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Che cos’è l’Internet of Things, spiegato con una mini-serie TV

  • Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0 è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet of Things) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

 

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Leopoldo Angrisani, Professore Ordinario di Misure Elettriche ed Elettroniche presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie Informatiche della Federico II e Direttore del Centro CESMA (Centro Servizi Metrologici e Tecnologici Avanzati).

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Il Professor Angrisani ritiene che il grande vantaggio nel poter utilizzare tecnologie IoT sia “avere una disponibilità di informazioni del mondo circostante molto più intensa, e soprattutto in tempi ristrettissimi, quasi in tempo reale. Perché le informazioni possono essere prelevate e possono essere trasferite in un arco temporale decisamente contenuto e quindi con possibilità di utilizzarle al meglio per compiere azioni e prendere decisioni […] l’importante è usare l’IoT dove realmente può servire, sulla base delle caratteristiche che in questo momento offre“.

Sulla possibilità di adattare tale tecnologie al contesto imprenditoriale del nostro territorio dice: “Per esempio, il settore dell’agrifood è certamente un settore che può beneficiare tantissimo di questa tecnologia, e di fatto lo sta già facendo. Infatti, avere una tracciabilità quasi in tempo reale dell’intero processo all’interno di un contesto agricolo, dal campo alla tavola, può certamente essere di aiuto al settore per promuovere il proprio prodotto su una platea sempre più vasta, che riesca a carpire questo significato e sia sensibile a questo tipo di messaggio […] Ciò che dobbiamo fare è dare il tempo alla tecnologia di trovare le risposte giuste agli scenari attuali, ma anche cercare di prevedere quelli futuri, in modo da farsi trovare preparati per quello che sarà”.

Sulla possibilità di avere un approccio “mediterraneo” all’innovazione, il Prof. aggiunge: La tecnologia dell’IoT ha come caratteristica quella di essere aperta. Al suo sviluppo contribuiscono vari concorrenti, con azioni condivise un’ open architecture. Inoltre vi sono diversi livelli (e quindi diversi player) rappresentati, dai sensori, all’elaborazione, alle batterie, fino alla connettivitàQuesto rende la tecnologia molto con-flessibile e riconfigurabile”.

Approfondimenti sull’IoT

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’uomo utilizza i propri sensi per conoscere il mondo esterno e reperire da esso informazioni. Grazie al tatto, all’udito, al gusto, alla vista e all’olfatto ottiene numerose e variegate informazioni (dati) che, grazie al sistema nervoso, sono trasferite al cervello e da quest’ultimo interpretate.

Internet of Things (IoT) è un neologismo, con il quale viene identificato un insieme di smart things capaci di comunicare tra loro, scambiandosi ed elaborando le informazioni raccolte, e operanti all’unisono per il raggiungimento di uno o più obiettivi prefissati. Il termine «connettività di rete» è spesso usato per indicare tale capacità di comunicazione.

Le informazioni sono raccolte grazie all’utilizzo degli “smart sensors“ (sensori intelligenti), capaci di rilevare grandezze fisiche, di trasformarle in informazione e di trasmetterle nella forma di segnali elettrici all’unità di elaborazione centrale dello smart thing, preposta all’elaborazione delle stesse e alla formulazione di possibili decisioni.

L’evoluzione delle tecnologie peculiari dell’IoT (micro/nanoelettronica, sensori, unità e software di elaborazione, apprendimento automatico, connettività di rete, batterie) è attualmente tumultuosa. L’IoT è infatti inserito nell’elenco delle tecnologie abilitanti del paradigma «Industria 4.0», di derivazione tedesca, o «ICT&Industry», di derivazione statunitense.

L’IoT mescola quattro elementi che sommati consentono di ottenere grandi benefici per le attività imprenditoriali: sensori, dati, algoritmi, applicazioni. I sensori sono ormai diffusissimi su macchinari di ogni dimensione: i costi di produzione e il loro fabbisogno energetico sono bassissimi. Dotare un macchinario di sensori consente non solo di raccogliere dati ma anche di trattarli e classificarli, e addirittura di far svolgere operazioni specifiche al macchinario da remoto. È possibile intervenire sui processi, per ottimizzarli e potenziarli, consentendo agli operatori, agli analisti e alle macchine stesse di prendere decisioni in maniera più consapevole.

L’espressione Internet of Things (IoT) o Internet delle Cose, indica propriamente l’estensione della connettività a Internet a dispositivi fisici e oggetti del mondo quotidiano. Tale locuzione viene introdotta per la prima volta in un articolo del 1999 da Kevin Ashton, ingegnere britannico co-fondatore dell’organizzazione di ricerca globale Auto ID Center, afferente al Massachussetts Institute of Technology (MIT)

Ashton utilizzò l’espressione IoT per riferirsi ad un sistema complesso che grazie a specifiche tecnologie permettesse di oltrepassare il gap tra mondo fisico e mondo virtuale, e fosse in grado di potenziare i computer con modalità a loro appropriate di raccolta e scambio di dati, in modo da renderli più indipendenti dal ‘router umano’

L’IoT dunque consiste in un sistema composto da tutti i devices che sono connessi a Internet e che, tramite tale connessione, sono in grado di comunicare tra loro, siano essi dispositivi digital first (ovvero per loro natura predisposti alla raccolta e allo scambio di dati, come smartphone e tablet), o al contrario physical first (non predisposti alla raccolta e allo scambio di dati se non trasformati opportunamente con specifiche tecnologie, come ad esempio un tradizionale libro su cui vengono implementati chip o sensori che abilitano la comunicazione). 

Quello dell’Internet of Things, dunque, è un sistema estremamente complesso e composto da una lunga serie di tecnologie hardware e software: seppure non si possa considerare novità assoluta a tutti gli effetti- come si coglie dal fatto che i primi contributi accademici riguardo tale argomento risalgono a più di un ventennio fa- esso diventa realizzabile solo con la diffusione pervasiva delle rete Internet, iniziata negli anni ’90 grazie all’invenzione del World Wide Web di Tim Berners Lee e allo sviluppo di protocolli di rete, software e componenti hardware. Tutti elementi, di fatto, che concorrono a rendere possibile la comunicazione in tempo reale e lo scambio dei dati su scala di massa, elementi alla base al funzionamento dell’IoT.

Componente chiave dell’IoT è la tecnologia mobile. La diffusione di dispositivi mobili, in particolare degli smartphone, ha infatti inciso notevolmente non solo sulla quantità degli individui che fruiscono della rete Internet ma anche sulle modalità di tale fruizione: non a caso si può infatti parlare di quella che il ricercatore MIT David D. Clark definì nel 1999 ‘era post-pc’, indicando con questa espressione l’ampliamento della rete di connettività e interconnettività e il cambiamento del modo in cui gli individui si servono di Internet. 

L’idea di realizzare la comunicazione tramite i dispositivi portatili risale al secolo scorso: dai walkie-talkie utilizzati in ambito militare, al primo telefono cellulare lanciato da Motorola nel 1973, sino al primo embrionale tentativo di smartphone digitale (il Simon della IBM del 1993), la storia della comunicazione umana è piena di esempi in quest’ambito. Tutte queste sperimentazioni hanno permesso di migliorare le componenti hardware e software, ottimizzando sempre di più questi devices, rendendoli più leggeri, aumentandone il raggio d’azione e dotandoli di sistemi operativi e interfacce sempre più user-friendly. Il vero e proprio decollo della portabilità può essere identificato con il lancio del primo iPhone Apple nel 2007, data a partire dalla quale questi dispositivi iniziano a diffondersi a livello globale rivoluzionando in maniera significativa sia la vita quotidiana che l’ambito dell’impresa, di pari passo con la diffusione di altre tecnologie hardware e software, come le reti Wi-Fi e il Cloud Computing (ambienti di calcolo distribuiti sul network che erogano servizi on demand e in tempo reale come i sistemi di gestione dei dati).

Oggi gli smartphone sono oggetti a supporto della persona e rappresentano il primo step della rivoluzione che conduce all’IoT, la quale può essere considerata come una seconda ondata di rivoluzione digitale (considerando come prima ondata, invece, la diffusione di Internet e dei personal computer avvenuta attorno agli anni ’90). 

Secondo Leopoldo Angrisani, docente di Misure Elettriche ed Elettroniche presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione) dell’Università di Napoli Federico II, gli smartphone sono passati ad essere strumento atto a realizzare la comunicazione tra le persone a strumento sfruttato per la comunicazione tra gli oggetti. La sola idea di far parlare le cose- sostiene Angrisani- apre scenari macroeconomici prima impensabili. Dotare gli oggetti della capacità di comunicare significa creare un nuovo ecosistema: Internet prima era uno spazio in cui potevano accedere solo le persone, mentre ora si configura come qualcosa di molto più evoluto, una piattaforma dai confini indistinti in cui si realizza la comunicazione tra individui e oggetti, a prescindere dalla natura degli attori in questioni. 

L’IoT, infatti, abilita la comunicazione tra cosa e cosa, ma anche tra le cose e gli individui connessi (Internet of Humans, IoH). L’incontro tra Internet of Things e Internet of Humans risulta nel cosiddetto Internet of Everything (IoE), espressione utilizzata per indicare il sempre più profondo e costante embedding tra realtà fisica e realtà virtuale. 

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Smart Things: funzionamento e componenti

Il sistema dell’Internet of Things, dunque, più che come una tecnologia, si definisce come un set di tecnologie sia hardware che software strettamente in relazione fra loro che realizzano un collegamento tra mondo fisico e mondo virtuale. Tali device- che compongono l’IoT- sono detti smart things, ossia oggetti la cui smartness è definita in termini di capacità di connettività e di comunicazione. Le stesse smart things, inoltre, sono a loro volta costituite da diverse componenti tecnologiche specifiche, le quali concorrono a rendere ancora più complessa la struttura inerente all’Internet of Things.

La comunicazione abilitata dall’IoT è anche osservabile in quanto trasmissione di dati: poiché lo scambio dei dati è alla base di questo processo, sorge il problema del contenuto, vale a dire di quali siano le informazioni che tali dispositivi devono poter comunicare e, prima ancora, essere in grado di acquisire. Per questo motivo un ambito fondamentale per il funzionamento dell’Internet delle Cose è quello della sensoristica. Un sensore è un «dispositivo che fornisce in uscita un segnale che dipende dal valore di una determinata grandezza presente all’ingresso» allo scopo di «determinare il valore della variabile in ingresso a fini di regolazione o di controllo del sistema in cui il sensore opera»

Secondo Leopoldo Angrisani eseguire una misurazione significa associare un valore ad una grandezza fisica. Ciò equivale dunque a mettere in comunicazione due mondi diversi, quello delle grandezze fisiche e quello dei numeri reali, il mondo dei fisici e quello dei matematici. Da un lato vi è la realtà, e dall’altro invece i modelli e le rappresentazioni della realtà che noi creiamo, formulandoli in modo tale che essi siano estremamente favorevoli ad un nostro ragionamento logico e ai nostri processi cognitivi. Attraverso i sensori, le smart things acquisiscono le informazioni dal mondo reale: i sensori sono dunque quei dispositivi che svolgono per l’oggetto intelligente lo stesso ruolo che i sensi svolgono per l’essere umano. Oggi nell’ambito della sensoristica è particolarmente importante la scienza della microelettromeccanica, grazie alla quale sono stati implementati i cosiddetti MEMS: sistemi microelettromeccanici dalle dimensioni ai costi ridotti e che dunque si dimostrano particolarmente versatili e incorporabili in una lunga serie di devices diversi. 

Ovviamente al giorno d’oggi la maggior parte dei sensori utilizzati sono sensori digitali i quali permettono una maggiore accuratezza e un più alto grado di approfondimento delle loro versioni analogiche. Inoltre, nelle loro versioni più aggiornate, tali sensori possiedono anche la cosiddetta capacità di contesto, la quale si divide in elaborazione contestuale passiva (misurazione continua di un fenomeno e feedback all’utente); elaborazione contestuale attiva (misurazione continua di un fenomeno e reazione automatica in base ai parametri registrati); personalizzazione (comportamento sulla base delle preferenze dell’utente specifico). 

