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carosello is back

Carosello is back: la pubblicità diventa solidale e aiuta ad affrontare l’emergenza

Carosello è tornato, con la differenza che oggi si trova su Instagram e il “passaggio pubblicitario” si paga con una donazione direttamente proporzionale al numero di views in quel momento, aggiungendo uno zero e impegnandosi a versare il proprio contributo a un’associazione sul territorio.

Questo è il format ideato da Paolo Iabichino e Giovanni Boccia Artieri, nato come una chiacchiera dedicata agli studenti, alle studentesse e a chiunque ami questo mestiere e diventato un esempio di supporto creativo e solidale per il territorio.

Pubblicità e social per dare un aiuto concreto

“In questi giorni complicati ciascuno di noi fa quel che può per alleggerire i feed di follower e friend e per affiancare studentesse e studenti alle prese con queste inedite modalità didattiche. Noi abbiamo deciso di farlo ogni sera, alle 19:45, con una diretta di 15/20 minuti. Una pausa di riflessione, una sorta di Carosello contemporaneo per parlare di advertising, comunicazione, social media e cultura digitale in questi tempi complessi. Una conversazione che raccoglie davanti ai monitor fino a trecento persone che amano questo mestiere e vogliono analizzare quanto è successo, succede e succederà al nostro settore” afferma Paolo Iabichino, noto sui social come Iabicus.

“Fedele alla sua tradizione, il finale di puntata è dedicato al codino pubblicitario. Solo che qui il passaggio si paga con una donazione, direttamente proporzionale al numero di views in quel momento. Quindi, serve essere in molti di più, spargete la voce: l’hashtag di riferimento è #caroselloisback. Inoltre, chiunque voglia partecipare collegando la pagina Instagram del proprio brand (o di qualche cliente) è più che benvenuto/a, abbiamo bisogno di chiunque abbia una bella storia da raccontare. Grazie sin d’ora”.

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19,45 – in diretta con @gboccia, stasera special guest Barilla Italia per il Carbonara Day. #caroselloisback

Un post condiviso da Paolo Iabichino (@iabicus) in data:

Come seguire Carosello is back (e contribuire)

I profili a cui connettersi su Instagram sono @gboccia e @iabicus, per seguire la diretta e darsi appuntamento sul social network, ogni giorno intorno all’ora che fu di Carosello.

Il primo brand ad aver aderito e a collegarsi per la prima volta direttamente a una trasmissione su Instagram, nel finale di puntata dedicato al codino pubblicitario, è stato Barilla con Alessio Gianni, Digital & Content Marketing, Global Director e da anni alla guida delle strategie digitali e creative di Barilla a livello mondiale.

Assieme al noto marchio italiano hanno già aderito anche Parmigiano Reggiano, Loquis ed Evway chiudendo la prima settimana.

Il sabato e domenica, invece andranno in onda puntate speciali con interviste monografiche sui temi verticali.

Per i brand che desiderassero candidarsi è possibile farlo scrivendo un messaggio sulla pagina Instagram di Carosello Is Back e descrivendo brevemente la propria storia.

big data e gestione umana

Che cos’è la Big Data Analytics, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi ,sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

 

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato

Antonio Picariello, docente di Sistemi per l’elaborazione dell’informazione presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e di Tecnologie dell’Informazione) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II ed esperto di Big Data Analytics.Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Dove andremo a finire? Beh, il sistema di Big Data permette di fare previsioni, ma i miei algoritmi non sono ancora così accurati. Devo dire che sicuramente è un fenomeno che è nato, che è in continua evoluzione, e che non potrà sicuramente avere fine. Vivrà un continuo sviluppo, in svariati campi di applicazione e in diversi domini applicativi”, questo il pensiero del Prof. Picariello, esperto di Big Data, che ha una visione positiva rispetto all’utilizzo dei dati anche per quanto riguarda le piccole e medie imprese, che dovrebbero “cercare di capire quale aspetto del proprio processo produttivo può essere migliorato con l’Analytics dei dati. E quindi fare un’analisi serena di quelli che sono i propri processi produttivi, ma soprattutto di quello che è il mercato. A partire da questo, un buon team di Data Scientist, necessariamente formato da tecnologi, ma anche e soprattutto da esperti del dominio applicativo, riuscirà ad indirizzare quelle che sono le principali tecnologie che potranno essere usate”.

Sui limiti di tale tecnologia ritiene che “il grosso problema non è tecnologico, non è economico, ma dal mio punto di vista riguarda un cambio di mentalità. Un cambio di mentalità che deve necessariamente investire i manager e chi gestisce le PMI. Capire insomma che questi dati non devono essere persi, ma possono venire riutilizzati per migliorare il processo stesso. Se avverrà questo salto di mentalità, legato ai bassi costi e alla capacità oramai di uso di algoritmi sempre più performanti, per alcune tipologie di mercato, sono certo che le PMI colmeranno velocemente il loro gap con le Big Company”.

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Approfondimenti

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Al giorno d’oggi, l’accesso a Internet è considerabile un bene di prima necessità e la connessione ha raggiunto livelli di quasi ubiquità su scala globale. Difatti, secondo il Global Digital Report 2019, resoconto annuale circa i comportamenti di consumo nell’ambito delle tecnologie informatiche e digitali, gli utenti Internet sono cresciuti- e crescono- a un ritmo esponenziale, dando forma ad uno scenario planetario sempre più digitale e interconnesso.

Secondo il report, realizzato dalla creative agency internazionale We Are Social e dalla piattaforma di social media management Hootsuite, oggi gli utenti di Internet sono circa 4,39 miliardi, con un aumento del 9% (366 milioni) rispetto a gennaio 2018; inoltre, globalmente si registrano circa 5,11 miliardi di utenti unici di telefonia mobile, con un incremento nell’ultimo anno del 2% (vale a dire circa 100 milioni). 

La novità fondamentale degli ultimi anni, infatti, è la diffusione delle tecnologie digitali ed informatiche mobile (dispositivi come smartphone e tablet) e l’estensione della connettività a Internet a device fisici e di uso quotidiano, i quali vanno a formare vanno a formare il cosiddetto Internet of Things: il sistema composto da tutti i dispositivi connessi alla rete Internet che, grazie a tale connessione, possono interagire fra di loro ed essere controllati on remote.

Nel mondo dunque, si registra una crescita esponenziale e continua dei dispositivi che si servono della connessione a Internet per comunicare fra di loro e con gli utenti. Tali devices connessi funzionano anche come data points: ovvero, essi sono costantemente impegnati nella produzione, nella raccolta e nella condivisione di grandi quantità di dati in formato digitale.

È proprio per questo motivo che oggi si suole parlare di Big Data

Con l’espressione big data ci si riferisce alla vasta mole di dati che viene continuamente prodotta dai devices digitali connessi. Si tratta di dati in formato digitale di natura multimediale che possono essere sia strutturati (provenienti da database) che non strutturati (non provenienti da database). 

Il modello utilizzato dalla comunità scientifica internazionale per descrivere i big data è quello delle cosiddette ‘4+1 V’ : volume, variety, velocity, veracity, value (dove le prime quattro ‘v’ sono, rispetto all’ultima, di natura più strettamente tecnica).

Il termine volume (‘volume’), dunque, fa riferimento alla quantità di dati generati ogni secondo da sorgenti eterogenee: esseri umani, sensori e dispositivi mobili generano un‘enorme quantità di dati, il cui volume si espande fra il 50 e il 60% ogni anno. Secondo l’International Data Corporation nel 2020 esisteranno 40 zettabyte di dati (6 terabyte di dati per ogni persona vivente).

Con variety (‘varietà’) ci si riferisce alla grande diversità nella tipologia dei dati generati, raccolti ed utilizzati: essi infatti sono incredibilmente eterogenei fra di loro, essendo provenienti da una serie di fonti diverse, come web server, dati di borsa o dati ricavati da attività e interazioni social. In particolare la caratteristica della varietà è necessaria a sottolineare una delle principali novità dell’epoca dei big data, vale a dire il fatto che- a differenza di quanto avveniva precedentemente- oggi si prendono in considerazione anche dati semi strutturati e non strutturati, al fine di avere risultati d’analisi più accurati e profondi circa gli specifici fenomeni.

Il termine velocity (‘velocità’) fa riferimento alla rapidità con cui questi dati vengono prodotti, raccolti e trasmessi (il che, è chiaro, incide notevolmente sul volume: vale infatti la pena notare che le caratteristiche dei big data sono strettamente legate fra loro e inscindibili l’una dall’altra). La velocità, inoltre, è componente essenziale anche per la fase finale del ciclo di vita dei big data, vale a dire l’analisi: proprio per via del rapido tasso di crescita e, in generale, di cambiamento di statistiche e informazioni, è essenziale che i dati vengano raccolti e analizzati in tempo reale, al fine di non realizzare analisi i cui risultati vadano rapidamente incontro all’obsolescenza. 

Con veracity (‘veridicità’) si vuole indicare la precisione e l’esattezza dei big data: considerata la quantità e la varietà dei dati prodotti e scambiati e la velocità con cui si sommano gli uni agli altri, sarebbe impensabile non prendere in considerazione la qualità delle informazioni analizzate, poiché i risultati delle analisi sempre più spesso e in maniera decisiva condizionano processi decisionali di aziende, organizzazioni e istituzioni. 

Infine, l’ultima delle v è quella che rappresenta il value (letteralmente ‘valore’) legato ai big data. I big data hanno un grande potenziale in termini di generazione di vantaggio competitivo: essi producono valore poiché permettono di semplificare una serie di operazioni- o addirittura di realizzare task prima ineseguibili- attraverso l’informazione. Oggi si diffonde, infatti, l’Industrial Internet (anche detto Industry 4.0), ovvero il sottosistema dell’Internet of Things che si riferisce implementazione negli ambienti industriali con macchinari, dispositivi e software che permettono la comunicazione machine to machine (M2M, cioè fra i macchinari); human to machine (H2M, tra uomo e macchina); machine to smartphone (M2S, vale a dire tra macchina e smartphone). Così come l’IoT, di cui può essere considerato una componente, il sistema che si sviluppa con l’Industry 4.0 si basa estensivamente sulla capacità di raccogliere dati e trarre valore da questi analizzandoli: oggi si parla infatti di value of perfect information (cioè il valore dell’informazione perfetta) per indicare la capacità di ottimizzare i processi relativi alla raccolta e all’analisi dei dati, al fine di ricavare una conoscenza dei vari fenomeni osservati più immediata, approfondita e affidabile.

