di base, ma coinvolgenti, sulla salute mentale di organizzazioni come la National Alliance on Mental Illness (NAMI) e l’American Psychological Association, insieme a informazioni su linee telefoniche di aiuto in situazioni di emergenza.

Kodak Pharmaceuticals

Ti ricordi Kodak? Sarà presto un’azienda farmaceutica (e ti spieghiamo il perché)

  • Kodak è la prima azienda a portare la fotografia sul mercato di massa. Negli anni ’70 copriva il 90% del mercato americano delle pellicole e l’85% delle fotocamere.
  • Nel 2012 la crisi l’ha spinta in amministrazione controllata, quindi ad uscire dal mercato delle fotocamere digitali e reinventarsi.
  • Lo scorso luglio Kodak ha ottenuto un finanziamento di 765 milioni di dollari dal governo USA per diventare azienda farmaceutica inserendosi nell’attualissima questione USA-Cina.

 

La notizia ufficiale è questa “Kodak si trasformerà presto in un’azienda farmaceutica, prendendo sussidi dal governo USA”. Una questione curiosa e davvero interessante, da cui nascono molte domande. Le prime fra tutte: cosa c’entra un’azienda storica che produce pellicole con i farmaci? Perché Kodak ha cambiato rotta e perché il governo USA ha finanziato l’azienda per diventare farmaceutica?

Kodak pharmaceuticals

Per capire meglio questa notizia, dagli aspetti economici e politici, nei prossimi paragrafi ripercorreremo la storia di Kodak, la sua difficoltà a cambiare e diversificare fino al pivot con Kodak Pharmaceuticals, che ne ha fatto schizzare il suo valore sul mercato. Successivamente analizzeremo la situazione USA e l’intenzione di Trump di riportare in patria la produzione di farmaci.

Kodak Story

La storia di Kodak inizia a fine ‘800 ed è un caso studio davvero interessante, perché ci mostra come una delle aziende più importanti del mondo, che ha impresso i momenti più significativi e nostalgicamente emozionato moltissime persone, è finita in amministrazione controllata per non aver percepito e investito in tempo sul cambiamento digitale e diversificato, almeno fino ad ora.

1880-1881

L’imprenditore George Eastman, ex impiegato di banca con la passione per la fotografia, inventa una nuova formula per creare lastre secche alla gelatina-bromuro e inizia a produrle a Rochester, New York nella Eastman Dry Plate Company, che nel 1892 diventerà Eastman Kodak Company.

Curiosità. Il nome Kodak fu inventato dallo stesso Eastman “Mi piaceva la lettera K, e volevo una parola veloce, rapida. E senza problemi per il marchio”. 

1888-1889

Eastman rilascia la prima fotocamera Kodak per il mercato di massa. A quel tempo la macchina fotografica era utilizzata solo se si avevano abilità tecniche e più strumentazioni a disposizione. Kodak l’ha resa accessibile a tutti con lo slogan “Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto”.

Kodak

All’inizio la macchina fotografica veniva fornita con una pellicola incorporata. Quando tutte le foto erano state scattate, il cliente mandava l’apparecchio ai laboratori Eastman a Rochester, e presto riceveva, dietro pagamento, la macchina indietro caricata con una pellicola nuova e tutte le sue foto stampate.

Nel 1889 Kodak lancia la prima pellicola trasparente di nitrocellulosa della larghezza di 35 mm. Uno dei primi clienti è Thomas Alva Edison, che riesce così a ideare la prima cinepresa, Kinetoskopio.

Da allora, l’azienda ha ricevuto nove Oscar per i contributi tecnici e scientifici all’industria cinematografica.

1920

George Eastman crea un particolare apparecchio fotografico destinato alla medicina odontoiatrica. Da lì a pochi anni fa costruire diverse cliniche odontoiatriche per bambini bisognosi a Rochester, Londra, Parigi, Bruxelles, Stoccolma e Roma, dove viene edificato l’ospedale Odontoiatrico George Eastman, ancora oggi presente.