Oltre ai sensori, le smart things si basano su altre soluzioni tecnologiche. Ad esempio, tra le soluzioni software, vi sono i protocolli di comunicazione che assolvono il compito della comunicazione delle informazioni. Si tratta di set di convenzioni e standard che istruiscono circa le modalità in cui avviene la comunicazione. Essi sono estremamente importanti per lo sviluppo e il funzionamento dell’IoT e lo furono, a suo tempo, anche per il funzionamento di Internet stessa. Nel caso dell’IoT il ruolo è fondamentale vista la varietà nelle componenti hardware, nelle architetture software e nei formati dei file. Diversi enti a livello internazionale, come la Allseen Alliance e la Institute of Electrical and Electronics Engineers (IEEE), si sono impegnati a elaborare questi linguaggi, che sono necessariamente molteplici poiché variano sulle specifiche esigenze della determinata comunicazione da soddisfare. 

È attraverso queste componenti- come i sensori, i protocolli di connettività, i sistemi di storage delle informazioni e molte altre- che l’oggetto diventa intelligente.

Applicazioni, questioni e futuri sviluppi dell’Internet of Things

Nel mondo dell’industria, l’IoT (nel suo sottosistema definito come Industrial Internet) viene annoverata tra le tecnologie abilitanti 4.0 perché è la tecnologia che abilita le macchine presenti nella filiera a comunicare ottimizzando operazioni e processi, realizzando risultati finali migliori e garantendo una condizione migliore per chi ad esempio lavora nella fabbrica. A differenza delle altre tecnologie abilitanti è sui generis perché è un set, un contenitore di varie tecnologie radunate sotto il cappello IoT con un atteggiamento omnicomprensivo.

Il discorso tecnologico alla base dell’Internet of Things- sostiene l’esperto Angrisani- non è nato tanto dalla ricerca accademica quanto piuttosto dal business, nel momento in cui si è resa evidente la saturazione del settore della comunicazione tra individui. Tale settore dunque ha cercato soluzioni in una diversa direzione, basandosi sulla realizzazione della comunicazione tra gli oggetti. A partire da questo presupposto si è cominciato a ragionare su quali fossero gli oggetti da dotare della capacità comunicativa e quali fossero i nuclei di attività, gli scenari e i contesti in cui la comunicazione fra gli oggetti- e fra oggetti e individui- potesse apportare beneficio. 

Sono così emersi i più svariati approfondimenti: dalla domotica– l’applicazione delle tecnologie informatiche e digitali ai sistemi di abitazione- all’ e-health– l’applicazione delle tecnologie informatiche e digitali all’ambito della salute- oggi sono tantissimi i settori che traggono beneficio dalla smartness degli oggetti. 

Poiché l’IoT rappresenta- più che un trend passeggero- una vera e propria rivoluzione, le sue implicazioni però non sono da dare per scontato. Lo scenario che si profila è sempre di più quello di una rete pervasiva, integrata e meno esplicita e, per la portata del cambiamento in atto, esistono ovviamente dei rischi. Basti pensare ad esempio alle questioni relative alla privacy, con i sempre più frequenti leaks, furti di identità e violazione dei dati, per cui è necessario da un lato attrezzarsi secondo modalità tecniche, dotando ogni dispositivo di sistemi di sicurezza e monitoraggio; dall’altro, si rendono necessari anche provvedimenti legislativi volti a regolamentare la proprietà delle informazioni e a definire le misure giuridiche circa i reati in merito. 

Oppure, altro problema fondamentale è quello del digital divide: si tratta del divario sociale, economico e politico tra individui che hanno la possibilità di sfruttare tali tecnologie e individui che invece per questioni di limitazioni fisiche all’accesso o per mancanza di padronanza non ne possono trarre beneficio. A questo titolo, diventa un bisogno primario non solo sviluppare infrastrutture adeguate, pervasive ed efficienti per abilitare la connessione, ma anche- e soprattutto- permettere alla popolazione mondiale, a prescindere da parametri sociali e demografici, di acquisire le competenze necessarie per poter utilizzare queste tecnologie. 

Oggi- sostiene infatti Angrisani- è compito sia dei singoli che delle istituzioni combattere l’ignoranza su tutti i livelli, divulgando, approfondendo, acquisendo competenze specifiche e investendo sulla cultura. E la tecnologia 4.0 fa parte di tale cultura.

Il CeSMA

Il CeSMA – Centro Servizi Metrologici e Tecnologici Avanzati – è la rete federiciana per misurazioni e tecnologie avanzate, ad accesso remoto, che vanta 30 laboratori dotati di strumentazione con caratteristiche esclusive e distintive. Vuole fornire supporto ai maggiori attori locali, nazionali e internazionali nelle attività di misurazione avanzata, e più in generale nella sperimentazione di nuove tecnologie, traendo anche vantaggio dalla presenza di ricercatori e tecnici esperti della Federico II.

In quanto Centro di ateneo, CeSMA ha un’identità multidisciplinare che garantisce osmosi costante di conoscenze attingendo alla ricchezza delle competenze dei Dipartimenti e traguardando i confini della integrazione più completa e complementare. La numerosità delle afferenze garantisce al CeSMA la disponibilità di ricercatori scientificamente qualificati in ogni settore, che forniscono risposte efficaci a complesse esigenze misuristiche e tecnologiche espresse dai settori dell’Industria e dei Servizi.

La sinergia dei modernissimi laboratori di Fisica, Chimica, Ingegneria, Biologia promuove il CeSMA come naturale e innovativa interfaccia tra accademia e imprese, nell’ambito del piano governativo Industria 4.0, per il presidio di settori strategici della vita quotidiana, quali l’ambiente e i territori, la vita e la salute, i prodotti e i processi industriali.

Il CeSMA opera lungo quattro direttrici tematiche:

  • Misure per la Qualità della Vita e la Salute;
  • Misure e Monitoraggi su Reti e Impianti;
  • Monitoraggio dell’Ambiente e del Territorio;
  • Qualificazione di Processi e Prodotti Industriali.
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Week in Social: TikTok e la quarantena, la nuova app per coppie e i tornei su Facebook

Natale con i tuoi, Pasqua con Ninja Marketing. Chi avrebbe mai immaginato una Pasquetta così? Per fortuna, la Week in Social non va in vacanza e potrà tenervi compagnia, qualora lo vogliate, anche in questo weekend.

TikTok e la quarantena

Complice l’emergenza Covid-19, complice la novità, complice la voglia di divertirsi che abbiamo in questo periodo e che, purtroppo, si può sfogare in pochi modi, dati alla mano, i numeri di TikTok in Italia sono in crescita: se non ci credete, sfogliate una manciata di video e noterete che l’età media non è affatto di 15 anni come in origine.

TikTok

Facciamo una prova: guardate quante famiglie, nonni, genitori sono coinvolti in questi video, nella challenge di turno e quanti gatti e cani sono protagonisti del sistema TikTok? Lo ammettiamo, ci siamo anche noi. E sicuramente, i banchi di scuola li abbiamo abbandonati da un pezzo. Poveri giovani d’oggi: non possono scoprire un’app che il mondo adulto se ne impossessa subito. 

Smart working e TikTok

Sono tanti i modi con cui gli utenti di TikTok esprimono la nostalgia verso il loro lavoro. I più colpiti dal blocco delle attività, come estetisti, parrucchieri, hostess e steward di bordo, sono anche i più creativi sulla piattaforma.” scrive il Ninja Giancarlo Donadio.

C’è chi, per esempio, come @justcallmepino, non rinuncia alla sua passione per il volo. Per combattere la noia, con indosso una divisa da pilota, si esercita facendo volare un modellino di aereo. In attesa di pilotare un aereo vero è riuscito a “far volare” le visualizzazioni, che hanno superato le 230mila.

smart weorking su tiktok

Gli estetisti, i parrucchieri e i tatuatori danno invece un nuovo significato alla parola “telelavoro”. Con la TV accesa che proietta immagini di loro potenziali clienti in saloni di bellezza, si impegnano, ferri del mestiere alla mano, a fare una messa in piega, disporre lo smalto sulle unghie, e a disegnare coloratissimi tatuaggi. In tempi in cui la telemedicina fa miracoli, in cui è possibile operare i pazienti a distanza, chissà se un giorno le loro professioni potranno essere svolte “da remoto”.

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Tuned, la nuova app di Facebook per le coppie

Dating tarda ad arrivare in Italia per i motivi che già sappiamo (non diteci che siete lettori distratti, ne abbiamo parlato nella rubrica Week in Social, poche settimane fa) e quindi se Facebook non può fare da Cupido tra gli italiani, sceglie di agire tra chi è già innamorato.

Uno spazio gratuito per dare la possibilità alle coppie di scambiarsi quello che si vuole, dalla musica alle foto, e non necessita del collegamento a Facebook. Perché? Chi lo sa come vanno questi esperimenti, magari domani falliscono e dopodomani invece saranno le funzionalità del momento.

Il modo migliore per capirlo è comunque testarla: ed è subito download.

Facebook Gaming e i tornei

Facebook Gaming si adegua al periodo storico che stiamo vivendo e lo fa informando l’utenza attraverso un tweet, una manciata di giorni fa:

Questa funzionalità sarebbe dovuta uscire più avanti ma non si poteva attendere. Ora, si potranno organizzare tornei e vere e proprie sfide con chiunque. Tutto come fosse reale: ecco, ora sappiamo cosa fare a Pasquetta.

In breve

Zoom –  Cosa fare quando la tua piattaforma passa da 10 a 200 milioni di utenti al giorno? Assumere chi ne sa più di te. Ed ecco perché, in termini di privacy, è stato assunto da Zoom, la piattaforma di videochiamate e teledidattica del momento, l’ex capo della sicurezza di FacebookAlex Stamos. Non si possono correre rischi, quando si diventa famosi.

Data for Good –  Mark Zuckerberg mette a disposizione degli esperti dati e spostamenti delle persone nel mondo per monitorare il contagio da Covid-19. Grandi mappe, a definire quanto e come si sta evolvendo la situazione. I social (o chi per loro) che aiutano il progresso.

Fake News – Continua la lotta alle fake news: secondo un recente studio dell’Università di Oxford, Facebook è in grado di bloccare il 76% delle notizie false.

LuxuryInstagram non è più il padrone social incontrastato del settore lusso: ora TikTok offre una bella e variegata concorrenza. Tantissimi i brand che si affidano a questo social per la propria comunicazione.

Che cosa sono la Realtà Virtuale e la Realtà Aumentata, raccontato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Giuseppe Di Gironimo, Professore di Modellazione Geometrica e Prototipazione Virtuale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale della Federico II di Napoli, e responsabile del laboratorio IDEAinVR (Interactive Design and Ergonomics Applications in Virtual reality).

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Il Prof. Giuseppe Di Gironimo nel fare il punto sulla pervasività delle tecnologie di realtà aumentata e virtuale sembra riscontrare ormai pochi limiti: Quelli che erano limiti 10 anni fa, oggi li abbiamo già abbondantemente superati, grazie soprattutto allo sviluppo di dispositivi hardware in particolare schede grafiche, processori sempre più potenti che consentono di effettuare calcoli sempre più rapidamente. Per cui, non ci sono limiti sul ‘cosa’ simulare”, tuttavia aggiunge: c’è sempre bisogno di un uomo che sappia interpretare i dati di quella simulazione in maniera corretta, facendo appello alle sue competenze, con il suo ingegno, con la sua dottrina e con il suo disegno, come ci insegna Martini Francesco Di Giorgio”.

Interessante il suo punto di vista anche sull’accessibilità: “Qualche anno fa, questa tecnologia era proibitiva in termini di costo, cioè era inaccessibile per le piccole e medie imprese […] Una grande mano l’abbiamo data noi con le università perché abbiamo potuto usufruire di finanziamenti pubblici per riuscire a studiare e fare ricerca su queste tecnologie […] Il fatto che oggi queste tecnologie costino sempre meno ha avvicinato le piccole imprese anche all’acquisizione della tecnologia e non più solo all’acquisizione delle competenze e quindi abbiamo la possibilità, anche in piccole aziende, di poter sfruttare queste tecnologie.

Poi aggiunge “Sicuramente oggi, l’Italia che ha tante risorse turistiche e archeologiche e agro alimentare deve sfruttare tanto queste risorse e applicare queste tecnologie per realizzare progetti che consentano una loro migliore fruizione, e sarebbe da criminali non farlo”.