Con l’aumentare dei dati prodotti aumenta il loro potenziale in termini di conoscenza e, di conseguenza, aumenta il loro essere risorsa economica (ma anche sociale, politica e culturale) di primaria importanza.

Già da diversi anni- con la prima ondata della Rivoluzione Digitale, vale a dire con la prima diffusione globale di Internet- la letteratura sociologica ha introdotto la categoria temporale del Postindustriale. La principale novità di tale periodo rispetto al precedente – sulla quale si imperniano le ulteriori differenze- sarebbe proprio il fatto che il focus, prima posto sul consumo di beni e prodotti, oggi è costituito dall’informazione, la quale assurge a risorsa di sconfinata importanza e che esercita un’influenza decisiva sia nell’ambito del quotidiano che in quello dell’impresa. 

Data Science: analisi e applicazioni dei Big Data

Il valore dei big data è dunque legato all’utilizzo che ne viene fatto, vale a dire alla loro analisi. I processi di analisi che fanno parte della disciplina definita come data science consentono di estrarre informazioni dalle grandi moli di dati al fine di ricavarne supporto per guidare i processi decisionali; monitorare logistica e attività; elaborare modelli di reazione a imprevisti; valutare performance e tanti altri task. 

È possibile distinguere diverse tipologie base di Big Data Analytics applicate all’ambito del business: descriptive analytics; predictive analytics; prescriptive analytics.

La descriptive analytics (cioè l’analisi descrittiva) impiega gli strumenti analitici al fine di descrivere la situazione passata ed attuale del contesto di riferimento. Tale modello costituisce una risposta alla domanda ‘cosa è accaduto? /cosa sta accadendo?

La predictive analytics (analisi predittiva) è un modello atto a rispondere a domande circa il futuro e a restituire previsioni sulle possibili circostanze realizzabili. Essa è dunque volta a rispondere alla domanda ‘cosa è probabile che accada?’.

Infine, c’è la prescriptive analytics (analisi prescrittiva): anch’essa, come la precedente, getta uno sguardo al futuro e, nello specifico, si caratterizza per l’obiettivo di restituire soluzioni operative e strategiche sulla base delle analisi eseguite. Risponde dunque all’ipotetica domanda ‘come fare che questo accada?’.

Sebbene l’analisi dei dati non sia una disciplina completamente nuova, ciò che costituisce la novità risposta al passato è la grande disponibilità dei dati, la quale permette di applicare modelli più sofisticati e avere quindi risultati molto più accurati che in passato.

Il Professore Antonio Picariello, docente di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e di Tecnologie dell’Informazione) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sostiene che la vastità della mole di dati oggi disponibile è destinata a cambiare il mondo della ricerca e quello dell’impresa. La quantità delle informazioni continuamente prodotte sia dall’interazione degli oggetti connessi sia sotto forma di user generated content, è un fattore determinante – anche se non l’unico- nel dare forma e caratterizzare la moderna data science. Nel caso dei big data, dunque, la maggior parte delle volte bigger significherà anche smarter poiché, secondo Picariello, i grandi dataset permetteranno agli algoritmi di lavorare meglio, tollerando gli errori e scoprendo le long tails (modelli di distribuzione diffusi) e i corner cases (casi isolati e specifici). 

Più dati, di contro, significa (e significherà sempre di più) anche più problemi: maggiore eterogeneità da gestire, necessità di software e algoritmi più potenti, esigenza di sistemi di storage più capienti ed efficienti e, soprattutto, urgenza di misure di protezione della privacy estese e funzionali. 

In questo quadro, un approccio fondamentale sembra essere quello della collaborazione fra enti e organizzazioni: il modello peer-to-peer, l’ottica collaborativa e la logica open source costituiscono infatti un’importante risorsa per le imprese e le istituzioni che mirano a ottimizzare il loro operato nell’ambito della data science, come testimonia ad esempio la diffusione della piattaforma Apache Hadoop: si tratta infatti di un ormai popolare set di software utilities open-source il cui obiettivo è quello di facilitare l’utilizzo di una rete di calcolatori per risolvere problemi che implicano vaste quantità di dati.  

La vera sfida, dunque è comprendere l’utilità della mole di dati che ingloba il nostro pianeta in una rete interconnessa e, soprattutto, ottimizzare strumenti, metodi e modalità di sfruttamento. D’altronde- sostiene Picariello- ‘i dati hanno preso il posto del petrolio’ ma, a differenza del combustibile fossile estratto e sfruttato allo sfinimento nel corso dell’ultimo mezzo secolo, i dati possono essere considerati una risorsa rinnovabile e sostenibile. 

Vale dunque la pena di intensificare e proseguire le ricerche sul loro utilizzo. Bisogna inoltre che divulgare l’informazione in tale ambito e, da parte delle aziende, vi è la necessità di puntare sulle competenze specifiche di quello che dall’Harvard Business Review è stato definito come ‘The Sexiest Job of 21st Century’: quello del Data Scientist.

influencer marketing

Insidie e opportunità dell’Influencer Marketing ai tempi del Coronavirus

  • Nell’emergenza COVID-19, all’aumento della presenza di un pubblico disposto ad ascoltare corrisponde una drastica riduzione delle cose da dire;
  • Oggi le persone sono disposte ad ascoltare solo chi si fa portavoce di valori autentici, chi sfrutta la propria influenza per inviare messaggi di solidarietà, per promuovere iniziative benefiche, o per creare contenuti confortanti.

 

In un momento storico come questo, unico per la nostra generazione, caratterizzato da uno scenario sociale profondamente surreale, cosa può davvero attrarre l’attenzione degli utenti? Su quali punti di attenzione (e influenza) si può davvero capitalizzare?

Partendo da questa riflessione, non è difficile comprendere quanto un settore come quello dell’Influencer Marketing, la cui fortuna deriva fondamentalmente dal binomio emulazione e ispirazione, soffra particolarmente in questo momento di distanziamento sociale. Può sembrare paradossale che, nonostante l’audience sui social sia aumentato considerevolmente in questi giorni di reclusione, un lavoro totalmente digitale come quello dell’influencer possa risentirne.

Eppure, è esattamente quello che sta accadendo: all’aumento della presenza di un pubblico disposto ad ascoltare corrisponde una drastica riduzione delle cose da dire, o meglio, di fronte a una situazione di emergenza nazionale che vede la vita di migliaia di persone messa a repentaglio, nessun argomento sembra abbastanza pertinente.

Fare la differenza per non diventare indifferenti

In un periodo così delicato, dove ogni utente – che da qui in avanti definiremo semplicemente persona – è vulnerabile e teso come una corda di violino, è facile trattare argomentazioni fuori luogo, dare pareri non richiesti o, per fare un esempio, venire criticati per aver cercato di scampare la quarantena volando ai Caraibi o in Colombia. Le interazioni sono tante, ma non si possono monetizzare, le travel blogger non possono viaggiare, le fashion blogger non possono sfoggiare abiti all’ultimo grido in locali modaioli: così, tutto quel mondo patinato e costruito lascia spazio alla profonda desolazione di una popolazione ferita, reclusa, che si è dovuta fermare – e non solo letteralmente – a riflettere sui veri valori della vita.

Ed è solo chi si fa portavoce di valori autentici che merita di essere ascoltato, seguito e condiviso; chi sfrutta la propria influenza per inviare messaggi di solidarietà, per promuovere iniziative benefiche e lo fa gratis. Ancora una volta, è Chiara Ferragni a distinguersi per la sua capacità di ascoltare e capire i bisogni della società, di dare sfoggio al suo capitale più importante – quello umano, parlando alle persone e non agli utenti.

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influencer

Stay-Home Economy

La diffusione del COVID-19 ha spinto ognuno di noi a doversi riadattare a nuovi schemi comportamentali, nuove abitudini d’acquisto e di intrattenimento. La cosiddetta “Stay-Home Economy” ci ha in qualche modo obbligati a digitalizzare anche quei comportamenti che era normale esercitare sul territorio.

Quale sarà il ruolo che gli influencer dovranno ritagliarsi in questo nuovo mondo? Senza dubbio sarà necessario far fronte a una serie di bisogni tutti nuovi, lato consumatori.

La prima cosa da tenere in considerazione è il timore di quale sarà la portata del contraccolpo economico che conseguirà da questa situazione: ci troveremo a dovere fronteggiare un periodo di austerità economica per cui non sarà più efficace promuovere viaggi costosi o stili di vita da star, ma sarà necessario confortare le persone, intrattenerle e cercare, a poco a poco, di ricreare una domanda commisurata al loro potere d’acquisto.

Tuttavia, anche se la maggior parte dei brand è riluttante nell’investire in pubblicità in un momento in cui si può facilmente incorrere in ritardi e intoppi nella produzione e nella reperibilità dei propri prodotti o servizi, è fondamentale mantenere viva una relazione con i propri consumatori. Per questo, i marchi si stanno chiedendo come comunicare in modo intelligente – e, ora più che mai, umano – alle persone.

Ed è qui che gli influencer, in quanto persone prima ancora di essere considerati dei media, possono svolgere un ruolo importante. In qualche modo, gli influencer hanno l’occasione per recuperare valore e credibilità, per rilanciare una comunicazione genuina e quasi familiare, che possa assomigliare più al consiglio di un amico che a una réclame fatta unicamente a scopo di lucro, senza nessun senso critico.

social commerce instagram

Shopping online

L’eCommerce diventa l’unico mezzo disponibile per l’approvvigionamento di beni di varia natura, utili o indispensabili che siano. Nella mente del consumatore fare shopping online slitta dal concetto di “comodità” a quello di “essenzialità”.