1960’s

Negli anni ’60 il marketing di Kodak punta sulla nostalgia. In una puntata della serie Mad Man, Don Draper ricorda la strategia Kodak con il proiettore di slide a carosello: “La nostalgia è delicata ma potente”.

Nel 1969 Gli astronauti dell’Apollo 11 utilizzano una speciale fotocamera a colori Kodak per scattare fotografie durante il primo atterraggio sulla luna.

1970’s

Kodak copre il 90% del mercato americano delle pellicole e l’85% delle fotocamere.

1975

Steven Sasson un giovane ingegnere della Kodak inventa la prima fotocamera digitale. L’azienda non finanzia il progetto, temendo che ciò avrebbe impattato negativamente la vendita della pellicola.

1980’s

La pellicola Kodachrome viene utilizzata dal fotografo Steve McCurry per scattare il famoso ritratto della bambina Afghana.

Kodachrome

Kodak acquista l’azienda farmaceutica Sterling Drug Inc. per 5,1 miliardi di dollari. A quel tempo, Kodak era il più grande produttore di prodotti fotografici al mondo, ma doveva affrontare la crescente concorrenza nella fotografia e voleva diversificare la propria attività. La società aveva già un segmento nel Life Science, che l’acquisizione di Sterling aveva lo scopo di potenziare.

1994

Kodak vende definitivamente Sterling. La scelta è di concentrarsi nuovamente sulla fotografia.

2005-2012

Tra il 2005 e il 2010 le casse di Kodak sono letteralmente prosciugate. Nel 2012 la crisi la spinge in amministrazione controllata. Sebbene alcuni dei suoi brevetti più preziosi all’epoca riguardassero l’imaging digitale, inclusi alcuni utilizzati negli smartphone, l’azienda era rimasta troppo indietro rispetto ai concorrenti nella fotografia digitale e con molti debiti da pagare.

Nel 2012 Kodak esce dal mercato della fotocamera digitale e concede la sua licenza e marchio ad altri produttori. Si concentrerà sulla sulle soluzioni commerciali, sulla stampa, sull’imballaggio e sui servizi alle imprese.

2014 – 2018

Kodak sigla un contratto con Hollywood. Il film Tenet di Christopher Nolan è girato su pellicola Kodak 65mm.

Mo

Nel 2018 Kodak annuncia il lancio di una criptovaluta, chiamata KodaCoin, le azioni dell’azienda salgono del 125%. Il progetto è oggi fallito.

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Kodak Pharmaceuticals

Lo scorso luglio, Kodak ottiene un prestito governativo di 765 milioni di dollari per trasformarsi in un’azienda produttrice di ingredienti farmaceutici, tra i quali l’anti-malarico idrossiclorochina.

Peter Navarro, trade advisor della Casa Bianca, ha dichiarato che Kodak ha l’esperienza necessaria nella chimica fine, grazie alla sua eredità fotografica. La produzione di ingredienti farmaceutici coprirà dal 30% al 40% delle attività di Kodak.

Il giorno dopo l’annuncio, a Wall Street il titolo Kodak ha avuto un’impennata, salendo oltre il 200%.

Wall Street Kodak
Il passaggio di Kodak al farmaceutico non è poi così strano. Abbiamo visto nel corso della storia di Kodak come già l’azienda avesse acquistato negli anni ’80 la farmaceutica Sterling e avesse una divisione nel Life Science, Kodak comunque ha sempre trattato con la chimica. Negli ultimi anni inoltre Kodak, dopo il fallimento con la fotografia digitale, si stava reinventando producendo prodotti chimici e materiali avanzati anche per il farmaceutico.

C’è anche un’altra azienda diventata famosa per le pellicole fotografiche, che già da qualche anno, sfruttando le proprie tecnologie ed acquisendo aziende farmaceutiche e biotech, è passata al mondo Life Science, la giapponese Fujifilm. Nel 2019 il comparto sanitario ha rappresentato per l’azienda giapponee il 43% del fatturato totale e mira a raddoppiare le vendite nei prossimi anni.