Approfondimenti su Realtà Virtuale e Realtà Aumentata

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’Augmented Reality (Realtà Aumentata, o AR) consiste nell’implementazione di informazioni generate tramite computer le quali vengono sovrapposte e aggiunte agli oggetti del mondo concreto, arricchendo in maniera multisensoriale gli stimoli percettivi sperimentati dall’individuo. Con l’impiego di questa tecnologia si migliora l’interazione con l’ambiente e con i sistemi di produzione, permettendo di mostrare, attraverso visori o tablet, delle informazioni relative ad un oggetto reale semplicemente inquadrandolo. Nelle applicazioni industriali le informazioni possono riguardare, ad esempio, le condizioni di funzionamento o le istruzioni operative di montaggio, uso e manutenzione di un prodotto o di un sistema di produzione.

La Virtual Reality (Realtà Virtuale, o VR) consiste nella simulazione di un’esperienza immersiva in un ambiente digitalmente prodotto. Essa si differenzia dalla AR in quanto permette di “immergersi” in un mondo completamente digitale e slegato da quello esterno e fisico. L’accesso a questo mondo digitale è reso possibile da visori e da accessori (come joypad, sistemi di tracking, guanti) sviluppati appositamente per interagire e “vivere” all’interno della Realtà Virtuale.

Il punto di partenza per entrambe le tecnologie AR e VR è un modello tridimensionale del prodotto o processo, costruito in ambienti di modellazione CAD 3D, e sistemi di visualizzazione basati su schermi o visori, potenziati dall’utilizzo di dispositivi indossabili che permettono di navigare realisticamente nel modello ed interagire con esso attraverso opportuni feedback sensoriali.

Le tecnologie della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata costituiscono oggi un importantissimo elemento nel settore industriale. Non a caso, esse sono entrate a far parte della lista delle tecnologie abilitanti dell’Industry 4.0, cioè quegli strumenti hardware e software e quelle tecniche che – in stretta correlazione l’una con l’altra, creando un vero e proprio ecosistema tecnologico – sono alla base della Quarta Rivoluzione Industriale. In particolare, AR e VR svolgono un ruolo primario per il miglioramento delle condizioni di ergonomia e sicurezza in una fabbrica e per il raggiungimento di sempre più elevati livelli di qualità del prodotto finalizzati al soddisfacimento di bisogni reali della società in cui viviamo.

Giuseppe di Gironimo, Professore di Disegno e Metodi dell’Ingegneria Industriale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università Federico II, responsabile del centro MARTE (Misure Avanzate in Realtà virTualE) presso il CESMA-Unina e del Laboratorio IDEAinVR (Interactive Design and Ergonomics Applications in Virtual reality) nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico del Consorzio CREATE (Consorzio di Ricerca per l’ Energia, l’ Automazione e le Tecnologie dell’ Elettromagnetismo), si occupa di Realtà Virtuale sin dal 1999, anno in cui, sull’esempio di paesi come la Germania, anche l’Italia inizia a rincorrere questa nuova tecnologia

Di Gironimo sostiene che è possibile osservare la progettazione industriale sulla base dei suoi tre elementi costitutivi fondamentali, distinti ma strettamente correlati tra di loro: l’ingegno, la dottrina e il disegno. Coloro che operano nell’ambito dell’ingegneria, infatti, devono essere prima di tutto dotati d’ingegno. Questo deve però necessariamente essere incanalato, attraverso specifici studi, con un’opportuna dottrina. A loro volta, ingegno e dottrina devono essere sintetizzati attraverso il disegno: tale termine si riferisce ad una rappresentazione grafica realizzata a partire da una specifica competenza, in grado di comunicare delle informazioni accurate e approfondite, che uniscono il fattore artistico e quello tecnico al fine di ottimizzare le possibilità di comprensione.

Prima dei modelli virtuali– che costituiscono l’output più attuale ed avanzato della disciplina del disegno- vi erano i modelli 3D i quali, rispetto alla ancora precedente tecnica del disegno 2D in scala, permettono una comprensione molto più approfondita degli oggetti e del loro comportamento e consentono di conseguenza la realizzazione di prodotti in tempi più rapidi e con più alti livelli di qualità, irraggiungibili- se non addirittura inconcepibili- prima dell’introduzione di tali tecnologie.

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Il funzionamento di VR e AR

La Realtà Virtuale, quindi, ha lo scopo di ricreare tramite un computer mondi e oggetti che sono la trasposizione digitale di ambienti reali o di fantasia. La Realtà Aumentata, invece, consiste nella sovrapposizione di immagini digitali a immagini reali. Il funzionamento di queste tecnologie, sempre secondo il parere di Di Gironimo- che per il suo lavoro e la sua esperienza in questo campo rappresenta un interlocutore privilegiato- si basano su quattro ingredienti principali: il fotorealismo; la grafica in tempo reale; l’immersione; l’interattività. 

Il fotorealismo consiste nella riproduzione più esatta possibile delle immagini. Questa componente è particolarmente importante quando AR e VR vengono applicate nel settore industriale, poiché permette una sperimentazione più accurata ed efficace dei modelli virtuali. Uno dei parametri principali per l’elaborazione delle immagini è infatti la qualità visiva dei risultati, per cui si utilizzano specifici programmi di rendering e ray tracing

Il fotorealismo ha costituito in ambito sperimentale un ostacolo significativo, per via dei tempi e dei costi di realizzazione di queste immagini. Al giorno d’oggi, ad ogni modo, è molto più semplice procurarsi tali tecnologie e realizzare questi prodotti, grazie all’innovazione nel settore dei calcolatori e dei processori e al consequenziale abbassamento dei costi. 

La grafica in tempo reale è essenzialmente la fluidità dell’ambiente prodotto digitalmente e dei suoi cambiamenti di stato sulla base, ad esempio, dei cambiamenti di stato del nostro corpo nel mondo fisico. La fluidità dello scenario virtuale si consegue quando il sistema nervoso dell’utente viene ingannato in maniera esatta (una sorta di versione più innovativa di ciò che accade nel caso del montaggio cinematografico). Il sistema è quello di riprodurre le specifiche immagini ad una velocità superiore a quella che è la permanenza dell’immagine sulla retina. Per conseguire questo risultato, è evidente, occorrono capacità di calcolo molto elevate e schede grafiche estremamente performanti. 

La qualità dell’immersione– caratteristica basilare delle tecnologie AR e VR- è una qualità insita nello specifico sistema di output o visualizzazione, oggi esistente in varie forme: ad esempio i più user-friendly smartphone e televisori, ma anche i più tecnici powerwall (larghi schermi ad altissima risoluzione composti da una matrice di altri display) e CAVE (Cave Automatic Virtual Environment, un ambiente immersivo di realtà virtuale in cui le immagini vengono proiettate su tutte le pareti di una stanza cubica).

L’immersione è direttamente dipendente dalla stereoscopia: tale termine si riferisce alla modalità di visione binoculare (a due occhi) che ci permette la percezione visiva delle tre dimensioni. La visualizzazione stereoscopica, dunque, prevede la visualizzazione in contemporanea di due immagini (una per occhio). In una delle varie tecniche di realizzazione della stereoscopia- quella che viene detta visione stereoscopica attiva- vengono utilizzati degli occhiali ad otturatori i quali, al posto delle tradizionali lenti, hanno impiantati dei filtri a cristalli liquidi. Le immagini, quindi, vengono mostrate in sequenza sullo schermo, alternando i frame destinati all’occhio destro e quelli destinati all’occhio sinistro in maniera continua e ripetuta. Allo stesso tempo, viene inviato un segnale agli occhiali in modo che questi possano oscurare l’occhio cui di volta in volta non è rivolta l’immagine. Ovviamente per realizzare questa tecnologia- il cui risultato è quello di un’elevata definizione grafica- c’è bisogno di macchine e sistemi di elaborazione molto veloci.

Infine, vi è l’ingrediente dell’interattività, il quale caratterizza l’esperienza risultante dalle tecnologie di Realtà Virtuale e Aumentata trasformando queste in dei media del tutto rivoluzionari. Gli scenari di AR e VR, infatti, non si limitano a sfruttare la visione stereoscopica per far sì che l’individuo si ritrovi in una condizione di immersione in questi ambienti: essi, infatti, sono sviluppati anche per prestarsi ad un’interazione con l’utente. Tutto ciò al fine di restituire un’esperienza cognitiva importante e portare l’utente oltre il semplice ruolo di spettatore. L’interattività, da un punto di vista tecnico, viene realizzata tramite sistemi di tracciamento e manipolazione, che consentono ad esempio di catturare in tempo reale il movimento spaziale di un corpo fisico e di elaborarlo al computer.

Realtà aumentata, realtà virtuale e industry 4.0

È comune associare le tecnologie in grado di realizzare e riprodurre scenari di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata all’universo dell’entertainment. Dal mondo del cinema a quello del gaming, infatti, tali tecnologie sono ormai da decenni sfruttate in maniera notevole e significativa al fine di rendere l’esperienza del fruitore più performante possibile. Oggi però queste tecnologie possono essere associate anche al cuore del settore industriale, in particolare se si parla dell’Industry 4.0, la quale è da inquadrare come una realtà non più tanto appartenente al futuro, ma piuttosto al presente.

Industry 4.0 significa non solo aumentare l’efficienza dei processi, ottimizzando il funzionamento delle componenti industriali attraverso la digitalizzazione. Tale espressione infatti indica una vera e propria ridefinizione dei confini del settore dell’industria. Questa ridefinizione è, sostanzialmente, basata sui cyber-physical systems (sistemi informatici in grado di interagire in maniera autonoma e funzionale con il sistema fisico che lo accoglie o in relazione a cui opera), il cui meccanismo risulta nell’embedding di mondo reale e virtuale (si parla infatti di embedded reality, per indicare la condizione di pervasività di questo processo).

Tecnologie come l’AR  e la VR, dunque, che rappresentano anche un crocevia tecnologico tra ingegneria ed entertainment, sono fondamentali in questa ridefinizione di confini e di paradigma. 

Non a caso oggi si parla di Human o User Centred Design, indicando con questa espressione il design elaborato sulla base delle preferenze e delle attese dei consumatori. Si tratta di modelli derivati dalla disciplina, di matrice nipponica, definita come Kansei Engineering: tale termine si traduce con l’espressione ‘ingegneria delle emozioni’ e vuole indicare lo sviluppo di prodotti e servizi a partire dai bisogni e dalle esigenze psicologiche del consumatore o dell’utente, le quali vengono traslate all’interno del product design. L’implementazione dei sistemi di Realtà Virtuale e Aumentata, dunque, costituisce un significativo passo in avanti verso questa direzione.

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Come fare Storytelling, anche durante l’emergenza Coronavirus

Quando si fa storytelling non si raccontano semplicemente “storie”, bensì si comunica alla propria audience, che si deve conoscere e che si è precedentemente analizzata, un “autentico racconto”.

Accompagnare questi interlocutori verso la dimensione desiderata non è un’operazione affatto facile. Ma vale la pena affrontarla. Lo storytelling necessita di un cosiddetto habitat narrativo, all’interno del quale si invitano i soggetti scelti, verso un comune destino.

Bisogna analizzare la realtà e riprodurla. In maniera coerente e strutturata. Partendo da qui si possono creare contenuti unici che sappiano nel tempo mantenere ed assicurare credibilità. Ecco da dove inizia la sfida.

LEGGI ANCHE: Corporate Storytelling: come raccontare al meglio la tua storia (e quella del tuo pubblico)

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Perché raccontarsi: necessità o inadeguatezza?

Il termine storytelling oggi è forse un po’ abusato. Per questo forse ci si è dimenticati della sua naturale accezione e della sua complessa struttura.

Raccontare aiuta certamente a riflettere ed esprime intrinsecamente, una volontarietà che può configurarsi in ambito digital, come una vera e propria necessità: vendere ad un pubblico specifico, con una direzione business-oriented, oppure esprimere una dimensione di inadeguatezza.

Talvolta esigiamo di voler elaborare un “racconto” di noi, pensiamo di aver in pugno tratti unici ed irripetibili, che la storia da proporre sia vitale per noi e per chi ci ascolta. Può essere così, ma bisogna ricordare sempre di essere sinceri quando si racconta: è fondamentale, al di là di tutto, per arrivare al cuore di chi ascolta.