Per questo, gli influencer hanno la possibilità di guidare in modo davvero efficace le vendite online, andandosi a sostituire ai mezzi tradizionali di contatto con il consumatore (cartelloni, vetrine, …) e accentrando su di sé in modo inedito tutta la sua attenzione. Per dirlo con una metafora: lo scrolling del nostro feed Instagram si sostituisce alla passeggiata domenicale per le vie dello shopping e così l’Influencer Marketing dovrebbe ritrovare nuova centralità anche nelle strategie.

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Il segreto dell’Influencer Marketing sta nel contenuto

Adattarsi al cambiamento per l’Influencer Marketing non significa solo sfruttare l’aumento dello shopping online, ma anche tener conto del fatto che, mai come oggi, le persone accedono ai propri social media alla ricerca di contenuti creativi e confortanti, tramite cui poter fuggire dalla realtà. Significa osservare i trend di comportamento che si sviluppano spontaneamente online e cavalcarli: ad esempio, la tendenza a dedicarsi a cucinare manicaretti per allietare la propria permanenza, a tempo ancora indeterminato, tra le mura di casa può essere orientata e influenzata dai food blogger.

Questo tipo di contributo assume un valore che va ben oltre la mera idea del produrre una videoricetta per rispondere a un bisogno temporaneo degli utenti, ma si traduce nell’opportunità di farsi notare in un momento in cui le persone sono iper connesse e, soprattutto, di farsi apprezzare e ricordare.

influencer

Una ricetta ben fatta, ad esempio, avrà buone possibilità di venire salvata in una Raccolta Instagram, insieme al profilo del suo autore, per poi essere ripresa più volte in futuro. Un ottimo esercizio per mantenersi in forma durante la quarantena può essere condiviso con i propri amici, un canale che produce una serie di contenuti di qualità, interessanti per il target a cui parla (ad esempio, dei consigli per una beauty routine da sfruttare in questo periodo di non esposizione a smog e altre sostanze dannose per la pelle), verrà sicuramente tenuto in conto anche una volta che questa situazione peculiare si sarà conclusa.

Insomma, in un momento in cui le persone sono iper-connesse ma più sensibili ai contenuti, la strategia vincente non è necessariamente tacere, bensì rivedere la propria comunicazione, renderla più umana ed empatica, per essere (davvero) ricordati.

Che cos’è l’Intelligenza Artificiale, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0” è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Silvia Rossi, Assistant Professor al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione e Co-chief del PRISCA Lab – Intelligent Robotics and Advanced Cognitive System Projects.

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

La Prof.ssa Silvia Rossi ritiene che l’intelligenza artificiale “non può essere semplicemente una keyword che va di moda”, questo soprattutto in riferimento agli ambiti di applicazione per le imprese, infatti sostiene: “L’aspetto cruciale sta nel fatto che non si fa realmente comprendere alle aziende quali tipi di problemi potrebbero essere risolti, quali sono i reali campi di applicazione e quali aspetti un’azienda potrebbe migliorare grazie all’utilizzo dei sistemi di Machine Learning o Artificial Intelligence. Diciamo che, secondo il mio parere, l’utilizzo che se ne fa a livello industriale e aziendale è ancora minimo, è molto basso. Ma la mia idea è che nel prossimo futuro ci sarà una grossa rivoluzione in quest’ambito dovuta, appunto, all’utilizzo di sistemi di automazione e sistemi di Intelligenza Artificiale”.

E ancora, a proposito del laboratorio PRISMA aggiunge: “Molte delle tematiche che affrontiamo in questo laboratorio, in realtà, hanno una ricaduta nell’ambito di quella che chiamiamo Industria 4.0, perché la possibilità di poter interagire con l’uomo e aumentare le capacità di un processo produttivo (sia dal punto di vista dell’efficienza che dell’esperienza del lavoratore) può essere sviluppata tenendo conto di algoritmi di apprendimento automatico, oppure dei cosiddetti metodi di Machine Learning, in cui tanti dati e tanti esempi vengono dati in pasto ad una macchina che è in grado di generalizzare sulle caratteristiche e di apprendere quali sono quelle più rilevanti per un determinato argomento. Questo dà la possibilità alla macchina di poter interagire con l’utente in tempo reale e comprendere cosa quest’ultimo vuole, come poterlo aiutare”.

Poi avverte anche sui possibili rischi: Sono le piccole aziende che devono capire come tutelarsi, ma anche noi dobbiamo capire come proteggere la nostra privacy, oppure come fornire i dati soltanto a chi vogliamo e come vogliamo, quindi in maniera più oculata, in modo tale che, chi ne ha bisogno, può avere l’usufrutto di questi dati”.

Sulla possibilità di un approccio mediterraneo all’innovazione, la ricercatrice ritiene che c’è una caratteristica dell’essere mediterraneo, ovvero la capacità di essere flessibile, che è proprio una delle cose che cerca l’AI, cioè rendere i processi flessibili ed adattabili all’uomo. Quindi è proprio in questo incontro con l’uomo che io vedo la visione mediterranea dell’Industria 4.0: l’interazione e la possibilità che macchina e uomo siano entrambi flessibili e possano trovare dei compromessi durante l’esecuzione dei compiti”.

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Approfondimenti sull’Intelligenza Artificiale

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

L’Intelligenza Artificiale– anche conosciuta con il suo acronimo AI– può essere generalmente indicata come l’intelligenza delle macchine. Questa espressione si riferisce a quei sistemi che vengono dotati di software in grado di incrementare l’automazione, la capacità di decision making e quella di elaborazione contestuale della specifica macchina o dispositivo.

Per automazione si intende la realizzazione di una tecnologia e la sua implementazione al fine di controllare e monitorare -in maniera autonoma appunto- la produzione e l’erogazione di beni e servizi: si tratta, generalmente, di compiti precedentemente eseguiti dagli esseri umani. La capacità di decision making, invece, consiste nella facoltà della macchina di trovare soluzioni e reagire correttamente a imprevisti, emulando l’attitudine decisionale umana. Infine, la capacità di elaborazione contestuale, consiste nel carpire più informazioni possibile riguardo al contesto di riferimento del dispositivo e si divide in contestualizzazione passiva (monitorare continuamente l’ambiente e raccogliere informazioni); contestualizzazione attiva (monitorare, raccogliere informazioni e reagire in base a queste); personalizzazione (comportarsi sulla base delle preferenze dell’utente specifico). 

La branca della computer science che si occupa dell’AI mira dunque a progettare e produrre macchine intelligenti di diversa tipologia, in grado prima di tutto di detenere informazioni: sono infatti le grandi quantità di informazioni a costituire il bagaglio di conoscenza delle macchine, e sono fondamentali perché esse possano agire e reagire sul modello umano. Inoltre, tali dispositivi devono essere in grado di condurre operazioni di problem solving, percepire le caratteristiche del contesto circostante, manipolare oggetti ed eseguire tanti altri task diversi. 

Uno dei principali settori del campo dell’AI riguarda il Machine Learning- anche conosciuto con l’acronimo ML– ovvero il sistema attraverso il quale le macchine imparano a gestire nuove situazioni, grazie all’analisi dei dati, l’allenamento, l’osservazione e l’esperienza. È proprio grazie al Machine Learning che è possibile avere computer sempre più intelligenti.  

La ricerca e le applicazioni dell’AI

Oggi gli studi sull’Intelligenza Artificiale costituiscono il cuore dell’innovazione tecnologica grazie alla vastità e alla varietà degli ambiti di applicazione dei sistemi che se ne servono. L’Artificial Intelligence può essere implementata in una serie di dispositivi diversi e per vari utilizzi. Ciò appare evidente dall’osservazione di una delle realtà di ricerca più avanzate ed innovative del panorama italiano: il PRISCA Lab del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione (DIETI) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. 

Il PRISCA Lab (Projects of Intelligent Robotics and Advanced Cognitive Systems), che si definisce come una realtà che promuove attivamente ‘la connessione umana tra studenti e ricercatori’ è un laboratorio di ricerca riguardo le avanguardie tecnologiche e la loro implementazione per progetti innovativi, come per i social robots Pepper, Nao e Sanbot, solo alcuni dei dispositivi robotici che il laboratorio ospita al suo interno.

Questo laboratorio, che rientra nel più ampio progetto dell’ ICAROS Center (Interdepartmental Center for Advances in Robotic Surgery), comprende un’ampia gamma di attività di ricerca che ruotano attorno allo sviluppo di sistemi dotati di Artificial Intelligence: Machine Learning, interazione H2M (Human to Machine), Mobile Robotics

A colpire maggiormente, però, è la quantità e soprattutto la varietà degli ambiti di applicazione per tali tecnologie, tra cui spiccano il Cultural Heritage (beni culturali), l’e-Health (la salute), quello relativo alle Smart Cities e quello dell’implementazione delle tecnologie per la Gamification (vale a dire l’utilizzo di elementi e modelli mutuati dai giochi per ambiti esterni a quello ludico). 

Silvia Rossi, co-chief del laboratorio e docente presso il DIETI si occupa dell’ambito dell’e-Health e dell’assistenza sanitaria, in cui l’hi-tech costituisce una svolta in termini di qualità dei servizi e riduzione dei costi. Ad esempio, una delle applicazioni di maggior successo riguarda i robot utilizzati durante specifiche terapie di riabilitazione di bambini con deficit motori, questo ne aumenta l’engagement e la motivazione durante il percorso. Ancora, questi device si dimostrano incredibilmente utili nel lavoro con bambini affetti da autismo, poiché stimolano l’interazione e facilitano la valutazione e il monitoraggio dei risultati: ‘per una macchina del genere– sostiene Silvia Rossi- riconoscere un sorriso è la cosa più facile del mondo’.

