Il mondo del retail ha più che mai bisogno di adeguarsi ai nuovi trend e alle nuove esigenze delle persone: rimanere competitivi è essenziale, soprattutto durante le festività.
Per assicurarsi un alto grado di competitività nel mercato non è possibile ignorare un approccio customer-centric con l’obiettivo di assicurarsi il vantaggio che deriva dall’esperienza positiva dei clienti.
Tale approccio si sviluppa su due binari:
attraverso l’attuazione di strategie che aumentano il volume del digitale;
attraverso una trasformazione del ruolo del negozio fisico.
Salesforce, azienda leader globale del CRM, consente alle aziende di ogni dimensione e settore di trasformarsi digitalmente e creare una panoramica a 360° dei propri clienti, ottimizzando la propria strategia e sviluppando un rapporto duraturo con i clienti.
Per comprendere la strada da intraprendere nel percorso verso un aumento della competitività nel settore retail, è però fondamentale conoscere a fondo le sfide da superare, individuare le opportunità di crescita e sfruttarle al meglio.
A questo scopo, mentre i confini tra negozio fisico e digitale diventano sempre più sottili, Salesforce ha ascoltato 1.600 acquirenti e più di 1.000 dirigenti nel settore retail per individuare le nuove regole del coinvolgimento dei consumatori.
Guida al retail: sfide e priorità per il commercio
Nel contesto odierno le sfide nel retail sono sempre maggiori e, allo stesso tempo, sono diverse le priorità più attuali.
Tra le sfide a cui è necessario porre attenzione troviamo:
inflazione;
problemi di rifornimenti;
mancanza di manodopera.
Tra le priorità più urgenti del settore c’è sicuramente l’esigenza di conoscere sempre meglio i propri clienti, le loro opinioni e le loro esigenze. Questi dati sono in grado di trasformarsi in informazioni di valore capaci di accrescere la propria competitività nel mercato poiché permettono di ottimizzare l’esperienza offerta al cliente nel negozio fisico o in quello online.
L’uso dei dati per la conoscenza del cliente
La quarta edizione del “The Connected Shoppers Report” ci fornisce diversi dati interessanti sugli acquirenti connessi che rivelano quali siano le regole in evoluzione del coinvolgimento delle persone.
Dai numeri raccolti nel report emerge che:
l’80% degli acquirenti abbandonerà un rivenditore dopo tre brutte esperienze;
il 65% dei clienti ha utilizzato un canale self-service negli ultimi due anni;
l’83% dei clienti si aspetta di risolvere problemi complessi parlando con una sola persona;
Il 74% dei clienti afferma poi che comunicare in modo onesto e trasparente è più importante ora rispetto a prima della pandemia.
Tutti dati utili a comprendere quanto e come il servizio offerto sia migliorabile. Particolarmente significativo è anche il punto di vista dei professionisti del servizio, il 79% dei quali afferma che è impossibile fornire un ottimo servizio senza una visione completa delle interazioni con i clienti.
Nel report è inoltre possibile evidenziare quattro tendenze principali riguardo al retail:
il customer journey è sempre più complesso;
i negozi diventano sempre più digitali;
le esperienze e il coinvolgimento sono alla base della fidelizzazione;
i rivenditori e i brand creano un numero sempre maggiore di touchpoint digitali e fisici.
È chiaro come tutti questi dati possano essere trasformati in informazioni di valore, traducendosi nella manifestazione delle esigenze degli acquirenti, che possono essere schematizzate in questo modo:
trasparenza, cioè una comunicazione chiara e onesta;
necessità di reperire le risposte sui canali online in modo facile e veloce;
servizio guidato sui canali digitali per facilitare l’autonomia rispetto a qualunque procedura;
automazione per accelerare la risposta a dubbi e quesiti.
Offrire un servizio sempre competitivo e che segua un’ottica di customer centricity permette ai retailer di migliorare vendite, marketing e servizio, anticipando le esigenze dei clienti.
Ma ci sono molte altre informazioni interessanti da tenere in considerazione. Ad esempio:
l’85% delle persone si aspetta interazioni coerenti tra i reparti;
il 56% si aspetta che tutte le offerte siano personalizzate;
La personalizzazione è ormai un prerequisito e i clienti bramano esperienze soddisfacenti e autentiche. La fiducia è infatti un aspetto che assume sempre più rilevanza.
Come identificare il pubblico target
Soddisfare l’esigenza di conoscere i dati legati al cliente offre la possibilità di identificare prima di tutto un pubblico target di riferimento, un gruppo demografico composto da quelle persone che hanno maggiori probabilità di acquistare i prodotti o i servizi offerti da un’azienda.
Identificare il pubblico target è oggi fondamentale per qualsiasi azienda che voglia crescere. Per poterlo fare è essenziale conoscere i dati, in modo da ottimizzare la propria strategia di crescita.
Per giungere ad una identificazione del pubblico target è quindi necessario ottenere una una serie di informazioni legate a:
dati demografici del pubblico;
desideri di acquisto;
siti di acquisto più utilizzati;
sentiment su aziende, interessi e argomenti di interesse;
contenuti di interesse del pubblico di riferimento;
fiducia.