6 variabili chiave dello Storytelling

L’attività di storytelling necessita di un’organizzazione ben precisa. La delinerei, come riportato dalla Marvel Cinematic Orchestra, un vero e proprio insieme di “regole e passaggi facenti parte di una strategia molto più ampia”.

Ecco le sei variabili chiave dello storytelling ed i suoi più importanti protagonisti:

  • Story listener (lettore o ascoltatore del racconto)
  • Story (il racconto in sé che deve essere adatto ai canali digitali di distribuzione)
  • Show (modalità di svolgimento)
  • Story-teller (chi potenzialmente influenza le storie e ne determina la cosiddetta story-experience)
  • Story-architect (il “creatore della dimensione” desiderata)

Che ti piaccia o no, ognuna di esse non può esistere da sola e tutte insieme, formeranno il tuo racconto.

Partire dal lettore. Si comincia da qui

Partiamo dal presupposto che non dobbiamo, e non possiamo, piacere a tutti. I racconti devono innanzitutto presentarsi come coerenti e reali. Parti da un obiettivo ben delineato, la cosiddetta core-story, e ricordati alcune semplici domande da porti prima di iniziare. Questo processo, seppur presentato in minima parte, ti aiuterà senz’altro a capire a chi ti stai rivolgendo.

  • Chi è il tuo pubblico?
  • Perché l’hai scelto?
  • Che età ha?
  • In quale canali riuscirà a seguirti meglio?

La checklist per iniziare a fare storytelling

Pubblico analizzato, obiettivi chiari e sinceri. Adesso ci siamo, quasi! Prima di raccontare e fare storytelling, analizzate per l’ultima volta la vostra core-story e create uno storyboard accattivante che sappia conquistare il target di riferimento.

Poniti gli ultimi doverosi quesiti:

  • Quale tipo di immagine preferisce il mio pubblico?
  • Quale contesto?
  • Quali immagini potenzialmente rifiuta?

LEGGI ANCHE: La narrazione è un habitat dove abitiamo, viviamo, competiamo: Storytelling for dummies di Andrea Fontana

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Mai fermarsi con lo storytelling, neanche durante l’emergenza

Da professionisti della comunicazione, è doveroso riflettere su alcune azioni da adottare in queste drammatiche settimane. Condividere esperienze, anche e soprattutto adesso, può rivelarsi di grande aiuto, specie nella comunità “always-on”, di tutti i professionisti digitali che sono in difficoltà sul come rivedere i propri piani editoriali e continuare il racconto dei brand che gestiscono.

Ecco alcuni consigli, frutto della reale esperienza sul campo (ma anche di un forte senso civico) per operare al meglio nei circuiti digitali, anche durante l’emergenza Coronavirus.

Leggi le attuali norme ministeriali

Per prima cosa, dai un’attenta lettura alle ultime disposizioni ministeriali per consigliare al meglio i clienti su quali notizie tenere d’occhio e quali  comportamenti mantenere.

Rimodula i piani editoriali

Elimina tutti i post inopportuni o che mirino a valorizzare i prodotti dei clienti, specie se durante momenti attualmente sconsigliati, quali l’aperitivo o l’after dinner.

Stop a qualsiasi evento o manifestazione che presupponga un luogo fisico in cui incontrarsi.

Elimina, se in programma, eventi ed altre manifestazioni che non possono, attualmente aver luogo.

Non consigliare di partire

Se gestisci i canali di comunicazione di un’agenzia di viaggi, ad esempio, ricorda che non è possibile al momento partire. Meglio puntare, quindi, su contenuti esperienziali, ricordando viaggi indimenticabili che potranno essere ripresi non appena tutto tornerà alla normalità. Una buona idea potrebbe esser quella di condividere ricette locali dei luoghi visitati e da riproporre, al momento, in casa, magari creando engagement proponendo attività che mirino alla condivisione da parte dei follower.

Evita le battute divertenti (potresti rischiare la gaffe)

Essere divertenti può non essere la strada giusta al momento. Piuttosto informa la tua community delle nuove disposizioni in vigore, fai capire che ci sei e che non abbandonerai i tuoi follower.

Continua le campagne di routine

Non sospendere campagne “di routine”, ma fai vedere che continui a presidiare i tuoi canali digitali. Assicurerai così, la costanza di parametri quali Traffic Generation e Social Engagement in maniera sana, soprattutto in ambito Social Media Marketing. Proponi contest e premia i contenuti migliori, ma sempre invitando tutti a rimanere a casa (presenta badge #iorestoacasa per Instagram Stories: è una possibilità di grande visibilità tra tutti coloro che ne fanno uso, all’interno della piattaforma). Valorizza eventuali promo online per eCommerce.

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Affronta con buon senso la situazione

Controlla le promo attive, rimodulale, e se necessario modificate i messaggi! Utilizza, soprattutto per il mondo del Food&Beverage, dirette live e i vari strumenti che ti permettano di creare webinar per consigli e piccole masterclass. Se gestisci i canali di band musicali, ad esempio, potresti coinvolgere gli utenti in attività di pura brand awareness e, creare delle dirette.

Consiglia sempre di osservare tutte le norme per ridurre potenziali contagi

Ricorda, laddove possibile, che è impegno di tutti adottare le norme attuali per evitare il più possibile nuovi contagi. Il comportamento degli utenti che ti seguono online, specialmente per un brand o un’attività con alto Customer Loyalty (ma non solo), è sicuramente quello di scoprire e monitorare anche l’impegno sociale.

influencer virtuali

Top model avatar e virtual influencer saranno il futuro della pubblicità?

  • La natura sempre più reale degli avatar digitali li ha resi oggi difficilmente distinguibili dalle persone reali
  • Un recente report di HypeAuditor, mostra un tasso di coinvolgimento sui social quasi tre volte superiore rispetto agli influencer reali

 

Un futuro che ha molti potrebbe sembrare strano è stato illustrato durante l’ultima edizione del CES 2020 di Las Vegas. È stata una società che crea immagini in AI di modelli e modelle che possono essere personalizzati in termini di tratti somatici, colore della pelle e capelli, insieme al colosso dei cosmetici L’Oréal, ad evidenziare come l’intelligenza artificiale può essere sempre di più essere messa a disposizione dei brand per creare servizi fotografici senza avere bisogno di modelle e modelli in carne ossa.

La natura sempre più reale degli avatar digitali li ha resi oggi difficili da distinguere dalle persone reali. La tecnologia può realmente cambiare il modo in cui i modelli o gli influencer compaiono nelle pubblicità, nei post e nei contenuti dei brand e le modalità in cui vengono negoziati contratti e compensi.

Immaginiamo di essere un brand di moda che oggi decida di adottare per la sua strategia di comunicazione l’utilizzo di un influencer. La gestione di un influencer richiede costi organizzativi e tecnici come l’invio di capi, l’acquisto di biglietti per partecipare ad eventi, costi logistici e di trasporto.

Se invece scegliessimo un virtual influencer non dovremmo affrontare costi di gestione o spese varie, ma solo ed esclusivamente costi di produzione ed elaborazione grafica e un contratto on l’eventuale azienda che detiene i diritti del virtual influencer.

Esistono già tanti avatar e influencer virtuali che compaiono sulla copertina di riviste di moda internazionali nei feed di numerosi brand di moda.

Si chiamano Miquela, NoonoouriShudu, Imma e Daisy. Hanno volti riconoscibili e milioni di followers su Instagram. E ovviamente i loro outfit sono sempre perfetti.

Secondo quanto mostrato dal rapporto di HypeAuditor, hanno un tasso di coinvolgimento sui social quasi tre volte superiore rispetto agli influencer reali.

LEGGI ANCHE: Chi sono i virtual influencer e come hanno conquistato anche la Cina

I virtual influencer sono il futuro del marketing?

Difficilmente 20 anni fa ci saremmo mai potuti immaginare che modelle o influencer virtuali avessero mai potuto sostituire top model reali nella comuniazione dei brand. L’industria della moda è certamente uno dei primi settori ad aver implementato l’utilizzo di virtual influencer nella propria comunicazione e strategia di marketing.

E sono sempre più numerosi i brand che iniziano a testare queste nuove forme di comunicazione soprattutto sui canali social.

Prima di considerare i pro e i contro dell’utilizzo di virtual influencer esploriamo alcuni esempi.

Daisy

Uno dei brand che sta utilizzando l’AI e ha creato un proprio avatar digitale è Yoox che ha sviluppato Daisy, protagonista principale dell’account instagram del famoso eCommerce di abbigliamento. Daisy sta impersonificando il brand cercando di avere un contatto diretto con i follower.

L’impressione guardando il profilo Instagram. È quello di seguire una vera e propria content creator che si cimenta in diverse attività quotidiane indossando i capi dei suoi brand preferiti.

Tuttavia quello che si nota visionando on più attenzione le caption dei post e i commenti degli utenti, i contenuti non generano grandissimo coinvolgimento e diversi utenti non sempre apprezzano la sue figura e le sue forme ancora non perfettamente umane.

Lil Miquela

Lil Miquela è stata una delle prime virtual influencer, tanto che oggi è ormai una star di Instagram. Oggi il suo seguito è impressionante con 1,6 milioni di follower e sta aprendo la strada a una nuova ondata di It Girl non convenzionali.

Dal 2016 ad oggi si è trasformata da un semplice pixel a una delle influencer più conosciute, conquistando il mondo della moda, della musica e dei social media. Ha collaborato con i più importanti brand come Prada, Samsung, Vetements, Chanel e tanti altri. Le descrizioni dei suoi contenuti sono molto dettagliate e personali, ricchi di emozioni personali e improntati alla scoperta di sé.

Colonnello Sanders

Gli avatar e i virtual influencer non hanno solo conquistato la curiosità dei brand di moda. Si stanno diffondendo nel mondo della musica e anche in quello del food.

L’esempio più significativo è quello del profilo Instagram di KFC. L’iconico colonnello Sanders, storico fondatore del marchio, è apparso per qualche settimana sotto forma virtuale con le sembianze di un influencer hipster.

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I suoi contenuti sono irriverenti e attraverso classiche pose e situazioni in cui è facile ritrovare i veri influencer, svela i  segreti del successo dietro alla sua figura e al brand KFC. Un esperimento che ha avuto un grandissimo successo dimostrato anche dell’engagement dei vari post. Una parodia dell’influencer moderno che ha permesso al brand di divertirsi e far divertire i suoi utenti.

Virtual influencer: reale opportunità o moda passeggera?

Una cosa è certa: il fenomeno è in grandissima crescita, così come i fan che seguono questi influencer del futuro. Non hanno solo apparenze normali, ma comunicano stili di vita molto vicini alla realtà.

È normale che nel lungo termine i dati permetteranno di capire se gli utenti, sempre più in cerca di autenticità e sincerità sui social, continueranno ad apprezzare queste figure virtuali.

Quello che possiamo affermare è che oggi non tutti gli avatar vengono percepiti come finti, poiché ognuno di loro è stato pianificato per sembrare un personaggio reale. Infatti nei loro account pubblicano in maniera costante contenuti anche attraverso le stories, vivono situazioni quotidiane reali, comunicano con gli utenti seguendo le caratteristiche di personas ben definite e pianificate a priori.

Le loro vite seppur digitali e studiate a tavolino, riescono comunque ad esprimere quei caratteri emozionali ed ispirazionali facendo in modo che i loro follower riescano in qualche modo ad immedesimarsi nelle loro situazioni quotidiane.

Tuttavia dall’altro lato possiamo sicuramente affermare che ancora oggi c’è sempre qualcosa di straordinariamente potente e coinvolgente nei contenuti realizzati da persone e influencer reali, che attraverso la loro personalità si collegano con il loro pubblico. Influencer virtuali come Lil Miquela possono essere creati per fingere di avere emozioni umane, ma questo potrebbe facilmente ritorcersi contro se il suo pubblico iniziasse a dubitare che quelle emozioni non siano sufficientemente reali.

È anche vero che i virtual influencer potrebbero apparire in diversi luoghi o eventi contemporaneamente, concedere in licenza le loro immagini e aumentare la quantità di contenuti prodotti in maniera esponenziale rispetto a un influencer reale.