Ma al di là di banalizzazioni e fanatismi l’implementazione ad hoc di tali tecnologie non riguarda solo i progressi in termini di processori e computazione: la vera sfida tecnologica, afferma la docente, sta nel comprendere le dinamiche di interazione fra uomo e macchina (la cosiddetta interazione H2M, Human-To-Machine) e progettare quest’ultima di conseguenza. È proprio per questo che l’interdisciplinarietà costituisce un aspetto essenziale del PRISCA Lab, tra le cui mura si incontrano medici, psicologi, psichiatri, informatici, linguisti ed esperti provenienti dagli ambiti più disparati. Il tutto in un’ottica di integrazione e collaborazione volta al generale obiettivo di comprendere le necessità dell’utente, valutare l’utilità della tecnologia e progettarla in base a questi parametri. Tale approccio, alla base del PRISCA Lab, costituisce anche il cuore della ricerca del settore AI.

Franco Cutugno, professore di glottologia e linguistica anch’egli del DIETI, che si definisce come un ‘docente anomalo, una via di mezzo fra un linguista ed un informatico’, è un esperto di linguistica computazionale, disciplina che descrive le caratteristiche formali del linguaggio naturale al fine di trasporlo in software eseguibili dal computer. La linguistica computazionale, spiega il professore, è un ambito piuttosto vasto, che si potrebbe sintetizzare in due macrosettori: il trattamento automatico della lingua parlata e il trattamento automatico dei testi. 

Per quanto riguarda il trattamento automatico della lingua parlata, questo comprende macchine parlanti, sistemi di sintesi vocale e riconoscimento automatico del parlato. Sebbene si tratti di tecnologie innovative e avanzate è essenziale non commettere l’errore di sopravvalutarle: questi sistemi di dialogo, ci tiene a precisare Cutugno, come Siri, Alexa e Cortana, non permettono il dialogo fine a se stesso: essi funzionano se, e solo se, il dominio semantico della richiesta rivolta alla macchina è limitato ai compiti normalmente eseguibili dal dispositivo. 

L’impressione che un’Intelligenza Artificiale come Siri possa fare qualsiasi cosa, dunque, è soltanto un’idea di marketing. Brillante, certo, ma pur sempre un’idea di marketing. Da Alan Turing– che ipotizzò un test basato sull’irriconoscibilità fra interlocutore umano e non umano per individuare una macchina pensante- a Philip Dick – che in Do Androids Dreams of Electric Sheep mette in scena un universo in cui tra robot e umani non vi è più nessuna differenza- l’ irriconoscibilità tra intelligenza umana e tecnologica ha sempre costituito un tema di grande speculazione, ma per ora – sostiene Cutugno – è ancora appannaggio della fantascienza. 

Arrivando invece al secondo settore della linguistica computazionale, quello relativo ai testi, il professore la definisce come quella disciplina atta a riconoscere gli elementi fondamentali della grammatica e che prova, dato uno specifico testo, a estrarre da esso tali informazioni. Attraverso questo sistema è possibile la realizzazione di software di sintesi automatica, traduzione automatica, estrazione di informazione, sentiment analysis e molto altro ancora. 

I vari ambiti di applicazione delle tecnologie sviluppate grazie al supporto teorico e pratico della linguistica computazionale forniscono un ottimo spunto di riflessione circa il non così raro incontro fra hard e soft sciences: uno degli ambiti di ricerca di Franco Cutugno e gli altri membri del team PRISCA Lab, infatti, riguarda l’impiego dell’avanguardia tecnologica nell’ambito del Cultural Heritage, dalle tecnologie museali utilizzate per ampliare e arricchire l’esperienza culturale del museo, ai software che definiscono gli standard di conservazione digitale del patrimonio artistico e culturale (vale la pena a questo proposito di citare le piattaforme online Europeana e Iccu). 

Elena Dell’Aquila, ricercatrice presso il PRISCA, è una psicologa specializzata in Psicologia Organizzazionale e Scienze Psicologiche e Pedagogiche. Il suo principale ambito di studio risiede nell’incontro tra tecnologie avanzate e innovative e modelli psicologici riguardo a metodologie educative e tecniche di insegnamento. In particolare tale incontro risulta nello sviluppo di giochi di ruolo virtuali (serious games) finalizzati allo sviluppo delle soft skills

Punto di partenza sono le teorie di Jacob Levi Moreno, psichiatra austriaco che elaborò una metodologia terapeutica fondata sul gioco di ruolo. Mettendo dunque in pratica una particolare declinazione della metodologia del gioco di ruolo moreniano, la dottoressa Dell’Aquila e i suoi collaboratori hanno sviluppato una serie di RPG (Role Playing Games) virtuali. Un esempio di serious games simula una situazione di conflitto in una classe e mette alla prova l’insegnante riguardo la sua modalità di gestione della difficoltà. Attraverso un complesso framework psicologico viene testata la capacità del docente di affrontare l’imprevisto. Inoltre, il software presenta un elevato grado di accuratezza nella comunicazione che si compone infatti secondo una struttura multimodale: verbale, paraverbale e non verbale. Dopo aver presentato la situazione all’utente e avergli fatto compiere le proprie scelte l’RPG genera un feedback e restituisce al docente una sintesi del suo comportamento. 

Attualmente il programma, rivolto soprattutto a insegnanti di istituti di secondo grado, è distribuito in classi interetniche in 5 diversi Paesi dell’UE: Italia, Belgio, Germania, Austria e Spagna. I trial saranno molto utili per cominciare a varare i risultati e le tendenze che poi saranno analizzati e confrontati al fine di ottenere una prospettiva più accurata della dimensione psicologica del conflitto multiculturale. Più in generale, in ogni caso, si tratta di un ottimo esempio di come gli elementi del gioco possano essere traslati al di fuori dell’ambito strettamente ludico per generare un tipo di conoscenza innovativa e approfondita. 

Come illustrato dall’esempio del PRISCA Lab, dunque, quello della robotica intelligente e dei sistemi cognitivi avanzati è un ambito di ricerca che oggi risulta più che attuale e nel pieno del suo sviluppo, grazie soprattutto alla grande varietà delle sue possibilità di applicazione che vanno dall’industria manifatturiera, alle istituzioni culturali fino ad arrivare, infine, all’assistenza della persona. Inoltre, nei suoi 250 mq di struttura, il PRISCA Lab dimostra come la spinta all’innovazione sia particolarmente favorita da un approccio peer-to-peer che si concretizza in uno scambio intellettuale tra ricercatori, docenti e studenti e una solida impostazione collaborativa interfacoltà. 

Considerazioni sul futuro dell’Intelligenza Artificiale

Riguardo all’argomento AI i dubbi e le incertezze non sono pochi. Dall’influenza dell’automazione sul mercato del lavoro ai rischi riguardo privacy e cybersecurity dei sistemi connessi, diverse preoccupazioni sono legate all’ottimizzazione dell’Intelligenza ArtificIale. Inoltre, tale espressione, sembra essere rientrata nell’interminabile elenco di buzzword che animano le discussioni online e non.

È dunque necessario sostenere una divulgazione ampia e accurata di tale argomento, poiché la comprensione di cosa è e cosa non è AI e delle sue caratteristiche principali è fondamentale per favorire il suo pieno sviluppo. Si tratta infatti di tecnologie che se comprese bene nel loro funzionamento, nella loro utilità e nelle loro modalità di implementazione, potranno avere un effetto a dir poco incisivo- non a caso si può parlare di ‘quarta rivoluzione’- in tanti e vari ambiti industriali e non solo, come è dimostrato ad esempio dai social robots. 

La sfida, dunque, è quella di non restare ancorati ad un livello superficiale della tecnologia e di riuscire a perfezionare l’interazione uomo-macchina la quale, come ogni altro tipo di interazione, si basa sul compromesso e sulla flessibilità

week in social

Week in Social: con Facta si potranno verificare le notizie sul Covid-19 e YouTube sfida TikTok

Iniziamo aprile con tanti aggiornamenti direttamente dal mondo dei social: la prima Week in Social del mese risponde presente e vi aggiorna in perfetto stile Ninja.

Facebook propone Facta

Ne abbiamo parlato tante, tantissime volte: Facebook intende andare a fondo sulla questione contrasto alle fake news. Migliaia gli account chiusi e le rilevazioni fatte dal team, ma ora non basta.

Per questo motivo arriva Facta, proprio in questi giorni in cui continuano invadenti le notizie false e allarmanti sul Covid-19. Si tratta di un progetto pilota mirato al fact-checking concentrato su WhatsApp. Un progetto spinto dalle direttive di Agcom per tutelare gli utenti contro la disinformazione sul Coronavirus.  

facebook 100 milioni pmi coronavirus

Come funzionerà? Ogni utente potrà inviare a Facta, tramite WhatsApp, messaggi relativi all’emergenza attuale affinché il fact-checking possa verificarne la veridicità. Tutte le info, vere e false, saranno poi riportate sul sito web di riferimento per poter mettere a tutti di consultarlo.  

Un servizio gratuito e facile da usare: salvate il numero +39 345 6022504 in rubrica ed inviate messaggi o vocali o immagini di dubbia autenticità. Facta farà un lavoro di analisi e risponderà direttamente sul sito Facta News.

Sarà possibile anche richiedere un aggiornamento quotidiano delle notizie già verificate. 

Facebook (ri)lancia Messenger

Ma come, direte voi, non esisteva già?

Sì, ma ecco la novità: Messenger arriva sia su Mac che su Windows con un’applicazione tutta sua. Sono passati molti mesi da quando lo avevamo annunciato e quei test e quelle indiscrezioni che sembrano non arrivare mai, alla fine si rivelano concreti. 

Accade perché in tempi di quarantena sono triplicati gli accessi alle piattaforme per videochiamate come accaduto per Zoom e poter implementare anche questa funzione per Facebook si tradurrà in maggiori accessi e utenze.