Prestito e scetticismo

Il finanziamento di 765 milioni, che Kodak dovrà restituire in 25 anni, ha generato scetticismo in USA. Si tratta del primo nel suo genere concesso dall’agenzia federale US International Development Finance Corporation (DFC) per sostenere “la produzione domestica di risorse strategiche”, tra cui i farmaci e le loro materie prime che oggi vengono importate principalmente da Cina e India.

Il prestito ridurrà il time-to-market di Kodak supportando i costi di avvio necessari per riutilizzare ed espandere le strutture esistenti dell’azienda a Rochester, New York e St. Paul – Minnesota, e introdurre continuous-manufacturing e tecnologie avanzate. L’azienda coprirà con la sua produzione il 25% del fabbisogno negli Stati Uniti.

Farmacia

Le critiche sono state mosse all’amministrazione sia per la scelta di finanziare la produzione interna di ingredienti (invece di concentrarsi sui test covid-19) che per la scelta stessa di Kodak, a fronte di altre aziende farmaceutiche con capacità e know-how maggiori.

Così risponde in un tweet Peter Navarro:

Nonostante tutto il DFC ritiene che Kodak abbia già l’attrezzatura per produrre gli ingredienti farmaceutici e ci sarebbe già una lettera d’intenti di un’azienda farmaceutica (non nota) che li acquisterà.

La strategia USA

Il Covid-19 ha amplificato l’intento di Trump di riportare in USA le produzioni, soprattutto quelle che oggi vengono importate dalla Cina. Il rischio di dipendere da altre Nazioni, che si è poi verificato anche in Europa, è quello di affrontare momenti di crisi senza risorse strategiche a disposizione, pensiamo per esempio alla mancanza di mascherine.

Ma c’è di più.

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globalizzazione Cina

Produrre in casa i prodotti e non dipendere dalla Cina, rientra nella guerra di mercato tra USA e Cina e riduce per gli Stati Uniti il rischio di minacce su risorse strategiche da parte di quest’ultima. Gli Stati Uniti sono inoltre leader mondiali dell’industria farmaceutica e la Cina negli ultimi anni sta crescendo molto in questo settore. Certamente un rientro di produzioni in USA pone la sfida del costo in confronto a quello delle materie prime cinesi. Per questo ritornando a Kodak l’intento di finanziare tecnologie avanzate per la produzione mira anche a non far alzare il costo dei farmaci finali.

Una riflessione a chiusura. In uno dei discorsi degli ultimi mesi, la presidente Ursula Von der Lyen aveva prospettato anche per l’Europa una strategia di resilienza, soprattutto per il comparto sanitario. Il Covid-19 sta indebolendo la globalizzazione oppure si tratta soprattutto di diversificare rispetto al mercato cinese (e indiano)?

mentoring

Il mentoring in azienda è importante e ci sono delle regole da seguire

  • Il mentoring è un’attività fondamentale per le aziende: permette di formare al meglio i propri manager del futuro. 
  • Come prima cosa, devono essere dati alla risorsa gli strumenti di base per muoversi e in autonomia e spiegate aspettative, ruolo e attività.
  • Il feedback è l’attività più importante: permette alla risorsa di imparare dai propri errori e di migliorarsi ogni giorno.

 

Non sono poi così lontani i tempi in cui con le amiche si parlava delle prime giornate di stage. “Il mio tutor ha sempre da fare, dopo due ore che ho letto le mail non so più cosa fare senza di lui. Mi rimane solo il solitario.
Non so, invece a me piacerebbe sapere se quello che sto facendo lo sto facendo bene oppure no. Ma anche la mia capa è sempre via”.

Sebbene autobiografico, sono sicura che l’estratto qui sopra possa risultare familiare a chi sta muovendo i primi passi nel mondo del lavoro. Ma potrebbe non esserlo più. Come? Con un mentoring efficace da parte delle aziende.