Assisteremo a un futuro in cui i virtual influencer prevaricheranno su quelli reali? Molto probabilmente no, ma sicuramente continueremo ad avere una crescente coesistenza tra reale e virtuale.

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Outreach e link earning: come fare link building di qualità

La link building per molti è considerata un argomento ostico, quasi esoterico. Passatemi iltermine soltanto per far capire il livello di complessità che questa disciplina porta con sé. 

Le regole sono certamente cambiate nel corso del tempo e coloro che non sono stati in grado di apprendere e adattarsi alle regole in continua evoluzione e ai requisiti crescenti in termini di competenze, strumenti, dettagli, hanno dovuto rinunciare ai loro “trucchi per la creazione di link del tutto artificiali”.

Link Building e Tecniche white hat

Iniziamo a dire che la link building è morta per coloro che non sono riusciti ad adattarsi alle novità e ai cambiamenti che Google stesso ha imposto in tutti questi anni.

Si è parlato molto dei link come fattore di posizionamento. Molti SEO si sono concentrati soltanto sulla parte on-site e sulla parte contenutistica, tralasciando o sottovalutando altri aspetti.

Outreach e link earning: come fare link building di qualità

Come Google Penguin, nel 2012 cambia il modo di lavorare

Prima di aprile 2012, si poteva facilmente migliorare la propria posizione nelle SERP comprando link di ogni tipologia e fattura poiché il famoso concetto attuale della qualità non era per nulla presente. Grazie a Dio, tutto ciò non è più possibile adesso fare link building diventa un’attività molto difficile e soprattutto dispendiosa in termini di effort da dedicare.

I link di pessima qualità, ormai, possono rappresentare un rischio  e dovresti sapere come evitare di incappare in pesanti penalizzazioni se non addirittura essere bannati.

Un link è una semplice connessione tra A e B

Un collegamento ipertestuale è una connessione dalla pagina di riferimento alla pagina di destinazione. Purtroppo però per troppo tempo, i SEO sono stati ossessionati dal concetto di Pagerank o qualunque metrica del sito da quale prendere un link. 

Stato dell’arte della Link building

Per i vari motivi che abbiamo citato la link building ormai è diventata un’attività per professionisti, basti pensare che ci sono persone che di lavoro nascono come link builder, magari anche senza nozioni di SEO tecnica. Non a caso sono nate anche piattaforme che permettono di fare outreach in maniera semplice garantendo elevati standard di qualità. 

Infatti rispetto al passato dove tutto era lecito, perché spendere molti soldi per link che probabilmente prima o poi ti faranno molto, ma molto male? 

LEGGI ANCHE: Anatomia di una pagina SEO: quali fattori ottimizzare per migliorare il posizionamento

Outreach e link earning: come fare link building di qualità

Cosa intendi veramente quando senti parlare di link building?

Quando ci riferiamo a un backlink intendiamo un riferimento da un’altra pagina web alla tua pagina web. Questo è molto diverso dai link “in uscita” o in uscita dalla tua pagina. Non confondere i due. Un backlink viene anche chiamato link in entrata (IBL), a volte e questi link sono molto importanti nel determinare la popolarità (o l’importanza) di un sito web per i motori di ricerca come Google.

Perché i link sono così importanti?

  • I link sono il primo fattore di ranking di Google
  • I collegamenti sono il Web
  • I link indicano ottimi contenuti (che meritano un buon posizionamento)
  • I link passano juice
  • I collegamenti passano trust
  • Google ha confermato che sarebbe innaturale trovare un sito web senza backlink
  • Attraverso i link Google scopre il sito

Nel marzo 2016, in un Q&A, Andrey Lipattsev, Search Quality Senior Strategist di Google, questi ha affermato che i primi due fattori di ranking sono link e contenuti:

I can tell you what they are. It is content. And it’s links pointing to your site.

I backlink non sono tutti uguali

Prima di parlare di qualità dei link, bisognerebbe subito abbattere un vecchio preconcetto: più link sono, meglio è!

Invece non è affatto così meglio ricevere pochi link, ma tutti di qualità. Vedremo dopo cosa intendiamo per qualità, perché ricevere una marea di link da siti di dubbia qualità avranno come risultato solo quello di farci penalizzare da Google.

I link non sono per nulla tutti uguali. Il punto è capire:

  • su quali pagine far puntare i link?
  • Quanti link al mese?
  • Che tipo di link (dofollow, No Follow, Reindirizzamenti, Javascript, Frame, ..)?
  • Con quali anchor text linkare (“money keywords” o “Brand”)?
  • Che rischio ci prendiamo con questo link?

Inoltre, questi fattori possono essere valutati in modo diverso in casi diversi. Un link può anche essere buono o cattivo a seconda del settore, del paese, della lingua e delle parole chiave. Sfortunatamente, non esiste una regola generica. Ad esempio, NON è lo stesso se un dominio si collega a 1.000 sottopagine o se 1.000 domini si collegano a una sottopagina. Ecco perché consiglio sempre di utilizzare tool come Majestic, Ahrefs o SEMrush.

Caratteristiche di un link buono

Per essere considerato positivo, un link dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:

  • Proveniente da fonte autorevole
  • Alto valore DOM/POP
  • Elevato TRUST
  • Lingua
  • Variazione di IP e Classe C
  • Appartenenza alla stessa nicchia
  • Distribuzione ragionata Anchor Text
  • No link a raffica
  • No scambio link
  • Presenza o meno del tag nofollow
  • Indirizzare i link in profondità e non solo verso la home

Outreach e link earning: come fare link building di qualità

Come fare Outreach

Esistono diversi modi per intercettare link e qui ne riportiamo alcuni.

Richiedere backlink

Questo è un buon modo per iniziare, soprattutto se sei agli inizi in questo settore. Pensa ai tuoi amici, parenti, colleghi, partner, clienti che hanno un blog o un sito. Tutto quello che devi fare è chiedere un backlink. Richiedi sempre link nel contenuto anziché link nella sidebar o nel footer.

Ma fai attenzione e assicurati che il backlink provenga da un sito web pertinente per la tua nicchia. Altrimenti, non avrà un impatto ottimale e potrebbe persino essere dannoso.

Costruire relazioni

Per ricevere buoni link, è necessario costruire buone relazioni. Ci sono molte opportunità per creare nuovi contatti. Dovresti iniziare con community correlate alla nicchia: forum, blog o gruppi sociali.

Fai il primo passo e inizia a contribuire con commenti e post interessanti e pertinenti, fornendo valore contestuale a ogni discussione.

Partecipando attivamente a queste comunità online incentrate sulla tua nicchia, non solo otterrai alcuni buoni backlink, ma avrai sempre accesso alle ultime novità del settore e sarai in grado di collegarti ad alcune persone interessanti che condividono le tue passioni.

Avviare un blog

Non creare un blog con un post e un backlink al tuo sito. Se lo fai, non solo hai perso tempo, ma probabilmente hai anche creato un altro link rischioso per te stesso. Se vuoi avere il tuo blog, devi tenerlo in vita.

Scrivi post su base regolare. Concentrati sul tuo settore e sulle esigenze del tuo cliente. Con il tempo, molto probabilmente acquisirà autorità. Assicurati che i tuoi contenuti siano pertinenti, utili e ben strutturati.

Questo è l’unico modo per garantire che il mondo vorrà navigare il tuo blog più volte. 

Scrivere un buon guest post per altri

Ci sono molti siti e blog che accetteranno di pubblicare il tuo articolo. Prima di scrivere un articolo da qualche parte, assicurati che:

  • Il sito web o il blog è pertinente al tuo argomento
  • L’articolo non riguardi quanto sei grande o la tua azienda
  • Focalizzati sulla qualità (ben scritto, professionale e interessante)
  • Tieni presente che un articolo scadente può avere un effetto contrario

È importante creare link che aiutino il tuo sito web e non link che possono influire negativamente sul posizionamento del tuo sito nei risultati di ricerca.

LEGGI ANCHE: Google valuterà di più menzioni e citazioni senza link (e meno i backlink)

Outreach e link earning: come fare link building di qualità

Qualche suggerimento per chi è già esperto

Scopri i backlink comuni della concorrenza

Se cerchi i tuoi concorrenti, noterai probabilmente che hanno alcuni backlink in comune che non hai ancora. Bene, se sono riusciti a ottenere questi backlink, perché non dovresti farlo anche tu? Strumenti come SEMrush e Majestic ti aiuteranno a farlo.

Ottieni un backlink indiretto dal tuo competitor

È abbastanza comune che alcuni dei tuoi competitor ricevano link dagli stessi siti. Trova questi siti ed inserisciti in questo schema. Questi siti hanno generalmente grande authority nel tuo settore.

Recupera i backlink persi

A volte potresti trovare collegamenti rotti al tuo sito web. Questo può accadere se la posizione della tua pagina cambia o se un altro webmaster ha sbagliato a scrivere il tuo link. In entrambi i casi, questi backlink restituiranno un errore 404.

Tali problemi possono anche verificarsi comunemente dopo il riavvio o la migrazione di un sito in un altro dominio. Dovresti quindi reindirizzare questi backlink verso un’altra pagina presente.

Trasforma le tue menzioni in backlink

Questo è probabilmente uno dei modi più semplici per ottenere alcuni backlink nuovi. Qualcuno ha già scritto qualcosa su di te. Hanno menzionato il tuo brand o prodotto, ma non hanno messo un link al tuo sito web. In situazioni come queste, di solito è sufficiente contattare il webmaster e chiedergli di convertire quella menzione in un backlink.

Hai ma sentito parlare di link earning?

La link building è sicuramente ancora una delle tecniche SEO più utilizzate ed efficaci. Come detto in precedenza, richiede investimenti in strumenti affidabili per fare outreach, tuttavia, richiede anche molto lavoro manuale. 

Non tutti i link creati però sono uguali. Quelli ricevuti da siti autorevoli possono migliorare il tuo posizionamento in maniera importante, mentre altri possono danneggiare il tuo sito su più livelli. Per non parlare del fatto che qualsiasi attività di link building fatta male può farti addirittura penalizzare e danneggiare le prestazioni a lungo termine del tuo sito.

Proprio per questo motivo, la SEO off-site è una questione abbastanza delicata e dovrebbe sempre essere fatta da professionisti. Questa è in realtà la principale differenza tra comprare link e/o guadagnarseli naturalmente, stiamo parlando del concetto di link earning.

Il guadagnarsi link può essere definito come una nuova forma più saggia di accrescere il proprio trust nei confronti di Google. Il tutto ruota intorno alla creazione di risorse pertinenti e coinvolgenti che apportano valore sia ai motori di ricerca che ai loro utenti. Il concetto di link earning ruota sulla strategia di creare contenuti dall’alto valore, così alto che la gente deve avere voglia di farne share. Da questo buzz dovresti ottenere dei link in entrata.

L’obiettivo principale di Google è, proprio come per qualsiasi altra azienda, guadagnare denaro. E Google non può guadagnare nulla se non fornisce una buona esperienza utente. Una buona esperienza utente, a sua volta, arriva con risultati di ricerca validi e pertinenti. 

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Crea contenuti eccezionali

Va bene, è ovvio, ma nella sua banalità è incredibilmente importante. Oggi, creare un pezzo di qualità non si riduce a scrivere un articolo di 500 parole e chiedere a un blogger di pubblicarlo. Al contrario, si tratta di investire tempo e sforzi nella conduzione di una ricerca approfondita e nella creazione di contenuti di alta qualità, coinvolgenti e interattivi.

Non limitarti ai soli articoli. Sperimenta diversi tipi di contenuti, dai video alle infografiche, guarda cosa risuona con il tuo pubblico di destinazione. Assicurati che ogni post sia supportato da ricerche pertinenti. I tuoi contenuti devono rispondere alle domande del pubblico e consentire loro di partecipare attivamente alla “conversazione”.

Una volta che iniziano a notare la qualità dei tuoi contenuti, i tuoi lettori ti vedranno come una fonte affidabile di informazioni e link al tuo blog, senza che tu debba alzare un dito.

Che cosa significa contenuti di qualità per Google?