Facebook Messenger, il decalogo per il customer service

 YouTube sfida TikTok

“Secondo quanto riferito da diverse The Information, YouTube sta pianificando di lanciare un’applicazione in-app rivale di TikTok per la condivisione di video virali. Si chiamerà Shorts e dovrebbe arrivare prima della fine del 2020.

La feature dovrebbe vivere all’interno della stessa applicazione mobile esistente di YouTube. A quanto è dato di capire, sembra che la funzionalità si ispiri al concetto di TikTok: un feed di video super-brevi che fungono da alternativa a vlog e clip più lunghi che appaiono su YouTube.”

YouTube-TikTok

La scelta di mantenere i video all’interno dell’app madre, permetterà agli utenti di sfruttare la vasta libreria di musica e colonne sonore su licenza della piattaforma.

Per approfondire la news, l’articolo di Ninja Marketing: YouTube vuole lanciare una sua applicazione in risposta a TikTok

Twitter e i fake sul social

Sono tutti dalla stessa parte: i social si battono puntualmente per garantire notizie vere e account reali. Anche Twitter, non è da meno.

Twitter ha infatti eliminato oltre 20 mila account falsi relativi alla comunicazione dei governi di cinque paesi: Arabia Saudita, Serbia, Egitto, Honduras e Indonesia. 

Le altre notizie dai social, in breve

Whatsapp, Facebook ed Instagram in down da più giorni: se pensate che il problema sia solo vostro, tranquilli. Impossibilità di pubblicare e caricare le pagine: o una modifica del sistema o un sovraccarico delle piattaforme.

Medici e TikTok: chi ha detto che è un social per giovanissimi? I medici americani hanno deciso di informare i cittadini in modo semplice e significativo: inviando informazioni tramite TikTok.

digital divide

Digital Divide e competenze digitali in Italia: a che punto siamo

  • I motivi di esclusione dalle cosiddette ICT, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, possono essere molteplici: la condizione economica, l’età, la mancanza di competenze digitali e la provenienza geografica
  • È importante non lasciare indietro nessuno, fornendo le stesse possibilità digitali a tutti, formando le persone all’utilizzo di questi nuovi strumenti e fortificando le skill di chi è già dentro il mondo digitale

 

In un momento delicato e di isolamento, come quello che sta attraversando da febbraio tutta Italia, le possibilità di connettersi con le persone care o di poter condividere un hashtag o una battuta per sdrammatizzare la situazione, rappresentano un barlume di speranza e stanno mettendo in risalto il lato più caloroso e orgoglioso del popolo italiano: ci si fa compagnia dai balconi e da tutte le terrazze e si organizzano contest sui social network, pur di non darla vinta a questo nemico invisibile.

Connessione è unione, e come recita il famoso detto “l’unione fa la forza”.

Il Digital Divide in Italia

Purtroppo oggi, ma anche in altri momenti, una parte della popolazione italiana non può accedere a questi servizi. Questa disuguaglianza sociale è conosciuta come Digital Divide e con una formula ormai standard, è possibile definirlo come “il divario esistente tra chi ha possibilità di accesso effettivo alla tecnologia e chi invece no, parzialmente o completamente”.

Secondo il Report dell’Istat “Cittadini e ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), pubblicato a dicembre 2019, la percentuale di famiglie italiane che dispongono di una connessione a banda larga è pari al 74,7%, mentre la percentuale degli individui che hanno utilizzato Internet, negli ultimi 3 mesi precedenti l’intervista, è pari al 67,9% (entrambi dati in crescita rispetto alla medesima rilevazione dell’anno precedente).

Indipendentemente dal numero o dalla percentuale, nel 2020 tutti dovrebbero avere accesso a questo genere di opportunità, colmando questo gap, in quanto il non poterlo fare comporta una serie di conseguenze negative su questa parte di popolazione, che possono essere sintetizzate in due enormi svantaggi:

  • il primo di natura culturale: si immagini di non poter ascoltare un interessante podcast, di non poter leggere un quotidiano digitale o di non conoscere gli ultimi trend sui social network (anche un meme ritrae l’attualità e l’attualità è cultura)
  • il secondo di carattere economico: dall’implementazione di una suite mail fino all’installazione di un repositor file condiviso con i colleghi, passando per tutti gli strumenti che rendono possibile lo smart working. Beh, le conclusioni in questo caso sono ancora più immediate.

I motivi di esclusione dalle cosiddette ICT, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, possono essere molteplici: la condizione economica, l’età, la mancanza di competenze digitali e la provenienza geografica.

Ad esempio, una delle categorie più colpite dal Digital Divide è la fascia che comprende i soggetti anziani (65+): questo fenomeno è anche conosciuto come “digital divide intergenerazionale”. Infatti tra le famiglie composte esclusivamente da persone ultrasessantacinquenni, solo il 34,0% ha accesso a una connessione internet a banda larga.

Una sorta di paradosso se si pensa che una delle categorie che più avrebbe bisogno dei vantaggi del digitale, è quella che ne ha meno accesso.

Gli italiani e il mondo digitale

A sostenere l’importanza della connessione fra le persone, è un altro dato emerso dall’ultimo Report dell’Istat “Cittadini e ICT, secondo cui i servizi di messaggeria istantanea rappresenterebbero le attività digitali più diffuse fra le famiglie italiane.

Indipendentemente dal device (smartphone, pc, tablet o wearable), le attività legate all’utilizzo di servizi di comunicazione, che consentono di entrare in contatto con più persone contemporaneamente, sono le più comuni, forse perché sono quelle che riescono a far sentire gli utenti come parte di un unico mondo: più di otto internauti su dieci hanno utilizzato, nei tre mesi prima della rilevazione Istat, servizi di messaggeria istantanea e circa il 64,5% ha effettuato chiamate via Internet.

A seguire in questa classifica sui servizi del web più utilizzati dalle famiglie italiane:

  • Lettura di informazioni e notizie (57,0%)
  • Intrattenimento (film, musica e/o giochi) (47,3%)
  • Home banking (46,4%).

Inoltre più della metà degli utenti di Internet (di almeno 14 anni) ha effettuato almeno un acquisto online: precisamente il 57,2%, pari a 20 milioni 403 mila persone.

Ora chi vuol provare ad immaginare questo periodo di isolamento domestico, senza la possibilità di connettersi ad una linea veloce internet? Questo vuol dire senza serie tv on demand, senza videochiamata multipla (un must di questo periodo), senza tutto quello che prevede una connessione con una certa potenza.

Le competenze digitali

Altra storia sono poi le competenze digitali.

Si può partire da questo dato (Istat 2019): fra le famiglie che per scelta non hanno a casa una connessione a banda larga, la maggior parte indica come principale motivo la mancanza di capacità (56,4%) mentre il 25,5% di esse non considera Internet uno strumento interessante.

Osservando i dati del Report emerge che gli utenti (che invece hanno una connessione internet domestica) che hanno competenze digitali basse sono il 41,6%, di base il 25,8% e nulle il 3,4% (pari a 1 milione e 135 mila). Il 29,1% ha competenze digitali elevate.

Va ricordato che dal 2015 la Commissione Europea, in accordo con gli Istituti nazionali di statistica, ha definito un metodo per calcolare la qualità delle competenze digitali degli utenti. Infatti le capacità degli utenti devono corrispondere (con una graduatoria da 0 a 2) a quattro domini di competenza:

  • Information skill: identificare ed utilizzare di informazioni digitali
  • Communication skill: comunicare in ambienti digitali (attraverso strumenti digitali)
  • Problem solving skill: risolvere problemi tecnici, aggiornare le proprie e le altrui competenze.
  • Software skills for content manipulation: creare ed elaborare contenuti digitali.

Ad esempio per essere un utente con capacità digitali avanzate, bisogna ottenere un livello 2 per tutti i domini di competenza.

L’Italia sta percorrendo la strada della digital transformation, implementando le ultime tecnologie in molti campi professionali e nei servizi al cittadino.

Sarebbe altrettanto importante non lasciare indietro nessuno, fornendo le stesse possibilità a tutti, formando le persone all’utilizzo di questi nuovi strumenti e fortificando le skills di chi già fa parte di questo meraviglioso meccanismo tecnologico.

Anche chi ha competenze elevate può aiutare gli altri: forse ora è proprio il momento giusto.

rebranding marzo

Rebranding di marzo: OnePlus, BMW, Qvc e WINDTRE

  • Il restyling soft di OnePlus per comunicare in maniera più coerente con i propri consumatori
  • Dopo oltre 20 anni, il marchio BMW ha una nuova identità aziendale per la comunicazione online e offline
  • Qvc cambia volto dopo 10 anni con un logo in linea con i nuovi trend digitali
  • WINDTRE lancia il nuovo brand unico e si prepara alla sfida del 5G

 

Sono diverse le ragioni per cui un’azienda decide di attuare un processo di rebranding, prima fra tutte la necessità di comunicare meglio al pubblico i propri valori e la propria filosofia; ma anche la possibilità di emergere in un mercato sempre più saturo e creare un’esperienza costantemente positiva e di alta qualità tra il brand e i consumatori.

Scopriamo nel dettaglio le riprogettazioni del mese appena concluso.

LEGGI ANCHE: Rebranding di febbraio: Durex, Google Maps, Connexia e xister Reply

Il rebranding soft di OnePlus

Fondata nel 2013, OnePlus è diventata presto popolare per la progettazione, produzione e vendita al dettaglio del proprio smartphone.

La società con l’operazione rebranding intende assicurarsi che l’immagine e il messaggio siano più coerenti in tutti i punti di contatto. Le modifiche sono poche, infatti la composizione principale del logo rimane la stessa.

rebranding

“Sappiamo che la nostra community ama il nostro logo, quindi il nostro obiettivo era chiaro: mantenere il design generale risolvendo alcuni dei problemi che abbiamo identificato che renderebbero il nostro logo più accessibile a più persone” si legge sul loro forum.

In generale emerge un forte senso di fiducia che intende valorizzare ancora di più al posizionamento premium del brand.

