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Che cosa sono la Realtà Virtuale e la Realtà Aumentata, raccontato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Giuseppe Di Gironimo, Professore di Modellazione Geometrica e Prototipazione Virtuale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale della Federico II di Napoli, e responsabile del laboratorio IDEAinVR (Interactive Design and Ergonomics Applications in Virtual reality).

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Il Prof. Giuseppe Di Gironimo nel fare il punto sulla pervasività delle tecnologie di realtà aumentata e virtuale sembra riscontrare ormai pochi limiti: Quelli che erano limiti 10 anni fa, oggi li abbiamo già abbondantemente superati, grazie soprattutto allo sviluppo di dispositivi hardware in particolare schede grafiche, processori sempre più potenti che consentono di effettuare calcoli sempre più rapidamente. Per cui, non ci sono limiti sul ‘cosa’ simulare”, tuttavia aggiunge: c’è sempre bisogno di un uomo che sappia interpretare i dati di quella simulazione in maniera corretta, facendo appello alle sue competenze, con il suo ingegno, con la sua dottrina e con il suo disegno, come ci insegna Martini Francesco Di Giorgio”.

Interessante il suo punto di vista anche sull’accessibilità: “Qualche anno fa, questa tecnologia era proibitiva in termini di costo, cioè era inaccessibile per le piccole e medie imprese […] Una grande mano l’abbiamo data noi con le università perché abbiamo potuto usufruire di finanziamenti pubblici per riuscire a studiare e fare ricerca su queste tecnologie […] Il fatto che oggi queste tecnologie costino sempre meno ha avvicinato le piccole imprese anche all’acquisizione della tecnologia e non più solo all’acquisizione delle competenze e quindi abbiamo la possibilità, anche in piccole aziende, di poter sfruttare queste tecnologie.

Poi aggiunge “Sicuramente oggi, l’Italia che ha tante risorse turistiche e archeologiche e agro alimentare deve sfruttare tanto queste risorse e applicare queste tecnologie per realizzare progetti che consentano una loro migliore fruizione, e sarebbe da criminali non farlo”.

Approfondimenti su Realtà Virtuale e Realtà Aumentata

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’Augmented Reality (Realtà Aumentata, o AR) consiste nell’implementazione di informazioni generate tramite computer le quali vengono sovrapposte e aggiunte agli oggetti del mondo concreto, arricchendo in maniera multisensoriale gli stimoli percettivi sperimentati dall’individuo. Con l’impiego di questa tecnologia si migliora l’interazione con l’ambiente e con i sistemi di produzione, permettendo di mostrare, attraverso visori o tablet, delle informazioni relative ad un oggetto reale semplicemente inquadrandolo. Nelle applicazioni industriali le informazioni possono riguardare, ad esempio, le condizioni di funzionamento o le istruzioni operative di montaggio, uso e manutenzione di un prodotto o di un sistema di produzione.

La Virtual Reality (Realtà Virtuale, o VR) consiste nella simulazione di un’esperienza immersiva in un ambiente digitalmente prodotto. Essa si differenzia dalla AR in quanto permette di “immergersi” in un mondo completamente digitale e slegato da quello esterno e fisico. L’accesso a questo mondo digitale è reso possibile da visori e da accessori (come joypad, sistemi di tracking, guanti) sviluppati appositamente per interagire e “vivere” all’interno della Realtà Virtuale.

Il punto di partenza per entrambe le tecnologie AR e VR è un modello tridimensionale del prodotto o processo, costruito in ambienti di modellazione CAD 3D, e sistemi di visualizzazione basati su schermi o visori, potenziati dall’utilizzo di dispositivi indossabili che permettono di navigare realisticamente nel modello ed interagire con esso attraverso opportuni feedback sensoriali.

Le tecnologie della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata costituiscono oggi un importantissimo elemento nel settore industriale. Non a caso, esse sono entrate a far parte della lista delle tecnologie abilitanti dell’Industry 4.0, cioè quegli strumenti hardware e software e quelle tecniche che – in stretta correlazione l’una con l’altra, creando un vero e proprio ecosistema tecnologico – sono alla base della Quarta Rivoluzione Industriale. In particolare, AR e VR svolgono un ruolo primario per il miglioramento delle condizioni di ergonomia e sicurezza in una fabbrica e per il raggiungimento di sempre più elevati livelli di qualità del prodotto finalizzati al soddisfacimento di bisogni reali della società in cui viviamo.

Giuseppe di Gironimo, Professore di Disegno e Metodi dell’Ingegneria Industriale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università Federico II, responsabile del centro MARTE (Misure Avanzate in Realtà virTualE) presso il CESMA-Unina e del Laboratorio IDEAinVR (Interactive Design and Ergonomics Applications in Virtual reality) nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico del Consorzio CREATE (Consorzio di Ricerca per l’ Energia, l’ Automazione e le Tecnologie dell’ Elettromagnetismo), si occupa di Realtà Virtuale sin dal 1999, anno in cui, sull’esempio di paesi come la Germania, anche l’Italia inizia a rincorrere questa nuova tecnologia

Di Gironimo sostiene che è possibile osservare la progettazione industriale sulla base dei suoi tre elementi costitutivi fondamentali, distinti ma strettamente correlati tra di loro: l’ingegno, la dottrina e il disegno. Coloro che operano nell’ambito dell’ingegneria, infatti, devono essere prima di tutto dotati d’ingegno. Questo deve però necessariamente essere incanalato, attraverso specifici studi, con un’opportuna dottrina. A loro volta, ingegno e dottrina devono essere sintetizzati attraverso il disegno: tale termine si riferisce ad una rappresentazione grafica realizzata a partire da una specifica competenza, in grado di comunicare delle informazioni accurate e approfondite, che uniscono il fattore artistico e quello tecnico al fine di ottimizzare le possibilità di comprensione.

Prima dei modelli virtuali– che costituiscono l’output più attuale ed avanzato della disciplina del disegno- vi erano i modelli 3D i quali, rispetto alla ancora precedente tecnica del disegno 2D in scala, permettono una comprensione molto più approfondita degli oggetti e del loro comportamento e consentono di conseguenza la realizzazione di prodotti in tempi più rapidi e con più alti livelli di qualità, irraggiungibili- se non addirittura inconcepibili- prima dell’introduzione di tali tecnologie.

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Il funzionamento di VR e AR

La Realtà Virtuale, quindi, ha lo scopo di ricreare tramite un computer mondi e oggetti che sono la trasposizione digitale di ambienti reali o di fantasia. La Realtà Aumentata, invece, consiste nella sovrapposizione di immagini digitali a immagini reali. Il funzionamento di queste tecnologie, sempre secondo il parere di Di Gironimo- che per il suo lavoro e la sua esperienza in questo campo rappresenta un interlocutore privilegiato- si basano su quattro ingredienti principali: il fotorealismo; la grafica in tempo reale; l’immersione; l’interattività. 

Il fotorealismo consiste nella riproduzione più esatta possibile delle immagini. Questa componente è particolarmente importante quando AR e VR vengono applicate nel settore industriale, poiché permette una sperimentazione più accurata ed efficace dei modelli virtuali. Uno dei parametri principali per l’elaborazione delle immagini è infatti la qualità visiva dei risultati, per cui si utilizzano specifici programmi di rendering e ray tracing

Il fotorealismo ha costituito in ambito sperimentale un ostacolo significativo, per via dei tempi e dei costi di realizzazione di queste immagini. Al giorno d’oggi, ad ogni modo, è molto più semplice procurarsi tali tecnologie e realizzare questi prodotti, grazie all’innovazione nel settore dei calcolatori e dei processori e al consequenziale abbassamento dei costi. 

La grafica in tempo reale è essenzialmente la fluidità dell’ambiente prodotto digitalmente e dei suoi cambiamenti di stato sulla base, ad esempio, dei cambiamenti di stato del nostro corpo nel mondo fisico. La fluidità dello scenario virtuale si consegue quando il sistema nervoso dell’utente viene ingannato in maniera esatta (una sorta di versione più innovativa di ciò che accade nel caso del montaggio cinematografico). Il sistema è quello di riprodurre le specifiche immagini ad una velocità superiore a quella che è la permanenza dell’immagine sulla retina. Per conseguire questo risultato, è evidente, occorrono capacità di calcolo molto elevate e schede grafiche estremamente performanti. 

La qualità dell’immersione– caratteristica basilare delle tecnologie AR e VR- è una qualità insita nello specifico sistema di output o visualizzazione, oggi esistente in varie forme: ad esempio i più user-friendly smartphone e televisori, ma anche i più tecnici powerwall (larghi schermi ad altissima risoluzione composti da una matrice di altri display) e CAVE (Cave Automatic Virtual Environment, un ambiente immersivo di realtà virtuale in cui le immagini vengono proiettate su tutte le pareti di una stanza cubica).

L’immersione è direttamente dipendente dalla stereoscopia: tale termine si riferisce alla modalità di visione binoculare (a due occhi) che ci permette la percezione visiva delle tre dimensioni. La visualizzazione stereoscopica, dunque, prevede la visualizzazione in contemporanea di due immagini (una per occhio). In una delle varie tecniche di realizzazione della stereoscopia- quella che viene detta visione stereoscopica attiva- vengono utilizzati degli occhiali ad otturatori i quali, al posto delle tradizionali lenti, hanno impiantati dei filtri a cristalli liquidi. Le immagini, quindi, vengono mostrate in sequenza sullo schermo, alternando i frame destinati all’occhio destro e quelli destinati all’occhio sinistro in maniera continua e ripetuta. Allo stesso tempo, viene inviato un segnale agli occhiali in modo che questi possano oscurare l’occhio cui di volta in volta non è rivolta l’immagine. Ovviamente per realizzare questa tecnologia- il cui risultato è quello di un’elevata definizione grafica- c’è bisogno di macchine e sistemi di elaborazione molto veloci.

Infine, vi è l’ingrediente dell’interattività, il quale caratterizza l’esperienza risultante dalle tecnologie di Realtà Virtuale e Aumentata trasformando queste in dei media del tutto rivoluzionari. Gli scenari di AR e VR, infatti, non si limitano a sfruttare la visione stereoscopica per far sì che l’individuo si ritrovi in una condizione di immersione in questi ambienti: essi, infatti, sono sviluppati anche per prestarsi ad un’interazione con l’utente. Tutto ciò al fine di restituire un’esperienza cognitiva importante e portare l’utente oltre il semplice ruolo di spettatore. L’interattività, da un punto di vista tecnico, viene realizzata tramite sistemi di tracciamento e manipolazione, che consentono ad esempio di catturare in tempo reale il movimento spaziale di un corpo fisico e di elaborarlo al computer.

Realtà aumentata, realtà virtuale e industry 4.0

È comune associare le tecnologie in grado di realizzare e riprodurre scenari di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata all’universo dell’entertainment. Dal mondo del cinema a quello del gaming, infatti, tali tecnologie sono ormai da decenni sfruttate in maniera notevole e significativa al fine di rendere l’esperienza del fruitore più performante possibile. Oggi però queste tecnologie possono essere associate anche al cuore del settore industriale, in particolare se si parla dell’Industry 4.0, la quale è da inquadrare come una realtà non più tanto appartenente al futuro, ma piuttosto al presente.