In questo articolo, ispirato a uno studio dell’Harvard Business Review e dalla mia meno bibliografica esperienza personale, trovate una lista di tips & tricks per un mentoring consapevole. Diciamo così: un mentoring for dummies.

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1. Le basi del mentoring: dove trovare cosa

Qualsiasi posto di lavoro ha un archivio di cartelle che contiene documenti utilissimi per i nuovi arrivati. C’è chi usa Dropbox, chi Microsoft, chi Drive, ma il concetto è lo stesso.

La prima cosa che avrei voluto sapere da stagista era dove trovare i materiali importanti senza dover chiedere tutto al mio tutor. Ecco perché la prima cosa che ho fatto con la mia apprendista è stata dirle dove trovare tutti i documenti possibili.

Nel concreto è molto semplice: basta preparare una lista di file importanti con le indicazioni in merito alle cartelle in cui trovarli. Ah, e ovviamente condividerne gli accessi! Vi pare ovvio? Avrei dei ricchi aneddoti con cui farvi ricredere.

2. Mentoring e aspettative: definire ruolo e doveri

Tra i trick per un mentoring efficace, HBR suggerisce di redigere un documento di Baseline Expectations per le nuove risorse. Al suo interno possono essere approfondite responsabilità, task, modalità e qualsiasi altro aspetto si ritenga fondamentale. Uno strumento che lascia largo spazio all’interpretazione, ma che sottolinea un passaggio fondamentale del mentoring: la definizione del ruolo e delle attività.

Lavorare in autonomia quando si è nuovi nel mestiere non è facile. Non si possono improvvisare le proprie attività e questo spesso dà origine a frustrazione o senso di inutilità. La musica cambia quando si sa con certezza quali sono i task e come terminarli senza dipendere da altri. Impostare il lavoro secondo attività quotidiane e consolidate può rendere le nuove risorse mano a mano più autonome e soddisfatte sul lungo periodo.

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3. Quanto tempo dedicare al mentoring?

Un’altra regola d’oro è quella di decidere in anticipo quanto tempo dedicare all’attività di mentoring. Non è una decisione facile, perché, per quanto sarebbe più comodo pensarla così, le risorse sono ancora umane e in quanto tali differiscono anche nel quantitativo di tempo che serve loro per imparare a fare qualcosa.

Tuttavia, è consigliabile inserire in agenda degli slot orari fissi in cui approfondire i temi chiave per l’apprendista. Mettiamo caso che questi debba imparare ad usare Google Analytics: non può farlo completamente da solo, perciò l’ideale sarebbe dedicare un monte orario iniziale per spiegargli bene come fare e dei meeting successivi con un tempo definito per la risoluzione dei dubbi.

agenda

I meeting non dovrebbero essere più lunghi di 50 minuti e prefissati nell’agenda da diverso tempo. In questo modo l’apprendista dovrebbe imparare a considerare il tempo come una risorsa preziosa, iniziando lui stesso a voler settare un’agenda e dei punti da smarcare il più velocemente possibile nel suo spazio di formazione.

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4. Sì, ma… Chi dovrebbe fare mentoring?

In un mondo lavorativo perfetto, i senior manager avrebbero il tempo di formare tutte le risorse del mondo. Purtroppo, come si evince dai solitari a cui giocano gli stagisti, questa speranza non riflette la realtà. Tale discrepanza mi ha portata a riflettere su quali siano le risorse di un’azienda più indicate ad occuparsi del mentoring e, spoiler alert, la risposta non è facile né definibile a priori. Dipende dalle esigenze.

Imparare dai senior manager: la formazione in ascolto

Diciamo che scegliere una persona con decenni di esperienza ha come vantaggio tutto il bagaglio di conoscenze e di trick che quella persona è in grado di passare. Anche solo sentendola parlare: spesso mi è capitato di considerare “mentori” colleghi senior che non erano un mio tutor diretto né ufficiale, ma che durante i meeting mi hanno tenuta in ascolto e da cui ho appreso informazioni, scappatoie e trucchetti in poche decine di minuti. Certo, dall’ascolto alla pratica passa diversa acqua sotto ai ponti, ma è un inizio. Il contrappeso è che spesso i senior manager non hanno il tempo materiale di occuparsi delle nuove risorse.