Un contenuto è di qualità quando è:

  • Desiderabile
  • Trovabile
  • Utile
  • Accessibile
  • Credibile
  • Prezioso

Google controlla le caratteristiche tecniche del tuo sito come la velocità di caricamento del sito, la navigazione, il design, i metatag o la complessità

Ma c’è qualcosa di più; un fatto davvero semplice: un buon contenuto ti porterà molti backlink naturali. E anche Google guarda i link. In effetti, i collegamenti sono il fattore di ranking primario per Google, come più volte detto.

Quindi il tuo obiettivo sarà quello di creare contenuti che la gente avrà voglia di linkare.

I limiti della Link earning

In primo luogo, tra i limiti, vi è un dato statistico: solo le anchor text esatte spostano posizionamento, mi sembra di poter affermare in maniera abbastanza decisa che sono in pochi coloro che ti linkano con anchor text in maniera naturale e quindi non otterrai miglioramenti di ranking se non solo, per modo di dire, miglioramento di trust (fiducia) e juice (valore che passa da un sito all’altro).

Un altro forte dubbio deriva dal fatto che i link naturali solitamente puntano solo esclusivamente verso l’home page o una landing sola del tuo sito quindi non ne beneficia il sito nella sua globalità in termini di posizionamento.

L’ultimo dubbio deriva dal fatto che non tutti lavorano per brand sexy, così sexy che tutti vorranno fare share di quei contenuti. In queste situazioni viene sempre voglia di pensare ad un povero marketing manager di un’azienda di bulloni che deve creare contenuti così ammalianti da scatenare un buzz incredibile, difficile no?

Siti dropped si o siti dropped no?

Prima di tutto stabiliamo subito cosa è un dropped site. Si tratta di siti che sono scaduti, quindi il proprietario non ne ha rivendicato la proprietà rinnovando il servizio di hosting per esempio. Vi sono piattaforme come nidoma.com o match.it che permettono di comprare questi domini.

Comprandoli recuperi più o meno il loro trust e i backlink in entrata, ma lato SEO possono aiutare? La questione è piuttosto annosa, per far sì che il sito possa esser preso in considerazione sarebbe fondamentale recuperare la struttura precedente e continuare con il core business precedente, questo succede spesso? Ahimè no! Molti tramutano tutto il core del sito e secondo me questi siti non sono buoni e non ha senso prendere link da qui.

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Link building: conclusioni finali

Ti invito a iniziare a creare la tua prima campagna di link building. Ma prima di farlo, assicurati di fare un controllo dettagliato dei link e rinnegare tutti i link di spam che hai acquistato in passato e utilizzare tool che ti permetteranno di fare una link audit per fare in modo che Google esegua la scansione dei link nel tuo file di disavow più velocemente. Rinuncia a tutti i link ad alto rischio. Non vuoi che Google li trovi, vero? 

filiera agroalimentare coronavirus

Coronavirus: l’impatto dell’epidemia sulla filiera agroalimentare e sui retailer italiani

  • Con il dilagare dell’epidemia da Coronavirus, sono rapidamente mutate le abitudini degli italiani, alimentari e non
  • Le imprese si sono trovate a doversi reinventare per rispondere al cambiamento dei fabbisogni della popolazione
  • Molti dei cambiamenti in atto sono destinati a rimanere nelle abitudini d’acquisto, anche in una fase successiva

 

Ad un mese dall’inizio della quarantena imposta dal governo per contenere l’epidemia di Covid-19, i mercati si sono trovati a fare i conti con un brusco cambiamento dei fabbisogni della popolazione, che ha fatto emergere l’esigenza di un rapido ripensamento dei modelli di business da parte delle imprese.

Alcune aziende si sono parzialmente o radicalmente reinventate per far fronte alle esigenze attuali. Dalle griffe della moda come Gucci, Prada o Armani, che hanno riconvertito alcuni degli stabilimenti, italiani e non, per la produzione di camici e mascherine da destinare al personale sanitario; ai noti brand di alcolici, tra cui Absolut Vodka, Martini e Bacardi, che si stanno adoperando per soddisfare la domanda crescente di gel disinfettante a base alcolica che scarseggia in farmacie e supermercati.

Per descrivere la fase che stiamo vivendo, vi è stato un ampio utilizzo dell’espressione economia di guerra, spesso contestato come uso improprio.

LEGGI ANCHE: Come cambiano le regole del Business nella recessione guidata dal Covid-19

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Senza addentrarsi troppo in una disquisizione linguistica sulla pertinenza di questa locuzione, possiamo affermare che la situazione attuale presenta senza dubbio delle importanti analogie con un’economia bellica, in termini di necessità di un adeguamento quanto più rapido e tempestivo del sistema economico ai bisogni derivanti dall’emergenza in atto.

Quando si fa fronte ad un’economia di guerra, un ruolo chiave è svolto da quei settori che si trovano a dover fornire beni di prima necessità, primo tra tutti il settore agroalimentare, il cui corretto andamento è di primaria importanza anche per far sì che la paura della scarsità non scateni una corsa all’accaparramento e, di conseguenza, un pericolo per l’ordine pubblico.

L’intera filiera agroalimentare italiana si trova di fronte a un forte aumento della domanda di prodotti alimentari, dato che, stando perennemente in casa, le persone finiscono per cucinare e mangiare di più rispetto a quanto facciano normalmente.

LEGGI ANCHE: Gli eroi che combattono il Coronavirus sono anche nella filiera alimentare

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Gli effetti della pandemia sui consumi e sulla produzione

L’inizio della quarantena non ha cambiato solo le abitudini degli italiani, ma anche i loro carrelli della spesa.

I dati Nielsen evidenziano un calo degli acquisti di prodotti freschi a favore di quelli a lunga conservazione come riso (+33%), pasta (+25%), scatolame (+29%), derivati del pomodoro (+22%).

Il presidente di Confagricoltura, Massimo Giansanti, ha rivolto un invito alla popolazione di preferire i prodotti italiani per salvaguardare la propria salute e al contempo sostenere il Made in Italy, rassicurando i consumatori sul fatto che la filiera agroalimentare continuerà a garantire gli approvvigionamenti e a rifornire i supermercati.

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A questo, si è aggiunto un appello della ministra alle politiche agricole Teresa Bellanova a non rinunciare ai prodotti della tradizione e a continuare a comprare prodotti italiani nell’interesse della salute e dell’economia nazionale: Ai cittadini dico: fate la spesa, seguite le regole di sicurezza e comprate italiano. Oggi più che mai facciamo sentire l’orgoglio di essere uniti, anche quando facciamo la spesa. Noi siamo l’Italia e l’Italia fa bene”.

Ma non è tutto. In un’intervista al Corriere Della Sera, Massimo Giansanti ha parlato in toni allarmanti di una carenza di manodopera, che potrebbe rappresentare un serio pericolo ora che si avvicina la stagione della raccolta nei campi. Con le persone colpite dal virus, quelle in quarantena e gli stagionali stranieri rientrati nei Paesi di origine che non possono tornare in Italia per il blocco della circolazione — ha spiegato — nelle campagne mancano braccia. E siamo in un momento cruciale: si avvicina la stagione della raccolta degli ortaggi e della frutta estiva. Servono almeno 200 mila persone subito”.

Il Ministero dell’Interno ha già accolto la richiesta di Confagricoltura di una proroga dei permessi di soggiorno in scadenza di quei lavoratori immigrati impiegati nella raccolta ortofrutticola.

Ironia della sorte, proprio gli stessi lavoratori a cui fino a non molto tempo fa si volevano chiudere le porte (e i porti) dei confini nazionali.

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Le imprese e la gestione dell’emergenza nella filiera agroalimentare

Un importante punto di partenza per la gestione dell’emergenza, come suggerito da Bain & Company, è quello dell’attivazione di un Emergency team formato da un gruppo ristretto di chief aziendali che lavorino a stretto contatto con manager, amministratori delegati, direttori finanziari, per formulare soluzioni cross-funzionali basate su una valutazioni rapide dei rischi e delle esigenze di mercato.

La tutela della sicurezza di clienti e dipendenti dev’essere sempre al primo posto: incentivando dove possibile il lavoro in modalità smart working e implementando gli strumenti digital per lo sviluppo e l’ottimizzazione degli e-commerce, che in questo momento stanno vivendo un boom (+82%), destinato a rimanere nelle abitudini d’acquisto dei consumatori italiani, anche in una fase successiva.

Come affermato da Duilio Matrullo, potrebbe essere questa l’opportunità per colmare un gap del mercato italiano sul fronte degli acquisti online, rispetto ad altri paesi europei.

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Per i retailer alimentari, l’osservazione delle norme igieniche e di sicurezza deve avere la massima priorità: dalla sanificazione degli ambienti di lavoro e delle superfici, alla riduzione ai minimi termini dei contatti tra le persone e dello scambio di denaro contante.

Per quanto riguarda i prodotti freschi, potrebbe essere opportuno garantire una fornitura locale, limitando quanto più possibile gli scambi inter-regionali e anche adattando i packaging alle esigenze del momento (packaging monoporzione o formato famiglia).

È fondamentale, inoltre, avere delle unità locali che monitorino costantemente da un lato l’andamento dell’emergenza sanitaria e dei contagi, dall’altro i dati relativi agli acquisti dei cittadini. In questo modo, si potrà rispondere con una programmazione dettagliata e aggiornata in tempo reale e da remoto, che risponda prontamente alle richieste della popolazione che, di questi tempi, sono suscettibili di cambiamenti significativi di settimana in settimana.

Che cos’è l’Additive Manufacturing, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano

 

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Massimo Martorelli, docente di Disegno e Metodi dell’Ingegneria Industriale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università degli Studi di Napoli Federico IIPuoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Il Prof. Martorelli ritiene che la pervasività e un certo successo dell’Additive Manufacturing sia dovuto anche al movimento dei makers: Negli ultimi anni i Makers, ovvero gli artigiani digitali di ogni età e provenienza si riuniscono per scambiarsi informazioni, nei FabLab (Fabrication Laboratory) oppure condividendo i modelli CAD”.

Questo rende certamente, tale tecnologia, molto più accessibile rispetto a tanti anni fa: “Prima, per andare a realizzare dei prototipi, anche solo per visualizzare e verificare se quel componente era stato progettato correttamente, era necessario ricorrere a delle stampanti molto costose. Oggi invece c’è la possibilità di utilizzare stampanti accessibili a tutti, low cost.

Si tratta, insomma, di una tecnologia piuttosto accessibile anche per le piccole e medie imprese e per per quelle attività artigianali che non devono veder minacciato il loro valore aggiunto, la maestria e unicità della manualità del nostro territorio:Direi che non c’è conflitto tra le tecniche AM e i valori dell’artigianato, anzi. Le tecniche di AM possono essere un vero e proprio aiuto per gli artigiani, accompagnando il lavoro che già facevano con un supporto in più. Possono aiutare nella realizzazione di forme complesse, e quindi affiancare la parte tradizionale aggiungendo nuove competenze”.

Approfondimenti

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’espressione Additive Manufacturing (abbreviato generalmente nella sigla AM) si riferisce ad una serie di tecnologie in grado di costruire oggetti fisici- siano essi prototipi o prodotti finali- a partire da modelli digitali in 3D precedentemente realizzati. Esse si servono di materiali di vario tipo, i quali vengono sottoposti ad un processo additivo: l’oggetto, sulla base del progetto tridimensionale che lo descrive accuratamente in formato digitale, viene così realizzato strato dopo strato. 

Tali tecnologie, di cui ormai si parla in maniera intensiva per via delle loro molteplici applicazioni, spesso si trovano indicate anche con le espressioni 3D Printing (abbreviata in 3DP) o Rapid Prototyping (o RP, primo termine usato per identificare queste tecniche). 

Il primo punto da prendere in considerazione per quanto riguarda le stampanti 3D è la realizzazione della versione digitale dell’oggetto che verrà poi stampato. Il modello 3D può essere realizzato attraverso tecniche e strumenti diversi. Ad esempio, essi possono essere realizzati a partire da zero con i software CAD (Computer Aided Design), vale a dire quei software di modellazione geometrica atti a supportare l’attività di progettazione di manufatti. Oppure, essi possono essere ricavati attraverso scanner 3D (sistemi laser o sistemi di Reverse Engineering non a contatto attivi; o fotogrammetria digitale, sistema di Reverse Engineering non a contatto passivo). 