Industry 4.0 significa non solo aumentare l’efficienza dei processi, ottimizzando il funzionamento delle componenti industriali attraverso la digitalizzazione. Tale espressione infatti indica una vera e propria ridefinizione dei confini del settore dell’industria. Questa ridefinizione è, sostanzialmente, basata sui cyber-physical systems (sistemi informatici in grado di interagire in maniera autonoma e funzionale con il sistema fisico che lo accoglie o in relazione a cui opera), il cui meccanismo risulta nell’embedding di mondo reale e virtuale (si parla infatti di embedded reality, per indicare la condizione di pervasività di questo processo).

Tecnologie come l’AR  e la VR, dunque, che rappresentano anche un crocevia tecnologico tra ingegneria ed entertainment, sono fondamentali in questa ridefinizione di confini e di paradigma. 

Non a caso oggi si parla di Human o User Centred Design, indicando con questa espressione il design elaborato sulla base delle preferenze e delle attese dei consumatori. Si tratta di modelli derivati dalla disciplina, di matrice nipponica, definita come Kansei Engineering: tale termine si traduce con l’espressione ‘ingegneria delle emozioni’ e vuole indicare lo sviluppo di prodotti e servizi a partire dai bisogni e dalle esigenze psicologiche del consumatore o dell’utente, le quali vengono traslate all’interno del product design. L’implementazione dei sistemi di Realtà Virtuale e Aumentata, dunque, costituisce un significativo passo in avanti verso questa direzione.

Proptipazione digitale

Coronavirus: la prototipazione digitale scende in campo per gli ospedali in emergenza

Nei giorni dell’emergenza causata dal COVID-19, molte aziende son scese in campo per supportare gli ospedali in difficoltà. Una di queste è Ultrafab, la quale sta adoperando la stampante 3D per raccogliere pezzi utilizzabili per i respiratori.
Il loro obiettivo è aiutare il sistema sanitario nazionale nel modo più capillare possibile.

Ultrafab è una startup innovativa, fondata a Brescia nel 2018. Il core business è gestire l’intero processo di ideazione, progettazione, sviluppo ed industrializzazione di prodotti nel mercato dell’internet delle cose (IoT), con un focus specifico sulle necessità di acquisizione, gestione e comprensione del dato, tramite strumenti di analisi tradizionale e di intelligenza artificiale. Inoltre, gestiscono la raccolta dei dati di produzione, usando nel laboratorio anche stampanti 3D, taglio laser e altri strumenti tipici di un Fab Lab per la prototipazione digitale.

A tal proposito, abbiamo ascoltato il CEO di Ultrafab, Alessio Bernesco Làvore.

L’esperienza di Ultrafab

Ultrafab da 3 anni è attiva nel settore IoT. Di cosa vi occupate? Soprattutto, a chi vi rivolgete?

«Principalmente ci occupiamo di quello che viene definito “Industria 4.0”, nello specifico nella parte di raccolta, analisi e condivisione dei dati, con un focus specifico legato ai processi di acquisizione in tempo reale e alla parte IoT. Il nostro prodotto di punta “Bishop” è un sistema operativo di fabbrica. Una piattaforma che permette di far dialogare la parte fisica, quindi i macchinari, con la parte puramente digitale: i sistemi gestionali aziendali, i sistemi di business intelligence e così via.

Il nostro compito è quello di fungere da “broker” di tutti i flussi informativi (e sono parecchi) che si generano, nascono e muoiono all’interno dell’azienda contemporanea. Basta pensare a quante informazioni vengono prodotte quotidianamente da un macchinario industriale e che vengono perse perchè non raccolte ed analizzate. Noi rendiamo possibile questa raccolta ed aiutiamo a valorizzarla, dando un senso ai dati raccolti. Ci rivolgiamo principalmente al mondo manifatturiero, con clienti che coprono un po’ tutti i tipi di produzione e fatturato annuo.

Certo, per posizione geografica e di prossimità (siamo di Brescia) i nostri clienti principali operano nel campo meccanico e metallurgico. Ma abbiamo casi di utilizzo anche lontani dall’industria: biomed, smart building e luxury».

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Come l’azienda sta reagendo all’epidemia COVID-19 (anche con la prototipazione digitale)

Stiamo vivendo una situazione drammatica in tutta Italia e non solo, causata dall’emergenza del Coronavirus. Come vi state comportando come azienda? Siete stati costretti a chiudere, avete adottato lo smart working?

«Come Ultrafab siamo entrati in modalità smartworking fin dall’inizio dell’emergenza. Abbiamo uno spazio fisico di circa 450 metri a Brescia (che chiamiamo affettuosamente “il lab”) ma da tempo i nostri strumenti di lavoro e il nostro ambiente di sviluppo sono totalmente virtualizzato e accessibile in cloud. Quindi in pratica ovunque abbiamo un portatile ed una connessione ad internet, noi siamo operativi. Per noi non è stato abbastanza automatico iniziare a lavorare da casa, anche perchè per chi di noi ha figli è stata una scelta quasi obbligata.

Nel corso delle settimane abbiamo visto i nostri clienti gradualmente chiudere, fino a rimanere a seguire in linea solo quelli direttamente coinvolti nella lotta all’emergenza e qua, purtroppo, non sono pochi. Pensavamo che ci sarebbe stato un totale congelamento delle attività, mentre stiamo ricevendo costantemente richieste da nuovi prospect. Sembra che un buon numero di aziende stia utilizzando questo periodo di stasi per ampliare il ragionamento sulle nuove tecnologie. Speriamo tutti in una applicazione pratica una volta passato il periodo di quarantena».

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In una zona tanto colpita come la vostra avete dato un contributo alla lotta al COVID-19?

«A Brescia c’è stata una risposta fortissima da parte di tutto il tessuto produttivo. Noi nello specifico abbiamo aderito alla call di Make In Italy mettendo a disposizione le macchine di digital fabrication che abbiamo in laboratorio e le competenze IoT. Per la prima parte in particolare abbiamo collaborato alla produzione dei particolari di alcuni face shield e abbiamo messo a disposizione il laboratorio per l’assemblaggio.

Per la seconda stiamo lavorando al progetto di un apparato wearable a basso costo e facilmente riproducibile per il monitoraggio a distanza dei parametri medici dei pazienti, soprattutto nell’ottica di facilitare il controllo delle persone a casa in convalescenza o degli ospiti delle strutture gestite (RSA e residenze per anziani)».

Con quali prodotti, macchinari, attrezzi?

«Avendo due nature, una “digitale” legata allo sviluppo e una “fisica” legata ai macchinari, dividerei le due cose. Per noi la parte macchine di digital fabrication è una risorsa interna, le utilizziamo solo per la realizzazione dei nostri prototipi o per l’adattamento di soluzioni che forniamo ai nostri clienti, non facciamo un service.

Questo ci ha portato ad avere una specializzazione orizzontale, quindi diverse macchine per scopi diversi, piuttosto che verticale, quindi concentrata su poche lavorazioni ma un elevata produzione. Abbiamo stampanti 3D, sia FDM che a resina, con diverse tipologie di stampa e dimensione. Una macchina per il taglio laser, una macchina CNC a 3 assi in grado di lavorare materiali diversi, anche metallici, apparati per la termoformatura e per la lavorazione dei compositi, un laboratorio di elettronica e un reparto “tradizionale” con macchine manuali (trapani, troncatrici, etc). Per la parte di sviluppo da sempre utilizziamo prodotti opensource, sia server che client e tutti i nostri prodotti sono nativi cloud».

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Sulla stampa 3D (o prototipazione digitale) c’è confusione su cosa si possa stampare, sull’utilizzo e la qualità e sulle quantità prodotte. Vogliamo chiarire questo aspetto?

«Come per tutti gli ambiti della tecnologia in cui ci siano due aspetti congiunti (strumento/competenza) che devono interagire dividerei le tre fasce classiche: consumer/prosumer/professional. Come avviene in altri ambiti assimilabili (penso a quello della fotografia?!?) ci sono strumenti consumer che hanno fatto passi da gigante negli ultimi anni, permettendo anche ad utenti appena affacciati di ottenere soddisfazione, ma ancora semplicemente inutilizzabili “by design” nel mondo professionale.

Per la stampa 3D quello di cui si parla solitamente sui social è la stampa 3D fatta con apparati consumer, quella che permette con un minimo investimento (nell’ordine delle centinaia di euro) di avere qualcosa in grado di stampare oggetti in plastica. La qualità del prodotto realizzato alla fine è la somma di una serie di fattori, nei quali di solito l’esperienza dell’utente e la quantità di modifiche/messe a punto fatte alla macchina (ovvero ora investite) diventano il vero fattore determinante.

È ovvio che in ambito professionale questo tipo di variabilità non è accettabile. Le macchine utilizzate in ambito industriale e che attualmente permettono realmente di produrre pezzi con modalità/tempi/costi impossibili per i processi tradizionali sono altamente automatizzate e hanno un’affidabilità elevatissima, in pratica condividono con le stampanti 3D comprate su Amazon solo il nome generico.


La nostra esperienza specifica sta nella fascia di mezzo, quella degli apparati “prosumer”, prodotti il cui costo più elevato, per quanto ancora accessibile per una realtà piccola e non orientata alla produzione di massa, è giustificato da una maggiore affidabilità e riproducibilità del processo. Per noi avere un reparto di fabbricazione interna vuol dire poter arrivare in “ore/giorni” ad avere un prototipo finito in grado di portarci sul campo per i test, senza peraltro dover mettere piede fuori dal lab. Parlo in generale di fabbricazione anche perchè l’oggetto finito non è quasi mai “100% 3D printed” ma un mix di diverse lavorazioni, stampa 3D, laser cutting, lavorazioni CNC, componenti elettronici, etc.

L’ultimo aspetto determinante è poi legato alla capacità progettuale, è banale, ma una stampante 3D realizza oggetti che sono stati precedentemente disegnati e progettati con programmi di CAD 3D, motivo per cui spesso gli oggetti consumer vengono acquistati per rimanere a breve inutilizzati per mancanza di soggetti da stampare. Più o meno come il fatto che senza pentole non potrai sicuramente cucinare, ma comprare una pentola non ti fa diventare automaticamente Barbieri».

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Come fare Storytelling, anche durante l’emergenza Coronavirus

Quando si fa storytelling non si raccontano semplicemente “storie”, bensì si comunica alla propria audience, che si deve conoscere e che si è precedentemente analizzata, un “autentico racconto”.

Accompagnare questi interlocutori verso la dimensione desiderata non è un’operazione affatto facile. Ma vale la pena affrontarla. Lo storytelling necessita di un cosiddetto habitat narrativo, all’interno del quale si invitano i soggetti scelti, verso un comune destino.

Bisogna analizzare la realtà e riprodurla. In maniera coerente e strutturata. Partendo da qui si possono creare contenuti unici che sappiano nel tempo mantenere ed assicurare credibilità. Ecco da dove inizia la sfida.

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Perché raccontarsi: necessità o inadeguatezza?

Il termine storytelling oggi è forse un po’ abusato. Per questo forse ci si è dimenticati della sua naturale accezione e della sua complessa struttura.

Raccontare aiuta certamente a riflettere ed esprime intrinsecamente, una volontarietà che può configurarsi in ambito digital, come una vera e propria necessità: vendere ad un pubblico specifico, con una direzione business-oriented, oppure esprimere una dimensione di inadeguatezza.

Talvolta esigiamo di voler elaborare un “racconto” di noi, pensiamo di aver in pugno tratti unici ed irripetibili, che la storia da proporre sia vitale per noi e per chi ci ascolta. Può essere così, ma bisogna ricordare sempre di essere sinceri quando si racconta: è fondamentale, al di là di tutto, per arrivare al cuore di chi ascolta.