Le modifiche hanno lo scopo principale di creare un’associazione chiara tra il logo e il marchio migliorando la leggibilità e la visibilità. Per raggiungere questo obiettivo, è stato aumentato lo spessore del logo, dando al numero 1 una curva in più per renderlo riconoscibile.

Rebranding di marzo: OnePlus, BMW, Qvc e WINDTRE

Un rebranding soft che prevede tra i piccoli ritocchi anche la rimozione del box dietro la parola “OnePlus”. Anche il peso dell’intero logo è stato rivisto per migliorare l’equilibrio generale.

Nella sua interezza, il logo è molto più bilanciato e uniforme. Il posizionamento sui vari punti di interazione appare giocoso, colorato e cool, con applicazioni interessanti e del tutto inaspettate.

Un’altra modifica sostanziale riguarda lo slogan, di cui è stato aggiornato lo stile e il carattere, avvicinando le lettere e scambiando le maiuscole con le minuscole.

Il rebranding è anche l’occasione per cambiare il carattere tipografico. Partendo da OnePlus Slate, altamente funzionale e versatile, sono stati inseriti una gamma di caratteri diversi per garantire una migliore esperienza di lettura per l’utente.

Tutti questi elementi sono stati combinati per ottenere un’immagine più coerente, unica e riconoscibile. Il risultato è un migliore utilizzo dei colori del marchio che trasmette una finitura audace ma di alta qualità, mantenendo un approccio visivo fresco e vivace.

BMW presenta il nuovo logo di comunicazione

Dopo oltre 20 anni, il marchio BMW ha una nuova identità aziendale per la comunicazione online e offline. Il nuovo logo segna il più grande cambiamento nel marchio dell’azienda da quando l’emblema iconico è stato introdotto nel 1917.

rebranding bmw

I loghi di comunicazione della casa automobilistica tedesca sono stati completamente rielaborati, con un nuovo logotipo e nuovi principi di progettazione. L’estetica è moderna e si ispira allo stile di tendenza ultra-minimalista e flat.

Il nuovo marchio BMW non delude le aspettative e lo stile visivo contemporaneo è adatto all’era digitale.

Il design è espressione dell’identità rivisitata del brand che pone il cliente al centro di tutte le attività. Ridotto e bidimensionale, trasmette apertura e chiarezza. BMW ritorna a un design più piatto ed elimina gli effetti e le ombre 3D molto datate.

“BMW sta diventando un marchio di relazione. Il nuovo logo di comunicazione è sinonimo di apertura e chiarezza” afferma Jens Thiemer, Vicepresidente senior per il cliente e il marchio BMW.

La versione trasparente del logo è un invito aperto ai clienti a unirsi al mondo BMW. Il cambiamento riflette la transizione dell’azienda dal centrarsi esclusivamente sul mondo automobilistico a quello della tecnologia e delle connessioni.

Un’identità orientata alle sfide e alle opportunità della digitalizzazione. Il logotipo ridisegnato esprime apertura e forza del carattere per garantire una presenza contemporanea, a prova di futuro, sia online che offline.

rebranding

Il cambiamento più grande è la perdita dello sfondo nero, che ha reso l’immagine di BMW così iconica ed elegante durante il corso del tempo. Questo nuovo contrasto ha destato subito lo stupore del pubblico, abituato al vecchio emblema, che è intervenuto sui social.

Il lancio globale del nuovo design è partito i primi di marzo e si completerà a maggio 2021. Il nuovo logo è un nuovo marchio multimediale e verrà utilizzato in aggiunta al logo esistente.

Sul loro sito è possibile scoprire il significato dell’emblema BMW e come il cambiamento del marchio si riflette nel nuovo logo di comunicazione.

Qvc cambia volto dopo 10 anni

Nel mese di marzo cambia aspetto anche Qvc. Presente in nove paesi, il retailer multimediale coinvolge ogni giorno milioni di acquirenti in un viaggio alla scoperta di nuovi marchi e prodotti: dagli oggetti per la casa all’abbigliamento, passando per bellezza, elettronica e gioielli.

Rebranding Qvc

La strategia di rebranding prevede il rinnovo del logo e dell’identità su tutte le piattaforme: TV, eshop e social.

Dopo aver analizzato le abitudini d’acquisto dei suoi consumatori, ormai sempre più multiscreen e mobile, Qvc ha creato un’immagine in linea con i nuovi trend digitali.

Al centro di tutto c’è il cliente sempre più informato e propenso ad adottare nuove tecnologie. Questa strategia è indirizzata a utenti sensibili al video storytelling che rappresenta lo strumento per scoprire e conoscere al meglio i prodotti dei loro desideri.

I nuovi elementi del rebranding di Qvc sono progettati per catturare l’attenzione già dallo schermo dello smartphone.

Il nuovo logo combina tre elementi geometrici: un quadrato che rappresenta i diversi schermi attraverso i quali i clienti entrano in contatto con il mondo Qvc; un cerchio che riflette l’idea di networking e di dialogo costante con i consumatori; una linea che fa eco e rimanda all’immagine di una porta aperta sulla vasta community del retailer, al contempo ricorda l’impugnatura di una lente di ingrandimento che simboleggia ricerca e innovazione.

Rebranding di marzo: OnePlus, BMW, Qvc e WINDTRE

Il risultato è una “Q” reinventata in un formato elegante e ottimizzato per dispositivi mobili e una combinazione di colori che sottolinea l’approccio social-first e shopping video di Qvc.

Il nuovo brand unico WINDTRE

WINDTRE lancia il nuovo brand unico e la nuova infrastruttura ‘Top Quality’ di ultima generazione per prepararsi alla sfida del 5G.

“Il lancio di WINDTRE in un unico nuovo marchio rappresenta una svolta decisiva per la nostra azienda, l’inizio di una nuova fase per i nostri clienti consumer e business” dichiara il Ceo Jeffrey Hedberg.

rebranding windtre

Sul sito corporate, così come su tutti gli altri principali touchpoint digitali dell’azienda, è online da marzo una pagina dedicata al brand unico che permette di esplorare la genesi del marchio, i suoi valori, la forza del suo network e la capillarità della sua rete vendita.

Il nuovo marchio consumer WINDTRE e la nuova veste grafica di WINDTRE Business puntano al concetto di tecnologia più vicina alla vita quotidiana delle persone. Forme arrotondate e liquide consolidano il posizionamento valoriale dell’azienda anche grazie al colore arancione, eredità del vecchio logo Wind.

Il risultato del rebranding è un vero e proprio mix tra i loghi precedenti delle aziende, da notare le striature che hanno contraddistinto il marchio TRE sin dalla sua nascita diventano più lineari e vengono applicate anche sulla W.

 

La nascita del nuovo brand unico WINDTRE è annunciata da una campagna media on air dai primi marzo. Il primo spot, diretto da Gabriele Muccino, proietta lo spettatore in una storia emozionante che descrive come la tecnologia possa avvicinare generazioni e riunire un gruppo di amici da tempo lontani. Tra gli storici brand ambassador ritroviamo Rosario Fiorello.

 

Il claim ‘molto più vicini’ è in linea con il posizionamento valoriale del marchio:

“Il ruolo di un’azienda di tlc come la nostra deve essere quello di facilitatore delle relazioni umane. Con il nuovo brand unico e l’infrastruttura mobile più grande d’Italia, potremo proporre nuove ed efficaci soluzioni commerciali, attraverso una rinnovata rete di negozi su tutto il territorio nazionale” afferma Gianluca Corti, Chief Commercial Officer.

tecnologia 4.0

Che cos’è la Robotica, spiegato con una mini-serie TV

  • “Societing4.0 – Che cosa sono le tecnologie 4.0″ è una miniserie per capire le principali tecnologie 4.0 (dalla Robotica all’Intelligenza Artificiale, dalla Stampa 3D alla Realtà Aumentata/Virtuale, dai Big Data all’Internet delle cose) e per dare maggiore consapevolezza e strumenti critici sulla loro applicazione a cittadini curiosi, PMI, studenti e insegnanti.
  • Per ciascuna tecnologia le telecamere dei giovani ricercatori entrano nei laboratori dell’Università Federico II dove sono studiate le tecnologie e dove sei luminari rispondono alle domande dei ragazzi, sotto la direzione scientifica del Professore Alex Giordano, tra i massimi esperti di trasformazione digitale in Italia.

I giovani ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II hanno intervistato Bruno Siciliano, Professore di Automatica presso il DIETI (Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione), Coordinatore del PRISMA Lab (Projects of Industrial and Service Robotics, Mechatronics and Automation) e Direttore del Centro ICAROS (Interdepartmental Center for Advances in Robotic Surgery).

Puoi guardare la video-intervista integrale sul portale di Rai Scuola a questo link.

Il Prof. Siciliano ritiene che sia necessario pensare alla robotica come una tecnologia di supporto all’uomo. Non c’è nulla di più falso di attribuire all’automazione la perdita di posti di lavoro, quelli che saranno sostituiti saranno lavori pericolosi, alienanti o ripetitivi”.

Un aspetto questo che suscita le preoccupazioni di chi vede in generale, nell’avvento delle tecnologie all’avanguardia, un problema e non un’opportunità per l’uomo. L’idea del Prof. è molto stimolante: Se pensiamo alla robotica, essa consentirà, da qui a qualche anno, una forma di nuovo umanesimo digitale, avremo molto più tempo per essere creativi, per pensare, per realizzare, e creare degli oggetti che possono portare al miglioramento della nostra vita”.

Una visione che vede certamente proficuo il rapporto tra uomo e tecnologia e aggiunge: “La scommessa della robotica e la sua direzione guardano verso dei sistemi sempre più intelligenti, grazie alla tecnologia e agli algoritmi di intelligenza artificiale che comunque saranno sempre il frutto dell’ingegno e della creatività di chi li ha progettati. È questa la vena creativa che rende la robotica così affascinante tra i giovani, da quelli che giocano col kit di Arduino e realizzano in casa un sistema di tipo artigianale, a quelli che sviluppano sistemi più avanzati”. Il suo pensiero infatti va ai giovani: Il mio compito da professore non è solo quello di formare ricercatori, ma anche quello di formare i giovani che saranno i futuri professionisti dell’economia del Paese”.