Oltre alla realizzazione del modello digitale 3D al CAD è anche possibile scaricare modelli 3D direttamente da Internet grazie a siti come Thingiverse o il Progetto RepRaP, ideato da Adrian Bowyer, professore dell’Università di Bath. Entrambi gli esempi sopracitati si basano infatti sul principio dell’open source e permettono quindi a ogni utente il download del modello e l’implementazione del proprio contributo.

A seguito della realizzazione del modello 3D si può passare al processo di stampa vero e proprio. Esso è caratterizzato dalle seguenti particolarità: la fabbricazione del componente avviene generalmente in modo additivo, strato dopo strato (layer by layer); la lavorazione procede in maniera completamente automatica a partire dal modello tridimensionale dell’oggetto da realizzare; la costruzione è indipendente dalla complessità della forma dell’oggetto, quindi vi è la possibilità di realizzare parti dalla forma geometrica molto complessa.

Le stampanti 3D oggi rappresentano un settore in ascesa nel mondo del business e destinato, nell’immediato futuro, a ridefinire i confini sia in ambito industriale che nella vita quotidiana. A sostenerlo è Massimo Martorelli, docente di Disegno e Metodi dell’Ingegneria Industriale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, nonché Responsabile Scientifico del Laboratorio “CREAMI (Center of Reverse Engineering and Additive Manufacturing Innovation).

La crescente importanza di tali tecnologie è dimostrata, secondo Martorelli, da due fattori chiave. In primo luogo, diverse società- anche molto importanti nei vari rispettivi settori- hanno deciso di investire in modo massiccio su tali tecnologie. Le stampanti 3D sono infatti un elemento cardine di quella che viene chiamata Quarta Rivoluzione Industriale, dopo che la prima ha visto l’avvento delle macchine a vapore, la seconda il concetto di catena di montaggio e la terza l’avvento di Internet all’interno delle aziende. 

In secondo luogo, Martorelli sottolinea che l’aumentato interesse industriale verso i sistemi di Additive Manufacturing è dimostrato anche dall’emanazione di norme Internazionali ISO/ASTM a partire dal 2013 (nonostante il primo brevetto AM risalga al 1986). Dal 2013 ad oggi sono state emanate sette nuove norme. Tra queste, troviamo quelle riguardo la terminologia standard, il formato dei file, le linee guida e le raccomandazioni per la progettazione per AM, i metodi di test e le sperimentazioni e l’overview delle categorie di processi e materie prime.

Attualmente lo sviluppo dell’ Additive Manufacturing si muove lungo due percorsi distinti ma in stretta relazione tra loro: da un lato c’è la ricerca in senso stretto, che prosegue tramite le istituzioni più tradizionali, come università e istituti scientifici.  Dall’altro lato poi ci sono i cosiddetti makers, ovvero coloro che realizzano progetti- in singolo o in collaborazione- e condividono informazioni riguardo questi, nell’ottica di una crescita sostenuta dalla sharing economy e dall’approccio peer-to-peer (ad esempio Makerbot Industries, che nasce come costola del Progetto RepRap, Ultimakers e Printrbot, quest’ultimo tra l’altro realizzato tramite crowdfunding sulla piattaforma Kickstarter).

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Le principali tecniche di Additive Manufacturing

Con il passare degli anni le tecniche di AM si sono modificate ed evolute, andando verso strumentazioni sempre più efficienti e precise. 

Esse costituiscono oggi un ecosistema ricco e vario di metodologie, strumenti e materie prime e si caratterizzano dunque per un’elevata versatilità che risulta in un ulteriore punto di forza.

Le tecniche più diffuse attualmente sono: Fused Deposition Modelling (FDM); Selective Laser Melting (SLM); Laser Metal Deposition (LMD); Digital Light Processing (DLP); Liquid Crystal Display (LCD); Selective Deposition Lamination (SDL).

Si tratta di tecniche che differiscono tra di loro per diversi elementi, come ad esempio le materie prima utilizzate per la realizzazione dei prodotti: alcune, come la DLP e la LCD si servono infatti di polimeri liquidi; altri, come la SDL, utilizzano invece fogli di carta; altre ancora, come la SLM e la LMD si servono di polveri (si parla in questo caso di powder bed– a letto di polvere- o powder deposition, polvere a getto), in particolare di metallo. Queste tecniche permettono la realizzazione di prototipi e prodotti, automatizzando i processi, riducendo notevolmente tempi e costi e introducendo, soprattutto, la possibilità di realizzare oggetti prima inconcepibili. 

Il limite di queste stampanti, se può essere considerato un limite, è che gli oggetti che esse riescono a realizzare possono essere grandi al massimo quanto il piatto di stampa. Ma ciò non costituisce un ostacolo insuperabile, poiché conoscendo il principio di funzionamento è possibile realizzare stampanti sempre più grandi, incrementando sempre di più le potenzialità di questi strumenti. Inoltre, le tecnologie AM possono essere usate in cooperazione con altri hardware e software, in particolare con i robot e i sistemi dotati di Intelligenza Artificiale, utilizzando questi ultimi per realizzare oggetti più grandi depositando il materiale su più ampie dimensioni. 

I campi di applicazione della stampa 3D

Fino a qualche anno fa realizzare oggetti fisici tramite stampanti 3D richiedeva sistemi costosi, laboratori estremamente attrezzati e software sofisticati. Ciò ha significato una limitazione alla diffusione di tali sistemi che potevano essere utilizzati solo in grandi aziende o in centri di ricerca altamente specializzati. 

Oggi invece con l’avanzamento delle tecnologie e il conseguente abbattimento dei costi l’AM è entrata a essere parte integrante di diversi ambiti, ridefinendone i processi lungo i vari step della catena di valore. 

Un ambito cui l’Additive Manufacturing restituisce soluzioni innovative e rivoluzionarie è quello medicale.  In tale settore ad esempio è possibile realizzare il progetto digitale a partire da una TAC, da una microTac o da una risonanza magnetica. Dall’immagine bidimensionale infatti si riesce a ricavare quella tridimensionale da consegnare alla stampante 3D. In questo settore l’AM può essere utilizzato per studi preventivi (come ad esempio sul labbro leporino dei feti), per studi di implantologia osteointegrativa, per la realizzazione di protesi acustiche o per il campo altamente innovativo definito come tissue engineering (ingegneria dei tessuti).

Un settore relativamente nuovo, ma che promette uno sviluppo significativo nel futuro prossimo, è quello delle costruzioni. Qui il Rapid Prototyping viene messo in pratica impiegando grandi e costose stampanti 3D. Una caratteristica che aggiunge ulteriore valore a questo campo di applicazione è la possibilità di utilizzare materiali sostenibili e riciclati, inoltre- oltre alla stampante in sé- i costi sono relativamente bassi se confrontati con i costi di realizzazione degli edifici con metodi standard.

Infine, per fare un altro esempio tra i tanti, oggi proseguono le sperimentazioni in settori più di consumo, come quello alimentare. In tale ambito ad esempio la Barilla ha stampato pasta in 3D con un concorso il cui obiettivo era realizzare nuove trafile con metodi innovativi ma con ingredienti tradizionali. I nuovi formati di pasta sono stati poi presentati all’Expo di Milano nel 2015. In questo settore poi vi è anche il progetto Nasa Advanced Food Technology Program che mira a produrre cibo tramite 3DP per migliorare la qualità di vita degli astronauti durante le missioni spaziali. O, ancora, si potrebbe fare riferimento alla nascita di Food Ink, la prima catena di ristoranti che crea cibo e stoviglie unicamente con stampanti 3D.

Vantaggi chiave

In conclusione, dunque, è possibile sintetizzare brevemente gli effettivi vantaggi che l’Additive Manufacturing è in grado di apportare sia alle industrie sia ai privati. 

Prima di tutto vi è un’ottimizzazione delle materie prime, poiché è possibile limitare gli sprechi e utilizzare materiali anche riciclabili. Uno dei punti di forza dell’Additive Manufacturing è dunque la sostenibilità

Vi è poi la possibilità di elaborare forme complesse che nell’industria tradizionale necessitano di una notevole mole di lavoro per essere realizzate, quando possibile. Dunque le tecnologie di 3D Printing vanno ad incrementare l’efficienza dei processi

Importante poi è anche il lato della customizzazione, dal momento che è possibile produrre oggetti personalizzati secondo le proprie necessità in modo relativamente semplice e poco dispendioso.

Infine, è molto interessante- soprattutto in una prospettiva volta ad osservare l’immediato futuro- il collegamento con i settori della robotica e dell’Intelligenza Artificiale. Si possono infatti utilizzare robot per realizzare strutture di grandi dimensioni o, ancora, attraverso dei software CAD all’interno dei quali sono stati implementati algoritmi di AI, si può implementare nella macchina la scelta tra una serie piuttosto elevata di possibili soluzioni, definite sulla base di vincoli e requisiti impostati dal progettista. 

Non solo dunque l’AM si qualifica come un set di strumenti e tecniche di grande utilità per il settore produttivo ma, nella sua interazione con altri sistemi hardware e software, tale innovazione promette diventare parte di un ecosistema tecnologico esteso destinato a riconfigurare l’ambito industriale e, successivamente, anche quello quotidiano.  

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Home Working: le nostre case sono pronte al lavoro da remoto?

Emergenza sanitaria. Il Governo chiede ai cittadini di rimanere in casa e invita le aziende a facilitare le persone a lavorare dalla propria abitazione. Non parliamo di un ipotetico futuro fantascientifico, ma del presente. Si passa così in poco meno di una settimana dai 570mila smart worker censiti a ottobre dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, a 8 milioni di home worker.

Dopo quasi un mese trascorso in questa condizione obbligata, è possibile fare le prime valutazioni su vantaggi e svantaggi del lavoro da casa ed è quello che ha fatto l’Osservatorio Copernico sullo Smart Working, nuove tendenze  nei luoghi di lavoro e lifestyle.

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Home Working, Smart Working e le nostre case

L’home working funziona, il sistema sta reggendo ma ormai tutti abbiamo compreso che questo modo di lavorare e lo smart working non sono due facce della stessa medaglia, né due modi diversi di esprimere uno stesso concetto. Semmai il primo può essere una parte marginale del secondo perché praticare lo smart working solo tra le quattro mura domestiche non è efficace.

Se l’home working, grazie alle tecnologie che permettono di essere connessi anche dalla propria abitazione, ha fornito una risposta efficace a una condizione di emergenza, ha creato però anche alcune difficoltà.

Se da un lato la maggiore autonomia e responsabilità ha favorito nel lavoratore un certo senso di appagamento, dall’altro ha reso difficile il work-life balance e, soprattutto per chi abita in città o in un appartamento, la sensazione più comune è stata quella di vivere in una casa che scoppia.

Infatti, se con lo smart working possiamo decidere da dove lavorare e quali attività dedicare alle giornate fuori ufficio, ora siamo costretti a vivere lo spazio domestico in una soluzione di continuità e ad adattarlo perché risponda nel corso della giornata a molteplici funzioni, condividendolo anche con altre persone che possono avere bisogni diversi.

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Come dice Francesco Scullica, architetto, professore del politecnico di Milano e direttore scientifico del Master Interior Design del Politecnico gestito da POLI.design e autore del libro Living, Working, Travelling: “Il nostro spazio domestico è improvvisamente inadeguato: i modelli di open space, di spazi a pianta libera, che ha avvantaggiato negli ultimi anni la zona living a scapito di quella più privata, sono messi in discussione”.

La casa: un modello da rivalutare?

Le case, insomma, non si adattano molto bene al lavoro continuativo da remoto. Dopo anni in cui la casa era stata poco vissuta – soprattutto dai più giovani – a favore di spazi pubblici, luoghi culturali, ristoranti e palestre, ora invece tutto accade nelle quattro mura domestiche e l’intero nucleo familiare è costretto a vivere insieme ogni giorno. E sebbene sia una situazione temporanea (che durerà si spera solo ancora qualche settimana), è pur vero che in futuro l’home working inevitabilmente sarà sempre più diffuso.

Tuttavia, è bene ricordare che lo spazio abitativo è pensato per delle funzioni diverse dal lavoro: non possiamo progettare totalmente l’architettura delle nostre case in funzione dell’home working perché perderebbero la loro funziona principale: quella di accogliere noi e le nostre famiglie nei momenti informali, di relax, di vita domestica condivisa.