6 variabili chiave dello Storytelling

L’attività di storytelling necessita di un’organizzazione ben precisa. La delinerei, come riportato dalla Marvel Cinematic Orchestra, un vero e proprio insieme di “regole e passaggi facenti parte di una strategia molto più ampia”.

Ecco le sei variabili chiave dello storytelling ed i suoi più importanti protagonisti:

  • Story listener (lettore o ascoltatore del racconto)
  • Story (il racconto in sé che deve essere adatto ai canali digitali di distribuzione)
  • Show (modalità di svolgimento)
  • Story-teller (chi potenzialmente influenza le storie e ne determina la cosiddetta story-experience)
  • Story-architect (il “creatore della dimensione” desiderata)

Che ti piaccia o no, ognuna di esse non può esistere da sola e tutte insieme, formeranno il tuo racconto.

Partire dal lettore. Si comincia da qui

Partiamo dal presupposto che non dobbiamo, e non possiamo, piacere a tutti. I racconti devono innanzitutto presentarsi come coerenti e reali. Parti da un obiettivo ben delineato, la cosiddetta core-story, e ricordati alcune semplici domande da porti prima di iniziare. Questo processo, seppur presentato in minima parte, ti aiuterà senz’altro a capire a chi ti stai rivolgendo.

  • Chi è il tuo pubblico?
  • Perché l’hai scelto?
  • Che età ha?
  • In quale canali riuscirà a seguirti meglio?

La checklist per iniziare a fare storytelling

Pubblico analizzato, obiettivi chiari e sinceri. Adesso ci siamo, quasi! Prima di raccontare e fare storytelling, analizzate per l’ultima volta la vostra core-story e create uno storyboard accattivante che sappia conquistare il target di riferimento.

Poniti gli ultimi doverosi quesiti:

  • Quale tipo di immagine preferisce il mio pubblico?
  • Quale contesto?
  • Quali immagini potenzialmente rifiuta?

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Mai fermarsi con lo storytelling, neanche durante l’emergenza

Da professionisti della comunicazione, è doveroso riflettere su alcune azioni da adottare in queste drammatiche settimane. Condividere esperienze, anche e soprattutto adesso, può rivelarsi di grande aiuto, specie nella comunità “always-on”, di tutti i professionisti digitali che sono in difficoltà sul come rivedere i propri piani editoriali e continuare il racconto dei brand che gestiscono.

Ecco alcuni consigli, frutto della reale esperienza sul campo (ma anche di un forte senso civico) per operare al meglio nei circuiti digitali, anche durante l’emergenza Coronavirus.

Leggi le attuali norme ministeriali

Per prima cosa, dai un’attenta lettura alle ultime disposizioni ministeriali per consigliare al meglio i clienti su quali notizie tenere d’occhio e quali  comportamenti mantenere.

Rimodula i piani editoriali

Elimina tutti i post inopportuni o che mirino a valorizzare i prodotti dei clienti, specie se durante momenti attualmente sconsigliati, quali l’aperitivo o l’after dinner.

Stop a qualsiasi evento o manifestazione che presupponga un luogo fisico in cui incontrarsi.

Elimina, se in programma, eventi ed altre manifestazioni che non possono, attualmente aver luogo.

Non consigliare di partire

Se gestisci i canali di comunicazione di un’agenzia di viaggi, ad esempio, ricorda che non è possibile al momento partire. Meglio puntare, quindi, su contenuti esperienziali, ricordando viaggi indimenticabili che potranno essere ripresi non appena tutto tornerà alla normalità. Una buona idea potrebbe esser quella di condividere ricette locali dei luoghi visitati e da riproporre, al momento, in casa, magari creando engagement proponendo attività che mirino alla condivisione da parte dei follower.

Evita le battute divertenti (potresti rischiare la gaffe)

Essere divertenti può non essere la strada giusta al momento. Piuttosto informa la tua community delle nuove disposizioni in vigore, fai capire che ci sei e che non abbandonerai i tuoi follower.

Continua le campagne di routine

Non sospendere campagne “di routine”, ma fai vedere che continui a presidiare i tuoi canali digitali. Assicurerai così, la costanza di parametri quali Traffic Generation e Social Engagement in maniera sana, soprattutto in ambito Social Media Marketing. Proponi contest e premia i contenuti migliori, ma sempre invitando tutti a rimanere a casa (presenta badge #iorestoacasa per Instagram Stories: è una possibilità di grande visibilità tra tutti coloro che ne fanno uso, all’interno della piattaforma). Valorizza eventuali promo online per eCommerce.

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Affronta con buon senso la situazione

Controlla le promo attive, rimodulale, e se necessario modificate i messaggi! Utilizza, soprattutto per il mondo del Food&Beverage, dirette live e i vari strumenti che ti permettano di creare webinar per consigli e piccole masterclass. Se gestisci i canali di band musicali, ad esempio, potresti coinvolgere gli utenti in attività di pura brand awareness e, creare delle dirette.

Consiglia sempre di osservare tutte le norme per ridurre potenziali contagi

Ricorda, laddove possibile, che è impegno di tutti adottare le norme attuali per evitare il più possibile nuovi contagi. Il comportamento degli utenti che ti seguono online, specialmente per un brand o un’attività con alto Customer Loyalty (ma non solo), è sicuramente quello di scoprire e monitorare anche l’impegno sociale.

filiera agroalimentare coronavirus

Coronavirus: l’impatto dell’epidemia sulla filiera agroalimentare e sui retailer italiani

  • Con il dilagare dell’epidemia da Coronavirus, sono rapidamente mutate le abitudini degli italiani, alimentari e non
  • Le imprese si sono trovate a doversi reinventare per rispondere al cambiamento dei fabbisogni della popolazione
  • Molti dei cambiamenti in atto sono destinati a rimanere nelle abitudini d’acquisto, anche in una fase successiva

 

Ad un mese dall’inizio della quarantena imposta dal governo per contenere l’epidemia di Covid-19, i mercati si sono trovati a fare i conti con un brusco cambiamento dei fabbisogni della popolazione, che ha fatto emergere l’esigenza di un rapido ripensamento dei modelli di business da parte delle imprese.

Alcune aziende si sono parzialmente o radicalmente reinventate per far fronte alle esigenze attuali. Dalle griffe della moda come Gucci, Prada o Armani, che hanno riconvertito alcuni degli stabilimenti, italiani e non, per la produzione di camici e mascherine da destinare al personale sanitario; ai noti brand di alcolici, tra cui Absolut Vodka, Martini e Bacardi, che si stanno adoperando per soddisfare la domanda crescente di gel disinfettante a base alcolica che scarseggia in farmacie e supermercati.

Per descrivere la fase che stiamo vivendo, vi è stato un ampio utilizzo dell’espressione economia di guerra, spesso contestato come uso improprio.

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Senza addentrarsi troppo in una disquisizione linguistica sulla pertinenza di questa locuzione, possiamo affermare che la situazione attuale presenta senza dubbio delle importanti analogie con un’economia bellica, in termini di necessità di un adeguamento quanto più rapido e tempestivo del sistema economico ai bisogni derivanti dall’emergenza in atto.

Quando si fa fronte ad un’economia di guerra, un ruolo chiave è svolto da quei settori che si trovano a dover fornire beni di prima necessità, primo tra tutti il settore agroalimentare, il cui corretto andamento è di primaria importanza anche per far sì che la paura della scarsità non scateni una corsa all’accaparramento e, di conseguenza, un pericolo per l’ordine pubblico.

L’intera filiera agroalimentare italiana si trova di fronte a un forte aumento della domanda di prodotti alimentari, dato che, stando perennemente in casa, le persone finiscono per cucinare e mangiare di più rispetto a quanto facciano normalmente.

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Gli effetti della pandemia sui consumi e sulla produzione

L’inizio della quarantena non ha cambiato solo le abitudini degli italiani, ma anche i loro carrelli della spesa.

I dati Nielsen evidenziano un calo degli acquisti di prodotti freschi a favore di quelli a lunga conservazione come riso (+33%), pasta (+25%), scatolame (+29%), derivati del pomodoro (+22%).

Il presidente di Confagricoltura, Massimo Giansanti, ha rivolto un invito alla popolazione di preferire i prodotti italiani per salvaguardare la propria salute e al contempo sostenere il Made in Italy, rassicurando i consumatori sul fatto che la filiera agroalimentare continuerà a garantire gli approvvigionamenti e a rifornire i supermercati.

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A questo, si è aggiunto un appello della ministra alle politiche agricole Teresa Bellanova a non rinunciare ai prodotti della tradizione e a continuare a comprare prodotti italiani nell’interesse della salute e dell’economia nazionale: Ai cittadini dico: fate la spesa, seguite le regole di sicurezza e comprate italiano. Oggi più che mai facciamo sentire l’orgoglio di essere uniti, anche quando facciamo la spesa. Noi siamo l’Italia e l’Italia fa bene”.

Ma non è tutto. In un’intervista al Corriere Della Sera, Massimo Giansanti ha parlato in toni allarmanti di una carenza di manodopera, che potrebbe rappresentare un serio pericolo ora che si avvicina la stagione della raccolta nei campi. Con le persone colpite dal virus, quelle in quarantena e gli stagionali stranieri rientrati nei Paesi di origine che non possono tornare in Italia per il blocco della circolazione — ha spiegato — nelle campagne mancano braccia. E siamo in un momento cruciale: si avvicina la stagione della raccolta degli ortaggi e della frutta estiva. Servono almeno 200 mila persone subito”.

Il Ministero dell’Interno ha già accolto la richiesta di Confagricoltura di una proroga dei permessi di soggiorno in scadenza di quei lavoratori immigrati impiegati nella raccolta ortofrutticola.

Ironia della sorte, proprio gli stessi lavoratori a cui fino a non molto tempo fa si volevano chiudere le porte (e i porti) dei confini nazionali.

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Le imprese e la gestione dell’emergenza nella filiera agroalimentare

Un importante punto di partenza per la gestione dell’emergenza, come suggerito da Bain & Company, è quello dell’attivazione di un Emergency team formato da un gruppo ristretto di chief aziendali che lavorino a stretto contatto con manager, amministratori delegati, direttori finanziari, per formulare soluzioni cross-funzionali basate su una valutazioni rapide dei rischi e delle esigenze di mercato.

La tutela della sicurezza di clienti e dipendenti dev’essere sempre al primo posto: incentivando dove possibile il lavoro in modalità smart working e implementando gli strumenti digital per lo sviluppo e l’ottimizzazione degli e-commerce, che in questo momento stanno vivendo un boom (+82%), destinato a rimanere nelle abitudini d’acquisto dei consumatori italiani, anche in una fase successiva.

Come affermato da Duilio Matrullo, potrebbe essere questa l’opportunità per colmare un gap del mercato italiano sul fronte degli acquisti online, rispetto ad altri paesi europei.

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Per i retailer alimentari, l’osservazione delle norme igieniche e di sicurezza deve avere la massima priorità: dalla sanificazione degli ambienti di lavoro e delle superfici, alla riduzione ai minimi termini dei contatti tra le persone e dello scambio di denaro contante.

Per quanto riguarda i prodotti freschi, potrebbe essere opportuno garantire una fornitura locale, limitando quanto più possibile gli scambi inter-regionali e anche adattando i packaging alle esigenze del momento (packaging monoporzione o formato famiglia).