Imparare con gli junior manager: l’affiancamento continuo

Per questo, una valida alternativa sono gli junior manager: risorse che da qualche anno si occupano di ciò che fanno e hanno ancora vivido il ricordo delle difficoltà di quando ancora erano stagisti. Una persona che è sul mondo del lavoro da 3-5 anni ha acquisito le competenze del ruolo, tendenzialmente è meno oberato di un suo superiore, fresco e forse anche felice di poter condividere quello che sa. Fare mentoring d’altronde è un atto di generosità, ma come tante attività altruiste, dà tanto anche a chi lo fa. Ti fa vedere le cose da un’altra prospettiva, ti rinfresca la memoria, ti sfida, ma soprattutto – parrebbe, sempre secondo un altro studio di Harvard – ti aiuta ad alleviare lo stress.

Un mentoring ibrido potrebbe essere la soluzione migliore: una figura junior-middle in affiancamento, un senior da cui ascoltare.

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5. L’aspetto chiave del mentoring: il feedback

Ricordate il “mi piacerebbe sapere se quello che sto facendo lo sto facendo bene oppure no” in apertura all’articolo? Ecco, quella frase non è semplicemente una lamentela di una vecchia amica, ma uno degli aspetti più importanti del mentoring.

Per crescere veramente, una risorsa ha bisogno di un feedback continuo. Se chiedi un documento che poi devi aggiustare in qualche modo, non puoi semplicemente correggerlo e inviarlo al cliente. Altrimenti la prossima volta ci troverai dentro gli stessi errori, perderai tempo tu e la tua risorsa non avrà imparato.

Drive, per esempio, permette di visualizzare la cronologia dei documenti: un trick utile con cui lo stagista può osservare in autonomia tutte le correzioni. In seguito, se ci fossero aspetti non chiari li si può approfondire in meeting. Da 50 minuti massimo, ovviamente.

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Per concludere, il feedback dovrebbe essere puntuale quando riguarda un singolo task, periodico per indagare eventuali difficoltà o punti di miglioramento e conclusivo al termine del periodo di mentoring. Non si può mica smettere di insegnare sul più bello.

diversity

Il progetto “TrueColors” ci mostra cosa manca oggi per il diversity management

  • Cosa accadrebbe se i colori dei loghi dei più famosi brand esprimessero il colore del proprio top management?
  • A creare questa sorta di inside out, ci ha pensato il profilo Instagram @truecolors.official, powered by Eleonor Rask, direttrice artistica della famosa agenzia pubblicitaria di San Francisco, Goodbye Silverston&Parteners.
  • Ad oggi, nonostante le molteplici pressioni subite dalle aziende per cambiare la diversità della propria leadership, per il diversity management c’è ancora tanto da fare.

 

Django Unchained, di Quentin Tarantino, ispirato allo spaghetti- western Django (famoso film degli anni Sessanta con protagonista Franco Nero), racconta la storia di uno schiavo di colore (Jamie Foxx), che diventa un cacciatore di taglie sotto la guida di un ex dottore (Christoph Waltz).

Dopo aver lavorato insieme per tutto l’inverno, la coppia inizia poi a cercare la moglie dell’ormai uomo libero Django, Broomhilda, schiava del crudele proprietario terriero interpretato da Leonardo Di Caprio.

Candidato a cinque statuette ai Premi Oscar 2013, il film di Tarantino ne conquistò due.

In Italia il filma incassò 400.000 euro nel primo giorno di proiezione.

Ma cosa ne sarebbe stato del film se il protagonista fosse stato bianco? Probabilmente la trama sarebbe stata stravolta e la pellicola non avrebbe avuto alcun senso.

Immaginiamo, ancora, Will Smith in La Ricerca della Felicità. Avrebbe avuto lo stesso successo con un attore non di colore?