“La casa non può sostituire completamente un ufficio o uno spazio di coworking. Spesso per ragioni tecnologiche, ma soprattutto per la mancanza del fattore umano. Gli uffici sono infatti spazi relazionali dove si costruiscono comunità. Sono luoghi di incontri, opportunità e scambi di idee, sono acceleratori di relazioni. Ma è probabile che si lavorerà uno o due giorni a settimana da casa” continua Scullica.

E allora, come possiamo organizzare al meglio il lavoro da casa?

In questo specifico frangente, laddove possibile, si è optato per adibire una stanza o un angolo della casa per l’attività lavorativa (magari con una scrivania, una sedia ergonomica e la giusta illuminazione) ma è il massimo che si è potuto fare in una situazione di quarantena.

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Ripensare, trasformare, rendere flessibile

Se vogliamo in un futuro rendere le nostre case più adatte ad accogliere alcune nostre giornate lavorative, possiamo provare a ripensare la distribuzione degli spazi, in particolare la suddivisione tra quello pubblico e quello privato.

“Dovremmo innanzitutto stabilire quali potrebbero essere le stanze della casa aperte a tutti, sempre, e quali gli spazi dedicati al raccoglimento e al lavoro individuale” – ha dichiarato Isadora De Pasquale, architetto progettista di Copernico – “Non sarà come lavorare da un ufficio attrezzato o da uno spazio dedicato allo smart working – che abilita il networking, offre eventi e servizi, favorisce la creatività – ma sicuramente diventerà parte di un progetto più ampio che unisce agli uffici flessibili o agli uffici delle proprie aziende anche un momento tra le quattro mura di casa”.

La parola d’ordine del futuro nell’interior design sarà insomma flessibilità, negli spazi e negli arredi. Se negli ultimi anni il lavoro di architetti e designer si era concentrato per rendere gli uffici adatti sia al lavoro sia alle relazioni, in funzione di un migliore bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa, ora è il momento di fare lo stesso all’interno delle nostre abitazioni.

Ecco allora qualche proposta del Prof. Scullica e dell’Arch. Isadora De Pasquale per trasformare (dove possibile) le nostre case in funzione dell’home working, che sempre più farà parte delle nostre abitudini.

Trasformare la casa in un ufficio?

Se trasformare la casa in un ufficio è impossibile, possiamo però quantomeno cercare di trasferire in casa alcune delle buone pratiche che solitamente adottiamo nell’arredamento funzionale degli uffici. Ecco alcuni esempi:

  • Avere uno spazio personale dedicato al lavoro. Se in ufficio questo si traduce, nella maggior parte dei casi, in una scrivania, in casa significa trovare un angolino che possiamo allestire appositamente. Può essere anche uno spazio molto piccolo, ma deve essere accogliente e confortevole, adeguato al lavoro. Uno spazio in cui non ci siano disturbi esterni, per quanto possibile. E non dimentichiamoci di creare anche uno sfondo adatto alle videoconferenze! Lo sfondo dice molto di noi e delle nostre abitudini.
  • Dare importanza ai luoghi di transizione. Come le hall negli uffici, gli spazi condivisi e i corridoi sono luoghi “neutri” in cui la mente può cambiare orizzonte e riposare: Anche se si lavora da casa è bene avere uno spazio di transizione simile. Inevitabilmente, molto spesso nelle abitazioni questa funzione è svolta dall’ingresso e dai corridoi tra le stanze. Che riacquisiscono così l’importanza che avevano perso nel tempo, tanto che in molte case oggi vengono aboliti in virtù della creazione di soggiorni open più ariosi. Ecco che nella situazione attuale, l’ingresso delle case diventa fondamentale, perché funge da filtro, sia verso l’esterno, ma soprattutto rispetto alle altre stanze della casa (così come i corridoi). Diventeranno i “cuscinetti” tra la zona di lavoro e il resto dell’abitazione, e miglioreranno il famoso work-life balance.
  • Scegliere arredi ergonomici per le zone di lavoro, senza rinunciare però allo stile della propria casa. È importante ricordare ancora una volta che una cosa è l’ufficio, altra cosa è la casa: questa distinzione resterà fondamentale alla fine di questa emergenza, quando potremo tornare ai nostri usuali luoghi di lavoro. Quindi, la scelta migliore sarà, da un lato, rendere confortevole il luogo della casa deputato al lavoro – con una seduta adatta, uno schermo sufficientemente grande e una scrivania della giusta altezza – ma, dall’altro, non dimenticare che i colori e i materiali di questa zona devono integrarsi con quelli dell’abitazione, per non spezzare l’armonia generale dell’arredamento.
  • Scegliere arredi flessibili e mobili può essere un’idea funzionale agli spazi più piccoli o più aperti. Ad esempio, tavoli che possono essere anche scrivanie o sedute leggere che possono essere spostate facilmente. Non tutti hanno la possibilità di creare uno spazio dedicato esclusivamente al lavoro, ma già cambiare la sedia o trasformare il tavolo può aiutare la concentrazione.
    Introdurre degli elementi di verde. Piante verdi da interno, fiorite o grasse, oppure una vista dalla finestra su un parco o un giardino (per i più fortunati): gli elementi naturali aiutano la concentrazione, stimolano la creatività e l’energia. Dovrebbero essere presenti in ogni ufficio e in ogni casa.
  • Infine, ricordiamoci che anche l’arte è un acceleratore di creatività. In questi giorni di quarantena si possono sfruttare i tour virtuali messi a disposizione da tanti musei, ma si potrebbe anche pensare di introdurre elementi artistici in casa, come fonte d’ispirazione. Perché la bellezza, in casa o in ufficio, non è mai abbastanza.
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Come cambiano le abitudini di acquisto dei consumatori durante l’emergenza Covid-19

  • Global Web Index a fine Marzo ha condotto uno studio, basato su 12.845 utenti in 13 mercati, per capire come i comportamenti di acquisto si stanno modificando durante la crisi e cosa significa questo cambiamento per i Brand.
  • Il 22% dei consumatori globali afferma di aver annullato i viaggi programmati all’estero mentre il 35% ha annullato i viaggi programmati all’interno del proprio Paese.
  • Le maschere di protezione per il viso (45%) e il gel disinfettante per le mani (30%) sono i due articoli che i consumatori hanno maggiore difficoltà ad acquistare in tutti i Paesi del mondo.

 

Metà della popolazione mondiale è in stato di quarantena a causa della pandemia da Coronavirus, con più di un milione di contagi registrati a inizio aprile.

90 Paesi in tutto il mondo sono obbligati ad affrontare delle sfide impensabili a livello sanitario, economico e soprattutto social: la quotidianità delle nostre vite è cambiata e non esiste un’azienda, un governo o una singola persona che non abbia risentito degli effetti dell’emergenza Covid-19.

Ma qual è il risultato sulle abitudini di consumo?

Uno tra i tanti impatti stravolgenti della pandemia riguarda le abitudini di acquisto dei consumatori, ovviamente a causa del lockdown obbligato e della chiusura di migliaia di attività. 

Quali sono gli effetti registrati attualmente nei vari settori? Analizziamo lo studio condotto a fine marzo dal Global Web Index, basato su 12.845 utenti in 13 mercati, per capire come i comportamenti di acquisto si stanno modificando durante la crisi e cosa significa questo cambiamento per i brand.

Il crollo inevitabile del settore del Turismo

Ovviamente il primo settore a risentire massivamente della crisi è quello turistico, tra cancellazioni di voli e crollo degli acquisti di nuovi biglietti, annullamento di prenotazioni presso hotel e resort, contando anche la chiusura delle agenzie di viaggio.

Risulta infatti che il 41% dei consumatori a livello globale abbia deciso di ritardare l’acquisto di un futuro viaggio, dato che sale al 53% solo in Cina. In particolare, 1 consumatore su 4 evita di comprare biglietti aerei al momento.

Inoltre, il 22% dei consumatori globali afferma di aver annullato i viaggi programmati all’estero mentre il 35% ha annullato i viaggi programmati all’interno del proprio Paese.

In generale, è interessante notare come i consumatori Giapponesi siano i  meno ottimisti tra tutti i mercati interessati per quanto riguarda la ripresa mondiale dei mercati dall’epidemia di Coronavirus.

abitudini di acquisto covid 19

Il settore del Luxury sta perdendo colpi

In questo periodo di quarantena, anche la parte di popolazione più ricca del mondo è costretta a passare le sue giornate in casa in pigiama. Ed è così che anche il settore del Luxury si vede influenzato dalla crisi, con un 15% dei consumatori intervistati che ammette di evitare l’acquisto di articoli di lusso in questo periodo.

Un duro colpo soprattutto per i brand che operano principalmente in Cina, in quanto il paese domina attualmente il mercato degli acquisti di lusso.

Anche l’età risulta essere un fattore determinante in questa tipologia di acquisti, con la Gen Z più propensa a ritardare le spese più costose a causa del loro livello di reddito solitamente medio-basso rispetto alle precedenti generazioni.

I beni di prima necessità sono i più ricercati

Basta andare a fare la spesa al supermercato per capire come sono cambiate le abitudini di acquisto e che i beni di prima necessità sono attualmente in cima alla lista degli acquisti di tutti i consumatori, comportamento dettato principalmente dalla paura e dal timore di rimanere senza provviste. 

Il 45% dei consumatori di tutto il mondo, infatti, ammette di aver fatto scorte di cibo e bevande, seguiti da carta igienica e prodotti per la pulizia.

Molti rivenditori, dai piccoli negozi alle grandi catene di supermercati, stanno lottando per stare al passo con la velocità – e quantità – di acquisto dei prodotti, ma spesso si trovano in difficoltà e in mancanza di scorte sufficienti.

Le forniture mediche sono quasi introvabili

Ovviamente le maschere di protezione per il viso (45%) e il gel disinfettante per le mani (30%) sono i due articoli che i consumatori hanno maggiore difficoltà ad acquistare in tutti i Paesi del mondo.

Le ricerche di Google di disinfettante per le mani hanno subito un’impennata negli ultimi due mesi, mentre in molte farmacie e negozi sono introvabili.

Inoltre, venditori online come Amazon e Walmart hanno approfittato dell’aumento della domanda per incrementare i prezzi di vendita di questi prodotti, ricevendo severe critiche dalle associazioni a tutela dei consumatori in tutto il mondo.

Al contrario, alcuni brand hanno rivoluzionato la loro attività produttiva per dare una mano, come LVMH che ha iniziato a produrre disinfettanti per le mani e SpaceX che sta realizzando gel e maschere per il viso da donare agli ospedali che ne hanno bisogno.

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Quando si tornerà alla normalità?

Per chiunque è abbastanza chiaro che il ritorno alle abitudini di acquisto tradizionali è ancora lontano, se mai avverrà del tutto. 

Comprensibilmente, il 40% degli intervistati afferma che sta rimandando gli acquisti più importanti alla fine della quarantena nel proprio Paese, mentre il 20% aspetta che la situazione si stabilizzi in tutto il mondo.

Qual è il ruolo dei brand in questo momento di crisi globale?

Oggi più che mai nella storia, i consumatori si aspettano che i brand entrino in azione per aiutare, come possono. 

Come prima cosa, l’80% degli intervistati si trova d’accordo sulla chiusura dei negozi “non essenziali” – dato che arriva al 93% in Italia e Spagna, due dei Paesi più colpiti al mondo dalla pandemia.

Dall’altro lato, ai grandi e piccoli brand viene chiesto di adattarsi alla condizione sociale attuale, rispondendo in maniera attiva alle necessità dei consumatori.

Questo vuoi dire cambiare le loro strategie di comunicazione, così come facilitare la fruizione di contenuti e servizi online, o rafforzare l’home-delivery – sempre con la massima attenzione alle persone implicate nel processo.

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Oltre le abitudini di acquisto: le persone rimangono generalmente ottimiste

Uno studio parallelo, condotto sempre dal Global Web Index, riporta che i livelli di ottimismo e di preoccupazione per il proprio Paese, tra i consumatori intervistati, variano notevolmente tra i diversi mercati, ma generalmente prevalgono gli ottimisti.

Questo cosa significa? Che non solo i governi e le istituzioni ma anche i brand sono chiamati a impegnarsi per favorire un clima di ottimismo attraverso le loro strategie di comunicazione.