È fondamentale, inoltre, avere delle unità locali che monitorino costantemente da un lato l’andamento dell’emergenza sanitaria e dei contagi, dall’altro i dati relativi agli acquisti dei cittadini. In questo modo, si potrà rispondere con una programmazione dettagliata e aggiornata in tempo reale e da remoto, che risponda prontamente alle richieste della popolazione che, di questi tempi, sono suscettibili di cambiamenti significativi di settimana in settimana.

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Home Working: le nostre case sono pronte al lavoro da remoto?

Emergenza sanitaria. Il Governo chiede ai cittadini di rimanere in casa e invita le aziende a facilitare le persone a lavorare dalla propria abitazione. Non parliamo di un ipotetico futuro fantascientifico, ma del presente. Si passa così in poco meno di una settimana dai 570mila smart worker censiti a ottobre dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, a 8 milioni di home worker.

Dopo quasi un mese trascorso in questa condizione obbligata, è possibile fare le prime valutazioni su vantaggi e svantaggi del lavoro da casa ed è quello che ha fatto l’Osservatorio Copernico sullo Smart Working, nuove tendenze  nei luoghi di lavoro e lifestyle.

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Home Working, Smart Working e le nostre case

L’home working funziona, il sistema sta reggendo ma ormai tutti abbiamo compreso che questo modo di lavorare e lo smart working non sono due facce della stessa medaglia, né due modi diversi di esprimere uno stesso concetto. Semmai il primo può essere una parte marginale del secondo perché praticare lo smart working solo tra le quattro mura domestiche non è efficace.

Se l’home working, grazie alle tecnologie che permettono di essere connessi anche dalla propria abitazione, ha fornito una risposta efficace a una condizione di emergenza, ha creato però anche alcune difficoltà.

Se da un lato la maggiore autonomia e responsabilità ha favorito nel lavoratore un certo senso di appagamento, dall’altro ha reso difficile il work-life balance e, soprattutto per chi abita in città o in un appartamento, la sensazione più comune è stata quella di vivere in una casa che scoppia.

Infatti, se con lo smart working possiamo decidere da dove lavorare e quali attività dedicare alle giornate fuori ufficio, ora siamo costretti a vivere lo spazio domestico in una soluzione di continuità e ad adattarlo perché risponda nel corso della giornata a molteplici funzioni, condividendolo anche con altre persone che possono avere bisogni diversi.

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Come dice Francesco Scullica, architetto, professore del politecnico di Milano e direttore scientifico del Master Interior Design del Politecnico gestito da POLI.design e autore del libro Living, Working, Travelling: “Il nostro spazio domestico è improvvisamente inadeguato: i modelli di open space, di spazi a pianta libera, che ha avvantaggiato negli ultimi anni la zona living a scapito di quella più privata, sono messi in discussione”.

La casa: un modello da rivalutare?

Le case, insomma, non si adattano molto bene al lavoro continuativo da remoto. Dopo anni in cui la casa era stata poco vissuta – soprattutto dai più giovani – a favore di spazi pubblici, luoghi culturali, ristoranti e palestre, ora invece tutto accade nelle quattro mura domestiche e l’intero nucleo familiare è costretto a vivere insieme ogni giorno. E sebbene sia una situazione temporanea (che durerà si spera solo ancora qualche settimana), è pur vero che in futuro l’home working inevitabilmente sarà sempre più diffuso.

Tuttavia, è bene ricordare che lo spazio abitativo è pensato per delle funzioni diverse dal lavoro: non possiamo progettare totalmente l’architettura delle nostre case in funzione dell’home working perché perderebbero la loro funziona principale: quella di accogliere noi e le nostre famiglie nei momenti informali, di relax, di vita domestica condivisa.

“La casa non può sostituire completamente un ufficio o uno spazio di coworking. Spesso per ragioni tecnologiche, ma soprattutto per la mancanza del fattore umano. Gli uffici sono infatti spazi relazionali dove si costruiscono comunità. Sono luoghi di incontri, opportunità e scambi di idee, sono acceleratori di relazioni. Ma è probabile che si lavorerà uno o due giorni a settimana da casa” continua Scullica.

E allora, come possiamo organizzare al meglio il lavoro da casa?

In questo specifico frangente, laddove possibile, si è optato per adibire una stanza o un angolo della casa per l’attività lavorativa (magari con una scrivania, una sedia ergonomica e la giusta illuminazione) ma è il massimo che si è potuto fare in una situazione di quarantena.

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Ripensare, trasformare, rendere flessibile

Se vogliamo in un futuro rendere le nostre case più adatte ad accogliere alcune nostre giornate lavorative, possiamo provare a ripensare la distribuzione degli spazi, in particolare la suddivisione tra quello pubblico e quello privato.

“Dovremmo innanzitutto stabilire quali potrebbero essere le stanze della casa aperte a tutti, sempre, e quali gli spazi dedicati al raccoglimento e al lavoro individuale” – ha dichiarato Isadora De Pasquale, architetto progettista di Copernico – “Non sarà come lavorare da un ufficio attrezzato o da uno spazio dedicato allo smart working – che abilita il networking, offre eventi e servizi, favorisce la creatività – ma sicuramente diventerà parte di un progetto più ampio che unisce agli uffici flessibili o agli uffici delle proprie aziende anche un momento tra le quattro mura di casa”.

La parola d’ordine del futuro nell’interior design sarà insomma flessibilità, negli spazi e negli arredi. Se negli ultimi anni il lavoro di architetti e designer si era concentrato per rendere gli uffici adatti sia al lavoro sia alle relazioni, in funzione di un migliore bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa, ora è il momento di fare lo stesso all’interno delle nostre abitazioni.

Ecco allora qualche proposta del Prof. Scullica e dell’Arch. Isadora De Pasquale per trasformare (dove possibile) le nostre case in funzione dell’home working, che sempre più farà parte delle nostre abitudini.

Trasformare la casa in un ufficio?

Se trasformare la casa in un ufficio è impossibile, possiamo però quantomeno cercare di trasferire in casa alcune delle buone pratiche che solitamente adottiamo nell’arredamento funzionale degli uffici. Ecco alcuni esempi:

  • Avere uno spazio personale dedicato al lavoro. Se in ufficio questo si traduce, nella maggior parte dei casi, in una scrivania, in casa significa trovare un angolino che possiamo allestire appositamente. Può essere anche uno spazio molto piccolo, ma deve essere accogliente e confortevole, adeguato al lavoro. Uno spazio in cui non ci siano disturbi esterni, per quanto possibile. E non dimentichiamoci di creare anche uno sfondo adatto alle videoconferenze! Lo sfondo dice molto di noi e delle nostre abitudini.
  • Dare importanza ai luoghi di transizione. Come le hall negli uffici, gli spazi condivisi e i corridoi sono luoghi “neutri” in cui la mente può cambiare orizzonte e riposare: Anche se si lavora da casa è bene avere uno spazio di transizione simile. Inevitabilmente, molto spesso nelle abitazioni questa funzione è svolta dall’ingresso e dai corridoi tra le stanze. Che riacquisiscono così l’importanza che avevano perso nel tempo, tanto che in molte case oggi vengono aboliti in virtù della creazione di soggiorni open più ariosi. Ecco che nella situazione attuale, l’ingresso delle case diventa fondamentale, perché funge da filtro, sia verso l’esterno, ma soprattutto rispetto alle altre stanze della casa (così come i corridoi). Diventeranno i “cuscinetti” tra la zona di lavoro e il resto dell’abitazione, e miglioreranno il famoso work-life balance.
  • Scegliere arredi ergonomici per le zone di lavoro, senza rinunciare però allo stile della propria casa. È importante ricordare ancora una volta che una cosa è l’ufficio, altra cosa è la casa: questa distinzione resterà fondamentale alla fine di questa emergenza, quando potremo tornare ai nostri usuali luoghi di lavoro. Quindi, la scelta migliore sarà, da un lato, rendere confortevole il luogo della casa deputato al lavoro – con una seduta adatta, uno schermo sufficientemente grande e una scrivania della giusta altezza – ma, dall’altro, non dimenticare che i colori e i materiali di questa zona devono integrarsi con quelli dell’abitazione, per non spezzare l’armonia generale dell’arredamento.
  • Scegliere arredi flessibili e mobili può essere un’idea funzionale agli spazi più piccoli o più aperti. Ad esempio, tavoli che possono essere anche scrivanie o sedute leggere che possono essere spostate facilmente. Non tutti hanno la possibilità di creare uno spazio dedicato esclusivamente al lavoro, ma già cambiare la sedia o trasformare il tavolo può aiutare la concentrazione.
    Introdurre degli elementi di verde. Piante verdi da interno, fiorite o grasse, oppure una vista dalla finestra su un parco o un giardino (per i più fortunati): gli elementi naturali aiutano la concentrazione, stimolano la creatività e l’energia. Dovrebbero essere presenti in ogni ufficio e in ogni casa.
  • Infine, ricordiamoci che anche l’arte è un acceleratore di creatività. In questi giorni di quarantena si possono sfruttare i tour virtuali messi a disposizione da tanti musei, ma si potrebbe anche pensare di introdurre elementi artistici in casa, come fonte d’ispirazione. Perché la bellezza, in casa o in ufficio, non è mai abbastanza.
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Come cambiano le abitudini di acquisto dei consumatori durante l’emergenza Covid-19

  • Global Web Index a fine Marzo ha condotto uno studio, basato su 12.845 utenti in 13 mercati, per capire come i comportamenti di acquisto si stanno modificando durante la crisi e cosa significa questo cambiamento per i Brand.
  • Il 22% dei consumatori globali afferma di aver annullato i viaggi programmati all’estero mentre il 35% ha annullato i viaggi programmati all’interno del proprio Paese.
  • Le maschere di protezione per il viso (45%) e il gel disinfettante per le mani (30%) sono i due articoli che i consumatori hanno maggiore difficoltà ad acquistare in tutti i Paesi del mondo.

 

Metà della popolazione mondiale è in stato di quarantena a causa della pandemia da Coronavirus, con più di un milione di contagi registrati a inizio aprile.

90 Paesi in tutto il mondo sono obbligati ad affrontare delle sfide impensabili a livello sanitario, economico e soprattutto social: la quotidianità delle nostre vite è cambiata e non esiste un’azienda, un governo o una singola persona che non abbia risentito degli effetti dell’emergenza Covid-19.

Ma qual è il risultato sulle abitudini di consumo?

Uno tra i tanti impatti stravolgenti della pandemia riguarda le abitudini di acquisto dei consumatori, ovviamente a causa del lockdown obbligato e della chiusura di migliaia di attività. 

Quali sono gli effetti registrati attualmente nei vari settori? Analizziamo lo studio condotto a fine marzo dal Global Web Index, basato su 12.845 utenti in 13 mercati, per capire come i comportamenti di acquisto si stanno modificando durante la crisi e cosa significa questo cambiamento per i brand.

Il crollo inevitabile del settore del Turismo

Ovviamente il primo settore a risentire massivamente della crisi è quello turistico, tra cancellazioni di voli e crollo degli acquisti di nuovi biglietti, annullamento di prenotazioni presso hotel e resort, contando anche la chiusura delle agenzie di viaggio.

Risulta infatti che il 41% dei consumatori a livello globale abbia deciso di ritardare l’acquisto di un futuro viaggio, dato che sale al 53% solo in Cina. In particolare, 1 consumatore su 4 evita di comprare biglietti aerei al momento.