E a proposito di economia, il Prof. Siciliano pensa che la tecnologia, la robotica, nello specifico, possa essere d’aiuto anche alle piccole e medie imprese: La robotica è diventata di grande interesse per le piccole e medie imprese da circa 5 anni perché il robot può essere personalizzato in base alla particolare applicazione senza che l’operatore debba conoscere come programmarlo, dal momento che è possibile sviluppare un’applicazione in maniera intuitiva con un livello di intuitività pari all’utilizzo di uno smartphone. Tutto ciò sta diventando sempre più allettante per le piccole e medie imprese, perché con un investimento modesto che riguarda il costo della macchina e magari un costo di integrazione, installazione e manutenzione, l’operatore può eseguire delle lavorazioni utilizzando il cobot in maniera intuitiva alla stregua della robotica domestica”.

Alla domanda sulla possibilità di trovare un approccio mediterraneo alla robotica, il Prof. precisa: Il fatto che mi interessi di robotica e che lo faccia a Napoli, una città che allena alla complessità, ha permesso che fosse proprio la mia città e la sua gente a fornirmi ispirazioni per alcune delle idee più creative”.

LEGGI ANCHE: La singolarità è arrivata senza avvisare (e non è come la immaginavamo)

Approfondimenti

A cura dei giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

La robotica è nata come quel settore dell’ingegneria che si occupa della realizzazione di macchine (robot) e dello sviluppo di metodologie che consentono a queste ultime di eseguire compiti specifici atti a riprodurre il lavoro umano in ambienti vari e per scopi diversi. Nella robotica confluiscono sia discipline scientifiche come l’elettronica, l’informatica, l’intelligenza artificiale, la meccatronica, la bioingegneria, le nanotecnologie, le neuroscienze, sia umanistiche come l’etica, la sociologia, la filosofia, la giurisprudenza, l’etologia e, pertanto, ha assunto via via la connotazione di una scienza interdisciplinare.

Uno dei manuali punti di riferimento del settore è il monumentale (229 gli autori coinvolti), “Springer Handbook of Robotics”. Il volume curato da due esperti di fama internazionale: il professor Bruno Siciliano, dell’Ateneo di Napoli Federico II e Oussama Khatib, dell’Università di Stanford, ha ottenuto il maggior riconoscimento per l’editoria scientifica: 2008 PROSE Award for Excellence in Physical Sciences & Mathematics. In un passo del manuale si prefigura tutta la portata della robotica che è: “fortemente coinvolta nelle sfide crescenti dei nuovi settori emergenti. Interagendo, esplorando e lavorando con gli umani, la nuova generazione di robot è destinata a entrare sempre di più in contatto con gli individui e le loro vite quotidiane”, costantemente alla ricerca di nuovi utilizzi e applicazioni “mirando a raggiungere e oltrepassare i limiti umani”.

La robotica attualmente rappresenta uno degli ambiti di maggiore investimento in termini di ricerca e costituisce, nell’interazione con altre tecnologie come i big data e l’intelligenza artificiale, il futuro dell’innovazione tecnologica o meglio dire il presente, dal momento che a detta di molti esperti tra cui il prof. Siciliano: “oggi, siamo nel pieno dell’era della robotica”.     

Esordi e cenni storici sulla Robotica

Ciò che definisce meglio la robotica nel suo progredire sta nella definizione di “connessione intelligente tra percezione e azione”. Grazie a sensori e attuatori i robot raccolgono informazioni dall’ambiente circostante, le elaborano e compiono le azioni utili a raggiungere i compiti loro assegnati. Questo tipo di “intelligenza” conferisce ai robot ampi margini di autonomia. Tali margini diventano sempre maggiori con l’avanzare della ricerca scientifica e della tecnologia, all’insegna di una storia che parte da lontano.

La prima tappa si colloca attorno al 1200, quando il matematico e ingegnere arabo Al-Jazari, primo pare ad aver realizzato macchinari dotati di forme umane, mise a punto un sistema con sembianze di donna per il lavaggio delle mani. Dall’automa cavaliere di Leonardo da Vinci (1495) alle Karakuri dolls, bambole meccaniche tradizionali del Giappone (XVII-XIX secolo) la storia dei robot si caratterizza per una dicotomia fondamentale: quella tra il bisogno dell’uomo di realizzare delle macchine utili e il sogno di replicare se stesso.

Il termine robot fu coniato nel 1920 dal commediografo ceco Karel Čapek nell’opera I robot universali di Rossum. Non ci deve sorprendere che la parola robot, (dal ceco robota, cioè lavoro esecutivo) sia comparsa per la prima volta nella sua accezione moderna in un’opera teatrale: per via della doppia faccia di questa tecnologia, tra ricerca di soluzioni di questioni meramente pratiche e  tentativo di forgiare un alter ego dell’uomo, essa ha stretto sin dall’inizio un legame indissolubile con l’immaginario collettivo. 

Dal teatro ai film, 2001: Odissea nello spazio, Blade Runner, fino ad arrivare al film d’animazione Wall-e, e non solo, i robot hanno popolato pagine di libri, serie tv e videogiochi. Il mondo dei media si è da sempre occupato del tema declinandolo in maniera diversa, contribuendo però il più delle volte a trasmettere una rappresentazione distopica delle società tecnologiche.

Nella storia recente, dal 1960 al 1980, la robotica si è andata affermando nel settore manifatturiero per via di una sempre maggiore automatizzazione dei processi produttivi

Nei decenni successivi, la nuova generazione di robot ha iniziato a esplorare pianeti, a compiere operazioni di salvataggio, a entrare nelle case per aiutare nelle faccende domestiche, in sala operatoria, nelle strade, addosso ai nostri corpi. “Viviamo in una nuova era robotica, un’era in cui i robot convivono con noi, ci aiutano, ci connettono, a volte ci sostituiscono”. Queste le parole del prof. Siciliano che aggiunge: “per quanto riguarda il futuro (che è alle porte) il trend principale sarà quello della robotica personale.”

Bill Gates, fondatore di Microsoft, in un articolo pubblicato nel 2006 su Scientific American, sostiene che la robotica, di lì a poco, sarebbe diventata l’hot topic del momento. L’articolo non a caso s’intitola “A robot in every home” e in esso Gates spiega la sua prospettiva riguardo i futuri sviluppi del settore. “Nonostante le difficoltà – scrive il fondatore di Microsoft – quando parlo con persone coinvolte nella robotica, siano essi ricercatori universitari, imprenditori, hobbysti o studenti delle superiori, il livello di eccitazione e aspettative mi ricorda incredibilmente dei tempi in cui Paul Allen e io osservavamo la convergenza delle nuove tecnologie e sognavamo un mondo in cui ci sarebbe stato un computer su ogni scrivania e in ogni casa. E guardando alle tendenze che ora stanno iniziando a confluire, non mi riesce difficile immaginare un futuro in cui i devices robotici diventeranno una componente praticamente ubiquitaria nelle nostre vite quotidiane”.     

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Service Robotics: il futuro (prossimo) della robotica e le implicazioni etiche

Per una tecnologia che promette di essere così diffusa, integrata e pervasiva nelle nostre vite i potenziali problemi non sono di certo pochi, né di poco conto: a tal proposito, centrale è il tema della sicurezza —si pensi ai pericoli fisici per gli individui a stretto contatto con questi dispositivi— e le diverse controversie etiche riguardanti l’utilizzo degli automi.

Tali questioni sono oggetto della roboetica, ovvero l’etica applicata ai robot. Nata ufficialmente in Italia, nel 2004 con il primo Simposio Internazionale di Roboetica, affronta una serie di argomenti che nascono dalla fondamentale differenza tra i robot e la maggior parte delle altre innovazioni: i robot infatti non sono soltanto oggetti tecnologici ma sono, sempre di più, ‘soggetti dotati di capacità decisionali‘. 

Durante il Simposio Internazionale di Roboetica, organizzato in collaborazione con la Scuola di Robotica e l’Arts Lab della scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Gianmarco Verruggio, scienziato robotico sperimentale, ha ideato il concetto di roboetica per indicare il “rapporto positivo che dovrebbe intercorrere fra progettista/produttore/utente di robot e queste macchine intelligenti. Non solo norme negative, dunque, ma la complessa relazione che collega gli umani ai loro artefatti intelligenti e autonomi”. Ciò che è emerso dal simposio a cui hanno partecipato filosofi, giuristi, sociologi, antropologi e scienziati robotici provenienti da Europa, Stati Uniti e Giappone, e che ancora oggi costituisce il nucleo di base della disciplina, è il dovere degli specialisti del settore di accrescere la consapevolezza del pubblico circa le problematiche legate all’utilizzo dei robot. Scopo della roboetica è quello di attuare una divulgazione estesa “affinché la società possa prendere parte attiva nel processo di creazione di una coscienza collettiva, in grado di individuare e prevenire un uso errato della tecnologia. La speranza è che si possa giungere a un’etica condivisa da tutte le culture, tutte le nazioni e le religioni, così che la costruzione e l’impiego di robot contro gli esseri umani sia considerato un crimine contro l’umanità”.

Una delle domande della roboetica riguarda la “titolarità della responsabilità” a proposito dell’eventuale errore o danno provocato da una macchina. In particolare, le inquietudini e le perplessità si moltiplicano con l’aumentare delle applicazioni degli automi in ambiti come l’assistenza medica, personale, la biorobotica e la robotica militare. 