Continuando la stessa riflessione nel mondo del business, immaginiamo che i colori dei loghi dei più famosi brand diventino quanto più simili possibili al colore del proprio top management. Cosa succederebbe?

Il progetto TrueCcolors

Probabilmente i brand non sarebbero più distinguibili.

Nonostante le posizioni pubbliche prese in merito al razzismo, soprattutto durante l’esplosione del movimento Black Lives Matters, molti famosissimi brand continuano ad avere una leadership bianca tra le fila dei C-levels.

Il tutto mentre il mondo aziendale è costantemente sotto pressione per cambiare la diversità della propria leadership.

Adidas è 100% white, CNN è al 93% white, Tiffany&Co è per l’88% white.

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true colors diversity management

Seguono poi Nike (85% white), Microsoft (81% white), Apple e Mc Donald (77% white). Fanno di meglio Uber (al 50%) e Hulu (al 44%), azienda che offre servizio internet di video su richiesta operante nella distribuzione di film, serie TV e contenuti di intrattenimento.

true colors diversity management

L’ideatrice di quest’assurdo, stimolatore di profonde riflessioni, è Eleonor Rask, direttrice artistica della famosa agenzia pubblicitaria di San Francisco, Goodbye Silverston&Parteners (GSP).

In questo caso, però il progetto non è affiliato con GSP. L’agenzia ha comunque una storia di impegno nel dialogo civico. A giugno, i direttori creativi associati Rony Castor e Anthony O’Neill Hanno lanciato il messaggio Being Black Is Not a Crime, supportando la comunità nera e il movimento Black Lives Matter.

true colors diversity management

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Rask ha preso i loghi, li ha resi neri e poi ha applicato una sovrapposizione di colore bianco su ciascuno.

Ha scelto di non utilizzare un vero bianco in modo che, anche nel caso di un’azienda con un alto rapporto di leadership bianca, il logo potesse essere ugualmente visibile.

Rask ha poi adeguato la percentuale in modo che corrispondesse a quella di ciascuna società.

Il tutto è racchiuso nell’account Instagram @truecolors. official.

Apparso il 22 luglio, riproduce le immagini di famosi brand secondo la percentuale del numero di professionisti bianchi o neri presenti ai vertici aziendali.

Diversity management

La provocazione si inserisce perfettamente nel contesto della lotta al razzismo, supportando pienamente il messaggio promosso dal movimento Black Lives Matter.

Stimola, inoltre, una serie di riflessioni in merito al cosiddetto diversity management.

true colors diversity management

Nato negli USA sul finire degli anni Ottanta, il diversity management rappresenta un nuovo approccio alle persone all’interno delle risorse umane aziendali, in grado di valorizzare la diversità.

Fino a non molto tempo fa vigeva tuttavia una prospettiva che tendeva ad annullare le differenze e le diversità, secondo un modello in cui il lavoratore tipo era identificato con una persona sana, generalmente dalla pelle bianca e soprattutto di sesso maschile.

Solo sul finire degli ’80, molte aziende US based cominciarono ad accorgersi dell’enorme potenziale che andava sprecato in ragione delle discriminazioni.

L’intento del diversity management è quello di creare un ambiente di lavoro inclusivo, in grado di favorire l’espressione del potenziale individuale e di utilizzarlo come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi.

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Diverso è più bello

Guardando le percentuali white di @truecolors.official sembra però debbano essere fatti molti passi avanti.

In effetti, sono ancora molte le aziende che, nonostante lancino messaggi di supporto nei confronti del movimento “Black Lives Matter”, hanno vertici poco diversificati.

Il tutto nonostante molteplici studi condotti da importanti Business School dimostrino come la diversità sia un valore aggiunto che fa bene al business.

Diversità a tutto campo: culturale, di genere, religiosa.

E se per Django c’è stato il lieto fine, con la conquista della suo riscatto umano e sociale, rimaniamo fiduciosi e in attesa del lieto fine per il mondo del business.

Fingers crossed.