Inoltre, il 22% dei consumatori globali afferma di aver annullato i viaggi programmati all’estero mentre il 35% ha annullato i viaggi programmati all’interno del proprio Paese.

In generale, è interessante notare come i consumatori Giapponesi siano i  meno ottimisti tra tutti i mercati interessati per quanto riguarda la ripresa mondiale dei mercati dall’epidemia di Coronavirus.

abitudini di acquisto covid 19

Il settore del Luxury sta perdendo colpi

In questo periodo di quarantena, anche la parte di popolazione più ricca del mondo è costretta a passare le sue giornate in casa in pigiama. Ed è così che anche il settore del Luxury si vede influenzato dalla crisi, con un 15% dei consumatori intervistati che ammette di evitare l’acquisto di articoli di lusso in questo periodo.

Un duro colpo soprattutto per i brand che operano principalmente in Cina, in quanto il paese domina attualmente il mercato degli acquisti di lusso.

Anche l’età risulta essere un fattore determinante in questa tipologia di acquisti, con la Gen Z più propensa a ritardare le spese più costose a causa del loro livello di reddito solitamente medio-basso rispetto alle precedenti generazioni.

I beni di prima necessità sono i più ricercati

Basta andare a fare la spesa al supermercato per capire come sono cambiate le abitudini di acquisto e che i beni di prima necessità sono attualmente in cima alla lista degli acquisti di tutti i consumatori, comportamento dettato principalmente dalla paura e dal timore di rimanere senza provviste. 

Il 45% dei consumatori di tutto il mondo, infatti, ammette di aver fatto scorte di cibo e bevande, seguiti da carta igienica e prodotti per la pulizia.

Molti rivenditori, dai piccoli negozi alle grandi catene di supermercati, stanno lottando per stare al passo con la velocità – e quantità – di acquisto dei prodotti, ma spesso si trovano in difficoltà e in mancanza di scorte sufficienti.

Le forniture mediche sono quasi introvabili

Ovviamente le maschere di protezione per il viso (45%) e il gel disinfettante per le mani (30%) sono i due articoli che i consumatori hanno maggiore difficoltà ad acquistare in tutti i Paesi del mondo.

Le ricerche di Google di disinfettante per le mani hanno subito un’impennata negli ultimi due mesi, mentre in molte farmacie e negozi sono introvabili.

Inoltre, venditori online come Amazon e Walmart hanno approfittato dell’aumento della domanda per incrementare i prezzi di vendita di questi prodotti, ricevendo severe critiche dalle associazioni a tutela dei consumatori in tutto il mondo.

Al contrario, alcuni brand hanno rivoluzionato la loro attività produttiva per dare una mano, come LVMH che ha iniziato a produrre disinfettanti per le mani e SpaceX che sta realizzando gel e maschere per il viso da donare agli ospedali che ne hanno bisogno.

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Quando si tornerà alla normalità?

Per chiunque è abbastanza chiaro che il ritorno alle abitudini di acquisto tradizionali è ancora lontano, se mai avverrà del tutto. 

Comprensibilmente, il 40% degli intervistati afferma che sta rimandando gli acquisti più importanti alla fine della quarantena nel proprio Paese, mentre il 20% aspetta che la situazione si stabilizzi in tutto il mondo.

Qual è il ruolo dei brand in questo momento di crisi globale?

Oggi più che mai nella storia, i consumatori si aspettano che i brand entrino in azione per aiutare, come possono. 

Come prima cosa, l’80% degli intervistati si trova d’accordo sulla chiusura dei negozi “non essenziali” – dato che arriva al 93% in Italia e Spagna, due dei Paesi più colpiti al mondo dalla pandemia.

Dall’altro lato, ai grandi e piccoli brand viene chiesto di adattarsi alla condizione sociale attuale, rispondendo in maniera attiva alle necessità dei consumatori.

Questo vuoi dire cambiare le loro strategie di comunicazione, così come facilitare la fruizione di contenuti e servizi online, o rafforzare l’home-delivery – sempre con la massima attenzione alle persone implicate nel processo.

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Oltre le abitudini di acquisto: le persone rimangono generalmente ottimiste

Uno studio parallelo, condotto sempre dal Global Web Index, riporta che i livelli di ottimismo e di preoccupazione per il proprio Paese, tra i consumatori intervistati, variano notevolmente tra i diversi mercati, ma generalmente prevalgono gli ottimisti.

Questo cosa significa? Che non solo i governi e le istituzioni ma anche i brand sono chiamati a impegnarsi per favorire un clima di ottimismo attraverso le loro strategie di comunicazione.

big data e gestione umana

Che cos’è la Big Data Analytics, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi ,sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

 

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato

Antonio Picariello, docente di Sistemi per l’elaborazione dell’informazione presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e di Tecnologie dell’Informazione) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II ed esperto di Big Data Analytics.Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Dove andremo a finire? Beh, il sistema di Big Data permette di fare previsioni, ma i miei algoritmi non sono ancora così accurati. Devo dire che sicuramente è un fenomeno che è nato, che è in continua evoluzione, e che non potrà sicuramente avere fine. Vivrà un continuo sviluppo, in svariati campi di applicazione e in diversi domini applicativi”, questo il pensiero del Prof. Picariello, esperto di Big Data, che ha una visione positiva rispetto all’utilizzo dei dati anche per quanto riguarda le piccole e medie imprese, che dovrebbero “cercare di capire quale aspetto del proprio processo produttivo può essere migliorato con l’Analytics dei dati. E quindi fare un’analisi serena di quelli che sono i propri processi produttivi, ma soprattutto di quello che è il mercato. A partire da questo, un buon team di Data Scientist, necessariamente formato da tecnologi, ma anche e soprattutto da esperti del dominio applicativo, riuscirà ad indirizzare quelle che sono le principali tecnologie che potranno essere usate”.

Sui limiti di tale tecnologia ritiene che “il grosso problema non è tecnologico, non è economico, ma dal mio punto di vista riguarda un cambio di mentalità. Un cambio di mentalità che deve necessariamente investire i manager e chi gestisce le PMI. Capire insomma che questi dati non devono essere persi, ma possono venire riutilizzati per migliorare il processo stesso. Se avverrà questo salto di mentalità, legato ai bassi costi e alla capacità oramai di uso di algoritmi sempre più performanti, per alcune tipologie di mercato, sono certo che le PMI colmeranno velocemente il loro gap con le Big Company”.

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Approfondimenti

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Al giorno d’oggi, l’accesso a Internet è considerabile un bene di prima necessità e la connessione ha raggiunto livelli di quasi ubiquità su scala globale. Difatti, secondo il Global Digital Report 2019, resoconto annuale circa i comportamenti di consumo nell’ambito delle tecnologie informatiche e digitali, gli utenti Internet sono cresciuti- e crescono- a un ritmo esponenziale, dando forma ad uno scenario planetario sempre più digitale e interconnesso.

Secondo il report, realizzato dalla creative agency internazionale We Are Social e dalla piattaforma di social media management Hootsuite, oggi gli utenti di Internet sono circa 4,39 miliardi, con un aumento del 9% (366 milioni) rispetto a gennaio 2018; inoltre, globalmente si registrano circa 5,11 miliardi di utenti unici di telefonia mobile, con un incremento nell’ultimo anno del 2% (vale a dire circa 100 milioni). 

La novità fondamentale degli ultimi anni, infatti, è la diffusione delle tecnologie digitali ed informatiche mobile (dispositivi come smartphone e tablet) e l’estensione della connettività a Internet a device fisici e di uso quotidiano, i quali vanno a formare vanno a formare il cosiddetto Internet of Things: il sistema composto da tutti i dispositivi connessi alla rete Internet che, grazie a tale connessione, possono interagire fra di loro ed essere controllati on remote.

Nel mondo dunque, si registra una crescita esponenziale e continua dei dispositivi che si servono della connessione a Internet per comunicare fra di loro e con gli utenti. Tali devices connessi funzionano anche come data points: ovvero, essi sono costantemente impegnati nella produzione, nella raccolta e nella condivisione di grandi quantità di dati in formato digitale.

È proprio per questo motivo che oggi si suole parlare di Big Data

Con l’espressione big data ci si riferisce alla vasta mole di dati che viene continuamente prodotta dai devices digitali connessi. Si tratta di dati in formato digitale di natura multimediale che possono essere sia strutturati (provenienti da database) che non strutturati (non provenienti da database). 

Il modello utilizzato dalla comunità scientifica internazionale per descrivere i big data è quello delle cosiddette ‘4+1 V’ : volume, variety, velocity, veracity, value (dove le prime quattro ‘v’ sono, rispetto all’ultima, di natura più strettamente tecnica).

Il termine volume (‘volume’), dunque, fa riferimento alla quantità di dati generati ogni secondo da sorgenti eterogenee: esseri umani, sensori e dispositivi mobili generano un‘enorme quantità di dati, il cui volume si espande fra il 50 e il 60% ogni anno. Secondo l’International Data Corporation nel 2020 esisteranno 40 zettabyte di dati (6 terabyte di dati per ogni persona vivente).

Con variety (‘varietà’) ci si riferisce alla grande diversità nella tipologia dei dati generati, raccolti ed utilizzati: essi infatti sono incredibilmente eterogenei fra di loro, essendo provenienti da una serie di fonti diverse, come web server, dati di borsa o dati ricavati da attività e interazioni social. In particolare la caratteristica della varietà è necessaria a sottolineare una delle principali novità dell’epoca dei big data, vale a dire il fatto che- a differenza di quanto avveniva precedentemente- oggi si prendono in considerazione anche dati semi strutturati e non strutturati, al fine di avere risultati d’analisi più accurati e profondi circa gli specifici fenomeni.

Il termine velocity (‘velocità’) fa riferimento alla rapidità con cui questi dati vengono prodotti, raccolti e trasmessi (il che, è chiaro, incide notevolmente sul volume: vale infatti la pena notare che le caratteristiche dei big data sono strettamente legate fra loro e inscindibili l’una dall’altra). La velocità, inoltre, è componente essenziale anche per la fase finale del ciclo di vita dei big data, vale a dire l’analisi: proprio per via del rapido tasso di crescita e, in generale, di cambiamento di statistiche e informazioni, è essenziale che i dati vengano raccolti e analizzati in tempo reale, al fine di non realizzare analisi i cui risultati vadano rapidamente incontro all’obsolescenza. 

Con veracity (‘veridicità’) si vuole indicare la precisione e l’esattezza dei big data: considerata la quantità e la varietà dei dati prodotti e scambiati e la velocità con cui si sommano gli uni agli altri, sarebbe impensabile non prendere in considerazione la qualità delle informazioni analizzate, poiché i risultati delle analisi sempre più spesso e in maniera decisiva condizionano processi decisionali di aziende, organizzazioni e istituzioni. 