Oggi, è evidente, la roboetica e le sue questioni costituiscono un tema di discussione centrale in una società in cui aumentano sempre di più le applicazioni dei robot in ambienti cosiddetti antropici, in coabitazione con gli esseri umani. È proprio per la natura della robotica, sostiene l’esperto Siciliano, per le molte questioni che solleva e per la varietà delle forme che essa può e potrà assumere nel futuro prossimo, che tale disciplina chiama in causa tutta una serie di studi e considerazioni diverse. L’ingegneria, l’informatica, la fisica, la biologia e anche la sociologia, la filosofia e la cultura d’impresa

Il PRISMA Lab

Da trentacinque anni il laboratorio PRISMA del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Tecnologie dell’Informazione della Federico II si occupa di progetti di robotica industriale e di servizio, meccatronica e automazione. Vincenzo Lippiello, professore associato di Automatica, racconta la storia del laboratorio, partendo dai primi robot entrati in loro possesso, dei COMAU di prima generazione, con cui si è perseguito l’intento di far progredire i sistemi di controllo di tali robot con tecniche di evoluzione sempre più avanzate.

Con il tempo la robotica è progredita verso tecnologie sempre più sofisticate, che hanno la capacità di misurare interazioni fisiche lungo tutta la propria struttura, percependo le forze con cui interagiscono. I robot presenti in laboratorio diventano sempre più piccoli e leggeri, sicuri e intelligenti.

Dal più conosciuto RoDyMan, piattaforma semi-umanoide, capace di manipolare oggetti deformabili grazie alla sua facoltà di comprendere quanta forza applicare durante il trattamento, a robot di piccole dimensioni che riescono a percepire il contatto non solo attraverso i loro bracci meccanici, ma anche attraverso la propria base, fino alla MERO Hand di Fanny Ficuciello, ricercatrice di Bioingegneria Industriale: progetto di una mano antropomorfa, soluzione di particolare rilievo e interesse nell’ambito della ricerca sulle protesi robotiche della mano.

Il PRISMA Lab si occupa anche di robotica aerea, disponendo di un’arena di volo a San Giovanni a Teduccio. Vanta una collaborazione con Eni, azienda che ha dimostrato interesse verso lo sviluppo di nuove tecnologie robotiche.

In particolare la ricerca si concentra sullo sviluppo di droni ibridi, composti da un multimotore, una base mobile e un braccio robotico per l’ispezione di impianti petrolchimici.

Social Media: ecco come li usano le diverse generazioni

  • Dai baby boomer alla generazione Y, fino ai post millennial: come cambia l’uso dei social media, generazione per generazione
  • Le generazioni Y e Z sono più reattive al fascino delle celebrities sui social rispetto non solo ai baby boomers ma anche alla generazione X

 

Li usiamo tutti per informarci, intrattenerci, per farci i fatti degli altri, per guardare foto e viaggiare con la mente, per saperne di più su qualcuno, per pubblicizzare noi stessi e la nostra azienda. I social media sono entrati a far parte della vita di ognuno di noi in modi e tempi differenti. L’uso dei social varia, infatti, da generazione in generazione. Ogni fascia generazionale introietta caratteristiche e potenzialità dei social in modo personale e soggettivo.

La percezione del sé, rispetto ai contenuti di cui fruiamo quotidianamente attraverso i social, varia, in particolar modo, se parliamo dei baby boomer e delle generazioni Y e Z.

Baby boomer, generazione Y e post millennial: chi sono?

  • I baby boomer, nati tra gli anni ’40 e gli anni ’60, sono i cosiddetti “immigrati digitali” , secondo la definizione del 2001 di Marc Pensky. Coloro che non sono nati “immersi” nelle nuove tecnologie e che hanno imparato ad utilizzare da adulti, cioè quando coscienza critica, percezione del sé e identità erano già formate da un pezzo.
  • La generazione Y, invece, comprende i nati tra gli anni ’80 e il 2000 ed è rappresentata dai “nativi digitali” – sempre secondo Prensky – i figli delle nuove tecnologie, eternamente connessi.
  • La generazione Z è quella dei post millennial, dei nati dopo il 2000, iperconnessa e multimediale.

Ciò che accomuna la generazione Z e la generazione Y e ciò che differenzia queste due da quella dei baby boomer è, sicuramente, il rapporto con le nuove tecnologie e quindi con i social media.

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millennials

Generazioni social: strumenti o veicoli d’informazione

La differenza sostanziale nell’uso dei social  da generazione in generazione è la percezione, che va da “strumenti” di informazione a “veicoli” di informazione. Sì, perché se per alcuni informarsi tramite i social significa che i social in sé forniscono il contenuto dell’informazione, la realtà è ben diversa. I social sono piattaforme che riempiamo con ciò che vogliamo, ciò che ci piace e ciò che è più vicino ai nostri modi di pensare. Le pagine d’informazione, ad esempio, sono diverse da utente a utente, in base a quelle che si preferisce seguire. Di conseguenza, anche le informazioni saranno – tendenzialmente e pressappoco – diverse.

La generazione dei baby boomer – mediamente, s’intende – tende ad interpretare i social network come fonti informative a cui fornisce una fiducia e una credibilità molto elevata. Questo deriva dal fatto che avendo imparato ad utilizzarli successivamente, non riescono a “governarli” nella loro totalità e il loro utilizzo diventa, quasi, un gioco forza tra piattaforma e utente.

Le generazioni Y e Z, invece, – sempre mediamente – riescono ad avere un quadro più completo del luogo digitale dove si trovano, percependo come fonte non il social network in generale, ma la pagina o l’utente che pubblica il contenuto.

Si tratta di un problema – o meglio di una variazione – della percezione.

Instagram VS Facebook

Le nuove generazioni – gli under 23, soprattutto – si stanno spostando in massa su Instagram, questo è chiaro. Fino a qualche anno fa, Facebook era il social network più utilizzato. Oggi la differenza è netta: generazione Y e Z sono su Instagram, i baby boomer sono su Facebook.

Secondo Marketing Charts, le generazioni adottano comportamenti differenti sui social. In particolare, i baby boomer hanno un comportamento meno interattivo: pubblicano foto e post, non allo scopo di “chiacchierare” con gli altri utenti. Millennial e post millennial, invece, tendono ad usare i social per interagire.

Influencer marketing ed eCommerce

Il concetto di influencer è molto più familiare alle nuove generazioni, per questo esse sono più sensibili all’influencer marketing. In particolare, le generazioni Y e Z sono più reattive al fascino delle celebrities sui social rispetto non solo ai baby boomers ma anche alla generazione X.

Invece, per quanto riguarda gli acquisti online – come accadde per la nascita della Pepsi Generation, pensata preventivamente per i baby boomer di domani – si potrebbe pensare che siano ancora loro ad avere maggiori risorse per acquistare. Eppure, i baby boomer non si lasciano andare agli acquisti tramite eCommerce che guardano ancora non proprio di buon occhio e rimangono ancorati ai negozi fisici.

I giovani, nonostante non dispongano di grandi risorse economiche, rappresentano il principale target di chi fa vendita online.

Ancora una volta, ciò che traspare è il valore dell’interattività. Quell’interattività che differenzia, in sostanza, il comportamento dei baby boomers sui social da quello delle generazioni dei millennial e post millennial.

La musica del mondo è nella tua tasca!

YouTube vuole lanciare una sua applicazione in risposta a TikTok

  • YouTube sta pianificando il lancio di una funzione di condivisione video di breve durata entro la fine del 2020;
  • La funzione, chiamata “Shorts”, vivrà come un feed all’interno dell’applicazione mobile di YouTube esistente, il che significa che gli utenti potranno utilizzare la musica e le canzoni di YouTube su licenza;
  • TikTok si avvicina ai 2 miliardi di download in tutto il mondo. L’app è esplosa in popolarità e influenza, soprattutto come piattaforma per la Generazione Z basata sulla creatività e sulla community.

 

Secondo quanto riferito da diverse The Infrmation, YouTube sta pianificando di lanciare un’applicazione in-app rivale di TikTok per la condivisione di video virali. Si chiamerà Shorts e dovrebbe arrivare prima della fine del 2020.

La feature dovrebbe vivere all’interno della stessa applicazione mobile esistente di YouTube. A quanto è dato di capire, sembra che la funzionalità si ispiri al concetto di TikTok: un feed di video super-brevi che fungono da alternativa a vlog e clip più lunghi che appaiono su YouTube.

Con quasi 2 miliardi di download, TikTok è diventato il palcoscenico per la creatività da quando è stato lanciato nel settembre 2017. Meno di un anno dopo la piattaforma ha debutatto negli Stati Uniti, dove è diventato subito un must per i creator, che sentivano la mancanza di uno strumento simile a Vine dopo la decisione di Twitter ne aveva deciso la chiusura nel 2016.

Oggi quei video brevi, con la loro capacità di adattarsi ai temi più svariati, dal beauty alla salute, dall’intrattenimento all’educational, iniziano a rappresentare una vera e propria minaccia per YouTube, la condivisione di condivisione video più longeva.

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YouTube-TikTok

Come funzionerà la feature di YouTube

La scelta di mantenere i video all’interno dell’app madre, permetterà agli utenti di sfruttare la vasta libreria di musica e colonne sonore su licenza della piattaforma.

Ciò significa anche che YouTube non dovrà convincere gli utenti a scaricare un’altra app sui loro telefoni per utilizzare Shorts, e i creator che hanno accumulato milioni di iscritti sui canali YouTube esistenti non dovranno convincere la loro fanbase a migrare verso un’altra app per avere più contenuti.

YouTube Smartphone

Tutti alla rincorsa di TikTok

Altre aziende e startup con sede negli Stati Uniti hanno fatto diversi tentativi con le proprie app per imitare TikTok, ma nessuna è riuscita a raggiungere il livello di popolarità che TikTok ha raggiunto e sta continuando a costruire.

Anche Facebook ha rilasciato un concorrente di TikTok nel novembre 2018, Lasso, ma senza troppo clamore dal suo debutto. Il cofondatore di Vine ha lanciato un’app chiamata Byte all’inizio del 2020, che ha visto un certo successo iniziale nei numeri di download, ma non ha ancora dato vita a stelle di internet o a meme virali.