Infine, l’ultima delle v è quella che rappresenta il value (letteralmente ‘valore’) legato ai big data. I big data hanno un grande potenziale in termini di generazione di vantaggio competitivo: essi producono valore poiché permettono di semplificare una serie di operazioni- o addirittura di realizzare task prima ineseguibili- attraverso l’informazione. Oggi si diffonde, infatti, l’Industrial Internet (anche detto Industry 4.0), ovvero il sottosistema dell’Internet of Things che si riferisce implementazione negli ambienti industriali con macchinari, dispositivi e software che permettono la comunicazione machine to machine (M2M, cioè fra i macchinari); human to machine (H2M, tra uomo e macchina); machine to smartphone (M2S, vale a dire tra macchina e smartphone). Così come l’IoT, di cui può essere considerato una componente, il sistema che si sviluppa con l’Industry 4.0 si basa estensivamente sulla capacità di raccogliere dati e trarre valore da questi analizzandoli: oggi si parla infatti di value of perfect information (cioè il valore dell’informazione perfetta) per indicare la capacità di ottimizzare i processi relativi alla raccolta e all’analisi dei dati, al fine di ricavare una conoscenza dei vari fenomeni osservati più immediata, approfondita e affidabile.

Con l’aumentare dei dati prodotti aumenta il loro potenziale in termini di conoscenza e, di conseguenza, aumenta il loro essere risorsa economica (ma anche sociale, politica e culturale) di primaria importanza.

Già da diversi anni- con la prima ondata della Rivoluzione Digitale, vale a dire con la prima diffusione globale di Internet- la letteratura sociologica ha introdotto la categoria temporale del Postindustriale. La principale novità di tale periodo rispetto al precedente – sulla quale si imperniano le ulteriori differenze- sarebbe proprio il fatto che il focus, prima posto sul consumo di beni e prodotti, oggi è costituito dall’informazione, la quale assurge a risorsa di sconfinata importanza e che esercita un’influenza decisiva sia nell’ambito del quotidiano che in quello dell’impresa. 

Data Science: analisi e applicazioni dei Big Data

Il valore dei big data è dunque legato all’utilizzo che ne viene fatto, vale a dire alla loro analisi. I processi di analisi che fanno parte della disciplina definita come data science consentono di estrarre informazioni dalle grandi moli di dati al fine di ricavarne supporto per guidare i processi decisionali; monitorare logistica e attività; elaborare modelli di reazione a imprevisti; valutare performance e tanti altri task. 

È possibile distinguere diverse tipologie base di Big Data Analytics applicate all’ambito del business: descriptive analytics; predictive analytics; prescriptive analytics.

La descriptive analytics (cioè l’analisi descrittiva) impiega gli strumenti analitici al fine di descrivere la situazione passata ed attuale del contesto di riferimento. Tale modello costituisce una risposta alla domanda ‘cosa è accaduto? /cosa sta accadendo?

La predictive analytics (analisi predittiva) è un modello atto a rispondere a domande circa il futuro e a restituire previsioni sulle possibili circostanze realizzabili. Essa è dunque volta a rispondere alla domanda ‘cosa è probabile che accada?’.

Infine, c’è la prescriptive analytics (analisi prescrittiva): anch’essa, come la precedente, getta uno sguardo al futuro e, nello specifico, si caratterizza per l’obiettivo di restituire soluzioni operative e strategiche sulla base delle analisi eseguite. Risponde dunque all’ipotetica domanda ‘come fare che questo accada?’.

Sebbene l’analisi dei dati non sia una disciplina completamente nuova, ciò che costituisce la novità risposta al passato è la grande disponibilità dei dati, la quale permette di applicare modelli più sofisticati e avere quindi risultati molto più accurati che in passato.

Il Professore Antonio Picariello, docente di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e di Tecnologie dell’Informazione) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sostiene che la vastità della mole di dati oggi disponibile è destinata a cambiare il mondo della ricerca e quello dell’impresa. La quantità delle informazioni continuamente prodotte sia dall’interazione degli oggetti connessi sia sotto forma di user generated content, è un fattore determinante – anche se non l’unico- nel dare forma e caratterizzare la moderna data science. Nel caso dei big data, dunque, la maggior parte delle volte bigger significherà anche smarter poiché, secondo Picariello, i grandi dataset permetteranno agli algoritmi di lavorare meglio, tollerando gli errori e scoprendo le long tails (modelli di distribuzione diffusi) e i corner cases (casi isolati e specifici). 

Più dati, di contro, significa (e significherà sempre di più) anche più problemi: maggiore eterogeneità da gestire, necessità di software e algoritmi più potenti, esigenza di sistemi di storage più capienti ed efficienti e, soprattutto, urgenza di misure di protezione della privacy estese e funzionali. 

In questo quadro, un approccio fondamentale sembra essere quello della collaborazione fra enti e organizzazioni: il modello peer-to-peer, l’ottica collaborativa e la logica open source costituiscono infatti un’importante risorsa per le imprese e le istituzioni che mirano a ottimizzare il loro operato nell’ambito della data science, come testimonia ad esempio la diffusione della piattaforma Apache Hadoop: si tratta infatti di un ormai popolare set di software utilities open-source il cui obiettivo è quello di facilitare l’utilizzo di una rete di calcolatori per risolvere problemi che implicano vaste quantità di dati.  

La vera sfida, dunque è comprendere l’utilità della mole di dati che ingloba il nostro pianeta in una rete interconnessa e, soprattutto, ottimizzare strumenti, metodi e modalità di sfruttamento. D’altronde- sostiene Picariello- ‘i dati hanno preso il posto del petrolio’ ma, a differenza del combustibile fossile estratto e sfruttato allo sfinimento nel corso dell’ultimo mezzo secolo, i dati possono essere considerati una risorsa rinnovabile e sostenibile. 

Vale dunque la pena di intensificare e proseguire le ricerche sul loro utilizzo. Bisogna inoltre che divulgare l’informazione in tale ambito e, da parte delle aziende, vi è la necessità di puntare sulle competenze specifiche di quello che dall’Harvard Business Review è stato definito come ‘The Sexiest Job of 21st Century’: quello del Data Scientist.

influencer marketing

Insidie e opportunità dell’Influencer Marketing ai tempi del Coronavirus

  • Nell’emergenza COVID-19, all’aumento della presenza di un pubblico disposto ad ascoltare corrisponde una drastica riduzione delle cose da dire;
  • Oggi le persone sono disposte ad ascoltare solo chi si fa portavoce di valori autentici, chi sfrutta la propria influenza per inviare messaggi di solidarietà, per promuovere iniziative benefiche, o per creare contenuti confortanti.

 

In un momento storico come questo, unico per la nostra generazione, caratterizzato da uno scenario sociale profondamente surreale, cosa può davvero attrarre l’attenzione degli utenti? Su quali punti di attenzione (e influenza) si può davvero capitalizzare?

Partendo da questa riflessione, non è difficile comprendere quanto un settore come quello dell’Influencer Marketing, la cui fortuna deriva fondamentalmente dal binomio emulazione e ispirazione, soffra particolarmente in questo momento di distanziamento sociale. Può sembrare paradossale che, nonostante l’audience sui social sia aumentato considerevolmente in questi giorni di reclusione, un lavoro totalmente digitale come quello dell’influencer possa risentirne.

Eppure, è esattamente quello che sta accadendo: all’aumento della presenza di un pubblico disposto ad ascoltare corrisponde una drastica riduzione delle cose da dire, o meglio, di fronte a una situazione di emergenza nazionale che vede la vita di migliaia di persone messa a repentaglio, nessun argomento sembra abbastanza pertinente.

Fare la differenza per non diventare indifferenti

In un periodo così delicato, dove ogni utente – che da qui in avanti definiremo semplicemente persona – è vulnerabile e teso come una corda di violino, è facile trattare argomentazioni fuori luogo, dare pareri non richiesti o, per fare un esempio, venire criticati per aver cercato di scampare la quarantena volando ai Caraibi o in Colombia. Le interazioni sono tante, ma non si possono monetizzare, le travel blogger non possono viaggiare, le fashion blogger non possono sfoggiare abiti all’ultimo grido in locali modaioli: così, tutto quel mondo patinato e costruito lascia spazio alla profonda desolazione di una popolazione ferita, reclusa, che si è dovuta fermare – e non solo letteralmente – a riflettere sui veri valori della vita.

Ed è solo chi si fa portavoce di valori autentici che merita di essere ascoltato, seguito e condiviso; chi sfrutta la propria influenza per inviare messaggi di solidarietà, per promuovere iniziative benefiche e lo fa gratis. Ancora una volta, è Chiara Ferragni a distinguersi per la sua capacità di ascoltare e capire i bisogni della società, di dare sfoggio al suo capitale più importante – quello umano, parlando alle persone e non agli utenti.

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influencer

Stay-Home Economy

La diffusione del COVID-19 ha spinto ognuno di noi a doversi riadattare a nuovi schemi comportamentali, nuove abitudini d’acquisto e di intrattenimento. La cosiddetta “Stay-Home Economy” ci ha in qualche modo obbligati a digitalizzare anche quei comportamenti che era normale esercitare sul territorio.

Quale sarà il ruolo che gli influencer dovranno ritagliarsi in questo nuovo mondo? Senza dubbio sarà necessario far fronte a una serie di bisogni tutti nuovi, lato consumatori.

La prima cosa da tenere in considerazione è il timore di quale sarà la portata del contraccolpo economico che conseguirà da questa situazione: ci troveremo a dovere fronteggiare un periodo di austerità economica per cui non sarà più efficace promuovere viaggi costosi o stili di vita da star, ma sarà necessario confortare le persone, intrattenerle e cercare, a poco a poco, di ricreare una domanda commisurata al loro potere d’acquisto.

Tuttavia, anche se la maggior parte dei brand è riluttante nell’investire in pubblicità in un momento in cui si può facilmente incorrere in ritardi e intoppi nella produzione e nella reperibilità dei propri prodotti o servizi, è fondamentale mantenere viva una relazione con i propri consumatori. Per questo, i marchi si stanno chiedendo come comunicare in modo intelligente – e, ora più che mai, umano – alle persone.

Ed è qui che gli influencer, in quanto persone prima ancora di essere considerati dei media, possono svolgere un ruolo importante. In qualche modo, gli influencer hanno l’occasione per recuperare valore e credibilità, per rilanciare una comunicazione genuina e quasi familiare, che possa assomigliare più al consiglio di un amico che a una réclame fatta unicamente a scopo di lucro, senza nessun senso critico.

social commerce instagram

Shopping online

L’eCommerce diventa l’unico mezzo disponibile per l’approvvigionamento di beni di varia natura, utili o indispensabili che siano. Nella mente del consumatore fare shopping online slitta dal concetto di “comodità” a quello di “essenzialità”.

Per questo, gli influencer hanno la possibilità di guidare in modo davvero efficace le vendite online, andandosi a sostituire ai mezzi tradizionali di contatto con il consumatore (cartelloni, vetrine, …) e accentrando su di sé in modo inedito tutta la sua attenzione. Per dirlo con una metafora: lo scrolling del nostro feed Instagram si sostituisce alla passeggiata domenicale per le vie dello shopping e così l’Influencer Marketing dovrebbe ritrovare nuova centralità anche nelle strategie.

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Il segreto dell’Influencer Marketing sta nel contenuto

Adattarsi al cambiamento per l’Influencer Marketing non significa solo sfruttare l’aumento dello shopping online, ma anche tener conto del fatto che, mai come oggi, le persone accedono ai propri social media alla ricerca di contenuti creativi e confortanti, tramite cui poter fuggire dalla realtà. Significa osservare i trend di comportamento che si sviluppano spontaneamente online e cavalcarli: ad esempio, la tendenza a dedicarsi a cucinare manicaretti per allietare la propria permanenza, a tempo ancora indeterminato, tra le mura di casa può essere orientata e influenzata dai food blogger.

Questo tipo di contributo assume un valore che va ben oltre la mera idea del produrre una videoricetta per rispondere a un bisogno temporaneo degli utenti, ma si traduce nell’opportunità di farsi notare in un momento in cui le persone sono iper connesse e, soprattutto, di farsi apprezzare e ricordare.

influencer

Una ricetta ben fatta, ad esempio, avrà buone possibilità di venire salvata in una Raccolta Instagram, insieme al profilo del suo autore, per poi essere ripresa più volte in futuro. Un ottimo esercizio per mantenersi in forma durante la quarantena può essere condiviso con i propri amici, un canale che produce una serie di contenuti di qualità, interessanti per il target a cui parla (ad esempio, dei consigli per una beauty routine da sfruttare in questo periodo di non esposizione a smog e altre sostanze dannose per la pelle), verrà sicuramente tenuto in conto anche una volta che questa situazione peculiare si sarà conclusa.

Insomma, in un momento in cui le persone sono iper-connesse ma più sensibili ai contenuti, la strategia vincente non è necessariamente tacere, bensì rivedere la propria comunicazione, renderla più umana ed empatica, per essere (davvero) ricordati.

Che cos’è l’Intelligenza Artificiale, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0” è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Silvia Rossi, Assistant Professor al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione e Co-chief del PRISCA Lab – Intelligent Robotics and Advanced Cognitive System Projects.

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

La Prof.ssa Silvia Rossi ritiene che l’intelligenza artificiale “non può essere semplicemente una keyword che va di moda”, questo soprattutto in riferimento agli ambiti di applicazione per le imprese, infatti sostiene: “L’aspetto cruciale sta nel fatto che non si fa realmente comprendere alle aziende quali tipi di problemi potrebbero essere risolti, quali sono i reali campi di applicazione e quali aspetti un’azienda potrebbe migliorare grazie all’utilizzo dei sistemi di Machine Learning o Artificial Intelligence. Diciamo che, secondo il mio parere, l’utilizzo che se ne fa a livello industriale e aziendale è ancora minimo, è molto basso. Ma la mia idea è che nel prossimo futuro ci sarà una grossa rivoluzione in quest’ambito dovuta, appunto, all’utilizzo di sistemi di automazione e sistemi di Intelligenza Artificiale”.

E ancora, a proposito del laboratorio PRISMA aggiunge: “Molte delle tematiche che affrontiamo in questo laboratorio, in realtà, hanno una ricaduta nell’ambito di quella che chiamiamo Industria 4.0, perché la possibilità di poter interagire con l’uomo e aumentare le capacità di un processo produttivo (sia dal punto di vista dell’efficienza che dell’esperienza del lavoratore) può essere sviluppata tenendo conto di algoritmi di apprendimento automatico, oppure dei cosiddetti metodi di Machine Learning, in cui tanti dati e tanti esempi vengono dati in pasto ad una macchina che è in grado di generalizzare sulle caratteristiche e di apprendere quali sono quelle più rilevanti per un determinato argomento. Questo dà la possibilità alla macchina di poter interagire con l’utente in tempo reale e comprendere cosa quest’ultimo vuole, come poterlo aiutare”.

Poi avverte anche sui possibili rischi: Sono le piccole aziende che devono capire come tutelarsi, ma anche noi dobbiamo capire come proteggere la nostra privacy, oppure come fornire i dati soltanto a chi vogliamo e come vogliamo, quindi in maniera più oculata, in modo tale che, chi ne ha bisogno, può avere l’usufrutto di questi dati”.

Sulla possibilità di un approccio mediterraneo all’innovazione, la ricercatrice ritiene che c’è una caratteristica dell’essere mediterraneo, ovvero la capacità di essere flessibile, che è proprio una delle cose che cerca l’AI, cioè rendere i processi flessibili ed adattabili all’uomo. Quindi è proprio in questo incontro con l’uomo che io vedo la visione mediterranea dell’Industria 4.0: l’interazione e la possibilità che macchina e uomo siano entrambi flessibili e possano trovare dei compromessi durante l’esecuzione dei compiti”.

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Approfondimenti sull’Intelligenza Artificiale

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’Intelligenza Artificiale– anche conosciuta con il suo acronimo AI– può essere generalmente indicata come l’intelligenza delle macchine. Questa espressione si riferisce a quei sistemi che vengono dotati di software in grado di incrementare l’automazione, la capacità di decision making e quella di elaborazione contestuale della specifica macchina o dispositivo.

Per automazione si intende la realizzazione di una tecnologia e la sua implementazione al fine di controllare e monitorare -in maniera autonoma appunto- la produzione e l’erogazione di beni e servizi: si tratta, generalmente, di compiti precedentemente eseguiti dagli esseri umani. La capacità di decision making, invece, consiste nella facoltà della macchina di trovare soluzioni e reagire correttamente a imprevisti, emulando l’attitudine decisionale umana. Infine, la capacità di elaborazione contestuale, consiste nel carpire più informazioni possibile riguardo al contesto di riferimento del dispositivo e si divide in contestualizzazione passiva (monitorare continuamente l’ambiente e raccogliere informazioni); contestualizzazione attiva (monitorare, raccogliere informazioni e reagire in base a queste); personalizzazione (comportarsi sulla base delle preferenze dell’utente specifico). 

La branca della computer science che si occupa dell’AI mira dunque a progettare e produrre macchine intelligenti di diversa tipologia, in grado prima di tutto di detenere informazioni: sono infatti le grandi quantità di informazioni a costituire il bagaglio di conoscenza delle macchine, e sono fondamentali perché esse possano agire e reagire sul modello umano. Inoltre, tali dispositivi devono essere in grado di condurre operazioni di problem solving, percepire le caratteristiche del contesto circostante, manipolare oggetti ed eseguire tanti altri task diversi. 

Uno dei principali settori del campo dell’AI riguarda il Machine Learning- anche conosciuto con l’acronimo ML– ovvero il sistema attraverso il quale le macchine imparano a gestire nuove situazioni, grazie all’analisi dei dati, l’allenamento, l’osservazione e l’esperienza. È proprio grazie al Machine Learning che è possibile avere computer sempre più intelligenti.  

La ricerca e le applicazioni dell’AI

Oggi gli studi sull’Intelligenza Artificiale costituiscono il cuore dell’innovazione tecnologica grazie alla vastità e alla varietà degli ambiti di applicazione dei sistemi che se ne servono. L’Artificial Intelligence può essere implementata in una serie di dispositivi diversi e per vari utilizzi. Ciò appare evidente dall’osservazione di una delle realtà di ricerca più avanzate ed innovative del panorama italiano: il PRISCA Lab del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione (DIETI) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. 

Il PRISCA Lab (Projects of Intelligent Robotics and Advanced Cognitive Systems), che si definisce come una realtà che promuove attivamente ‘la connessione umana tra studenti e ricercatori’ è un laboratorio di ricerca riguardo le avanguardie tecnologiche e la loro implementazione per progetti innovativi, come per i social robots Pepper, Nao e Sanbot, solo alcuni dei dispositivi robotici che il laboratorio ospita al suo interno.

Questo laboratorio, che rientra nel più ampio progetto dell’ ICAROS Center (Interdepartmental Center for Advances in Robotic Surgery), comprende un’ampia gamma di attività di ricerca che ruotano attorno allo sviluppo di sistemi dotati di Artificial Intelligence: Machine Learning, interazione H2M (Human to Machine), Mobile Robotics

A colpire maggiormente, però, è la quantità e soprattutto la varietà degli ambiti di applicazione per tali tecnologie, tra cui spiccano il Cultural Heritage (beni culturali), l’e-Health (la salute), quello relativo alle Smart Cities e quello dell’implementazione delle tecnologie per la Gamification (vale a dire l’utilizzo di elementi e modelli mutuati dai giochi per ambiti esterni a quello ludico). 

Silvia Rossi, co-chief del laboratorio e docente presso il DIETI si occupa dell’ambito dell’e-Health e dell’assistenza sanitaria, in cui l’hi-tech costituisce una svolta in termini di qualità dei servizi e riduzione dei costi. Ad esempio, una delle applicazioni di maggior successo riguarda i robot utilizzati durante specifiche terapie di riabilitazione di bambini con deficit motori, questo ne aumenta l’engagement e la motivazione durante il percorso. Ancora, questi device si dimostrano incredibilmente utili nel lavoro con bambini affetti da autismo, poiché stimolano l’interazione e facilitano la valutazione e il monitoraggio dei risultati: ‘per una macchina del genere– sostiene Silvia Rossi- riconoscere un sorriso è la cosa più facile del mondo’.

Ma al di là di banalizzazioni e fanatismi l’implementazione ad hoc di tali tecnologie non riguarda solo i progressi in termini di processori e computazione: la vera sfida tecnologica, afferma la docente, sta nel comprendere le dinamiche di interazione fra uomo e macchina (la cosiddetta interazione H2M, Human-To-Machine) e progettare quest’ultima di conseguenza. È proprio per questo che l’interdisciplinarietà costituisce un aspetto essenziale del PRISCA Lab, tra le cui mura si incontrano medici, psicologi, psichiatri, informatici, linguisti ed esperti provenienti dagli ambiti più disparati. Il tutto in un’ottica di integrazione e collaborazione volta al generale obiettivo di comprendere le necessità dell’utente, valutare l’utilità della tecnologia e progettarla in base a questi parametri. Tale approccio, alla base del PRISCA Lab, costituisce anche il cuore della ricerca del settore AI.

Franco Cutugno, professore di glottologia e linguistica anch’egli del DIETI, che si definisce come un ‘docente anomalo, una via di mezzo fra un linguista ed un informatico’, è un esperto di linguistica computazionale, disciplina che descrive le caratteristiche formali del linguaggio naturale al fine di trasporlo in software eseguibili dal computer. La linguistica computazionale, spiega il professore, è un ambito piuttosto vasto, che si potrebbe sintetizzare in due macrosettori: il trattamento automatico della lingua parlata e il trattamento automatico dei testi. 

Per quanto riguarda il trattamento automatico della lingua parlata, questo comprende macchine parlanti, sistemi di sintesi vocale e riconoscimento automatico del parlato. Sebbene si tratti di tecnologie innovative e avanzate è essenziale non commettere l’errore di sopravvalutarle: questi sistemi di dialogo, ci tiene a precisare Cutugno, come Siri, Alexa e Cortana, non permettono il dialogo fine a se stesso: essi funzionano se, e solo se, il dominio semantico della richiesta rivolta alla macchina è limitato ai compiti normalmente eseguibili dal dispositivo. 

L’impressione che un’Intelligenza Artificiale come Siri possa fare qualsiasi cosa, dunque, è soltanto un’idea di marketing. Brillante, certo, ma pur sempre un’idea di marketing. Da Alan Turing– che ipotizzò un test basato sull’irriconoscibilità fra interlocutore umano e non umano per individuare una macchina pensante- a Philip Dick – che in Do Androids Dreams of Electric Sheep mette in scena un universo in cui tra robot e umani non vi è più nessuna differenza- l’ irriconoscibilità tra intelligenza umana e tecnologica ha sempre costituito un tema di grande speculazione, ma per ora – sostiene Cutugno – è ancora appannaggio della fantascienza. 

Arrivando invece al secondo settore della linguistica computazionale, quello relativo ai testi, il professore la definisce come quella disciplina atta a riconoscere gli elementi fondamentali della grammatica e che prova, dato uno specifico testo, a estrarre da esso tali informazioni. Attraverso questo sistema è possibile la realizzazione di software di sintesi automatica, traduzione automatica, estrazione di informazione, sentiment analysis e molto altro ancora. 

I vari ambiti di applicazione delle tecnologie sviluppate grazie al supporto teorico e pratico della linguistica computazionale forniscono un ottimo spunto di riflessione circa il non così raro incontro fra hard e soft sciences: uno degli ambiti di ricerca di Franco Cutugno e gli altri membri del team PRISCA Lab, infatti, riguarda l’impiego dell’avanguardia tecnologica nell’ambito del Cultural Heritage, dalle tecnologie museali utilizzate per ampliare e arricchire l’esperienza culturale del museo, ai software che definiscono gli standard di conservazione digitale del patrimonio artistico e culturale (vale la pena a questo proposito di citare le piattaforme online Europeana e Iccu). 

Elena Dell’Aquila, ricercatrice presso il PRISCA, è una psicologa specializzata in Psicologia Organizzazionale e Scienze Psicologiche e Pedagogiche. Il suo principale ambito di studio risiede nell’incontro tra tecnologie avanzate e innovative e modelli psicologici riguardo a metodologie educative e tecniche di insegnamento. In particolare tale incontro risulta nello sviluppo di giochi di ruolo virtuali (serious games) finalizzati allo sviluppo delle soft skills

Punto di partenza sono le teorie di Jacob Levi Moreno, psichiatra austriaco che elaborò una metodologia terapeutica fondata sul gioco di ruolo. Mettendo dunque in pratica una particolare declinazione della metodologia del gioco di ruolo moreniano, la dottoressa Dell’Aquila e i suoi collaboratori hanno sviluppato una serie di RPG (Role Playing Games) virtuali. Un esempio di serious games simula una situazione di conflitto in una classe e mette alla prova l’insegnante riguardo la sua modalità di gestione della difficoltà. Attraverso un complesso framework psicologico viene testata la capacità del docente di affrontare l’imprevisto. Inoltre, il software presenta un elevato grado di accuratezza nella comunicazione che si compone infatti secondo una struttura multimodale: verbale, paraverbale e non verbale. Dopo aver presentato la situazione all’utente e avergli fatto compiere le proprie scelte l’RPG genera un feedback e restituisce al docente una sintesi del suo comportamento. 

Attualmente il programma, rivolto soprattutto a insegnanti di istituti di secondo grado, è distribuito in classi interetniche in 5 diversi Paesi dell’UE: Italia, Belgio, Germania, Austria e Spagna. I trial saranno molto utili per cominciare a varare i risultati e le tendenze che poi saranno analizzati e confrontati al fine di ottenere una prospettiva più accurata della dimensione psicologica del conflitto multiculturale. Più in generale, in ogni caso, si tratta di un ottimo esempio di come gli elementi del gioco possano essere traslati al di fuori dell’ambito strettamente ludico per generare un tipo di conoscenza innovativa e approfondita. 

Come illustrato dall’esempio del PRISCA Lab, dunque, quello della robotica intelligente e dei sistemi cognitivi avanzati è un ambito di ricerca che oggi risulta più che attuale e nel pieno del suo sviluppo, grazie soprattutto alla grande varietà delle sue possibilità di applicazione che vanno dall’industria manifatturiera, alle istituzioni culturali fino ad arrivare, infine, all’assistenza della persona. Inoltre, nei suoi 250 mq di struttura, il PRISCA Lab dimostra come la spinta all’innovazione sia particolarmente favorita da un approccio peer-to-peer che si concretizza in uno scambio intellettuale tra ricercatori, docenti e studenti e una solida impostazione collaborativa interfacoltà. 

Considerazioni sul futuro dell’Intelligenza Artificiale

Riguardo all’argomento AI i dubbi e le incertezze non sono pochi. Dall’influenza dell’automazione sul mercato del lavoro ai rischi riguardo privacy e cybersecurity dei sistemi connessi, diverse preoccupazioni sono legate all’ottimizzazione dell’Intelligenza ArtificIale. Inoltre, tale espressione, sembra essere rientrata nell’interminabile elenco di buzzword che animano le discussioni online e non.

È dunque necessario sostenere una divulgazione ampia e accurata di tale argomento, poiché la comprensione di cosa è e cosa non è AI e delle sue caratteristiche principali è fondamentale per favorire il suo pieno sviluppo. Si tratta infatti di tecnologie che se comprese bene nel loro funzionamento, nella loro utilità e nelle loro modalità di implementazione, potranno avere un effetto a dir poco incisivo- non a caso si può parlare di ‘quarta rivoluzione’- in tanti e vari ambiti industriali e non solo, come è dimostrato ad esempio dai social robots. 

La sfida, dunque, è quella di non restare ancorati ad un livello superficiale della tecnologia e di riuscire a perfezionare l’interazione uomo-macchina la quale, come ogni altro tipo di interazione, si basa sul compromesso e sulla flessibilità

digital divide

Digital Divide e competenze digitali in Italia: a che punto siamo

  • I motivi di esclusione dalle cosiddette ICT, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, possono essere molteplici: la condizione economica, l’età, la mancanza di competenze digitali e la provenienza geografica
  • È importante non lasciare indietro nessuno, fornendo le stesse possibilità digitali a tutti, formando le persone all’utilizzo di questi nuovi strumenti e fortificando le skill di chi è già dentro il mondo digitale

 

In un momento delicato e di isolamento, come quello che sta attraversando da febbraio tutta Italia, le possibilità di connettersi con le persone care o di poter condividere un hashtag o una battuta per sdrammatizzare la situazione, rappresentano un barlume di speranza e stanno mettendo in risalto il lato più caloroso e orgoglioso del popolo italiano: ci si fa compagnia dai balconi e da tutte le terrazze e si organizzano contest sui social network, pur di non darla vinta a questo nemico invisibile.

Connessione è unione, e come recita il famoso detto “l’unione fa la forza”.

Il Digital Divide in Italia

Purtroppo oggi, ma anche in altri momenti, una parte della popolazione italiana non può accedere a questi servizi. Questa disuguaglianza sociale è conosciuta come Digital Divide e con una formula ormai standard, è possibile definirlo come “il divario esistente tra chi ha possibilità di accesso effettivo alla tecnologia e chi invece no, parzialmente o completamente”.

Secondo il Report dell’Istat “Cittadini e ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), pubblicato a dicembre 2019, la percentuale di famiglie italiane che dispongono di una connessione a banda larga è pari al 74,7%, mentre la percentuale degli individui che hanno utilizzato Internet, negli ultimi 3 mesi precedenti l’intervista, è pari al 67,9% (entrambi dati in crescita rispetto alla medesima rilevazione dell’anno precedente).

Indipendentemente dal numero o dalla percentuale, nel 2020 tutti dovrebbero avere accesso a questo genere di opportunità, colmando questo gap, in quanto il non poterlo fare comporta una serie di conseguenze negative su questa parte di popolazione, che possono essere sintetizzate in due enormi svantaggi:

  • il primo di natura culturale: si immagini di non poter ascoltare un interessante podcast, di non poter leggere un quotidiano digitale o di non conoscere gli ultimi trend sui social network (anche un meme ritrae l’attualità e l’attualità è cultura)
  • il secondo di carattere economico: dall’implementazione di una suite mail fino all’installazione di un repositor file condiviso con i colleghi, passando per tutti gli strumenti che rendono possibile lo smart working. Beh, le conclusioni in questo caso sono ancora più immediate.

I motivi di esclusione dalle cosiddette ICT, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, possono essere molteplici: la condizione economica, l’età, la mancanza di competenze digitali e la provenienza geografica.

Ad esempio, una delle categorie più colpite dal Digital Divide è la fascia che comprende i soggetti anziani (65+): questo fenomeno è anche conosciuto come “digital divide intergenerazionale”. Infatti tra le famiglie composte esclusivamente da persone ultrasessantacinquenni, solo il 34,0% ha accesso a una connessione internet a banda larga.

Una sorta di paradosso se si pensa che una delle categorie che più avrebbe bisogno dei vantaggi del digitale, è quella che ne ha meno accesso.

Gli italiani e il mondo digitale

A sostenere l’importanza della connessione fra le persone, è un altro dato emerso dall’ultimo Report dell’Istat “Cittadini e ICT, secondo cui i servizi di messaggeria istantanea rappresenterebbero le attività digitali più diffuse fra le famiglie italiane.

Indipendentemente dal device (smartphone, pc, tablet o wearable), le attività legate all’utilizzo di servizi di comunicazione, che consentono di entrare in contatto con più persone contemporaneamente, sono le più comuni, forse perché sono quelle che riescono a far sentire gli utenti come parte di un unico mondo: più di otto internauti su dieci hanno utilizzato, nei tre mesi prima della rilevazione Istat, servizi di messaggeria istantanea e circa il 64,5% ha effettuato chiamate via Internet.

A seguire in questa classifica sui servizi del web più utilizzati dalle famiglie italiane:

  • Lettura di informazioni e notizie (57,0%)
  • Intrattenimento (film, musica e/o giochi) (47,3%)
  • Home banking (46,4%).

Inoltre più della metà degli utenti di Internet (di almeno 14 anni) ha effettuato almeno un acquisto online: precisamente il 57,2%, pari a 20 milioni 403 mila persone.

Ora chi vuol provare ad immaginare questo periodo di isolamento domestico, senza la possibilità di connettersi ad una linea veloce internet? Questo vuol dire senza serie tv on demand, senza videochiamata multipla (un must di questo periodo), senza tutto quello che prevede una connessione con una certa potenza.

Le competenze digitali

Altra storia sono poi le competenze digitali.

Si può partire da questo dato (Istat 2019): fra le famiglie che per scelta non hanno a casa una connessione a banda larga, la maggior parte indica come principale motivo la mancanza di capacità (56,4%) mentre il 25,5% di esse non considera Internet uno strumento interessante.

Osservando i dati del Report emerge che gli utenti (che invece hanno una connessione internet domestica) che hanno competenze digitali basse sono il 41,6%, di base il 25,8% e nulle il 3,4% (pari a 1 milione e 135 mila). Il 29,1% ha competenze digitali elevate.

Va ricordato che dal 2015 la Commissione Europea, in accordo con gli Istituti nazionali di statistica, ha definito un metodo per calcolare la qualità delle competenze digitali degli utenti. Infatti le capacità degli utenti devono corrispondere (con una graduatoria da 0 a 2) a quattro domini di competenza:

  • Information skill: identificare ed utilizzare di informazioni digitali
  • Communication skill: comunicare in ambienti digitali (attraverso strumenti digitali)
  • Problem solving skill: risolvere problemi tecnici, aggiornare le proprie e le altrui competenze.
  • Software skills for content manipulation: creare ed elaborare contenuti digitali.

Ad esempio per essere un utente con capacità digitali avanzate, bisogna ottenere un livello 2 per tutti i domini di competenza.

L’Italia sta percorrendo la strada della digital transformation, implementando le ultime tecnologie in molti campi professionali e nei servizi al cittadino.

Sarebbe altrettanto importante non lasciare indietro nessuno, fornendo le stesse possibilità a tutti, formando le persone all’utilizzo di questi nuovi strumenti e fortificando le skills di chi già fa parte di questo meraviglioso meccanismo tecnologico.

Anche chi ha competenze elevate può aiutare gli altri: forse ora è proprio il momento giusto.