Una volta identificato il pubblico target sarà possibile definire una proposta di valore unica facendo risaltare le caratteristiche aziendali e analizzando la concorrenza per conoscere punti di valore. Il tutto in un’ottica di personalizzazione del servizio offerto sempre maggiore.
I vantaggi della personalizzazione delle relazioni con il cliente nel retail
Conoscere il proprio target di riferimento offre dunque la possibilità di ottenere molteplici vantaggi tra cui:
ottimizzare le strategie di marketing;
risparmiare rispetto ai costi sostenuti per le campagne adv grazie a campagne mirate;
migliorare la fidelizzazione dei clienti grazie ad un’offerta sempre più personalizzata;
sviluppare una relazione duratura con i clienti;
digitalizzare esperienze fisiche;
semplificare i percorsi di shopping multicanale;
migliorare il servizio clienti;
creare legami commerciali sostenibili;
utilizzare i dati per conquistare quote di mercato.
Partire dalla conoscenza dei dati sugli acquirenti che fanno parte del proprio pubblico target è quindi l’aspetto fondamentale per impostare una strategia che porti ad aumentare la competitività nel retail.
Il periodo delle festività rappresenta il momento in cui è fondamentale sfruttare al meglio le potenzialità delle informazioni acquisite.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/guida-al-retail-salesforce-copertina.jpg639958Ninja Partnerhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Partner2022-12-01 09:59:472022-12-01 14:47:00Guida al retail per le festività: come fidelizzare i clienti con un'esperienza personalizzata
Nel 2030, le persone nate tra il 1997 e il 2012 disporranno di 33 trilioni di dollari. Una cifra enorme: si parla di circa il 27% del reddito mondiale a disposizione della “generazione Twitch”.
Riuscire a comprendere quali saranno le abitudini di spesa, ma anche i canali e i luoghi online che queste persone frequentano diventa un’esigenza indispensabile per i brand, per rimanere rilevanti agli occhi del proprio pubblico.
Il dato iniziale così impressionante è contenuto all’interno della ricerca Leading Cultural Change, uno studio globale di Twitch che mette in evidenza una nuova serie di comportamenti emergenti, che hanno il merito di riflettere meglio le esperienze e i valori culturali dei giovani adulti.
Solo i brand in grado di cogliere davvero il cambiamento generazionale saranno in grado di creare messaggi realmente rilevanti per questo pubblico emergente. Dall’analisi semiotica dello studio, è emerso in particolare come per i brand sia prioritario imparare a parlare la lingua dei giovani adulti che popolano gli spazi digitali.
Nella ricerca, questi Young Adults sono racchiusi nel macrogruppo della Generazione Twitch, accomunata da caratteristiche peculiari e differenzianti. Per comprenderle meglio e indagare in quali occasioni i brand possano inserirsi, abbiamo sentito Nicoletta Besio, Sales Director di Twitch per l’Italia. Ecco cosa ci ha detto.
Generazione Twitch: cosa accomuna Alpha, Zed e Millennial
Questo gruppo di generazioni, che comprende anche la generazione Alpha e che dal prossimo anno potrà accedere a Twitch, è quella che oggi è alla guida del cambiamento culturale.
«Da sempre, tutte le nuove generazioni hanno creato disruption rispetto a chi è venuto prima di loro. Tra il 1997 e il 2012, sono nate ben 2,5 miliardi di persone, che sono già buyer di moltissimi prodotti. In poco tempo, entro il 2030, saranno in possesso del 27% della ricchezza globale. Si tratta di una generazione concreta e reale, cresciuta in un mondo connesso e padrona di spazi virtuali. La distinzione tra mondo online e offline, propria di generazioni passate, per queste persone scompare del tutto: non si va più online, ma si vive online» ha chiarito Nicoletta.
Ne consegue che il tipo di esperienze che queste persone si aspettano di vivere siano dinamiche e coinvolgenti a 360 gradi: tanto nei rapporti sociali quanto nel rapporto con i brand e i prodotti.
«C’è anche un altro aspetto che accomuna questa generation Twitch ed è il modo di comunicare», ha sottolineato. «Ci sono dei “codici di linguaggio” relativi a questo gruppo, un fattore caratterizzante che la distingue dalle generazioni precedenti».
Qual è questo codice? Intanto una forte propensione alla collaborazione: per Twitch, “community” è una delle keyword più importanti. Poi c’è anche una forte attenzione all’autenticità: l’esperienza “patinata”, quella troppo costruita non risuona, non piace a questa generazione. Queste persone cercano un rapporto molto vero con i loro interlocutori.
Come si costruisce una vera relazione con la Gen Z
«I brand hanno un ruolo fondamentale per costruire una vera relazione. Dalla nostra analisi emerge che gli Young Adults si ritrovano benissimo in queste conversazioni con i marchi purché siano comunicate con le giuste modalità, con il giusto linguaggio e il corretto tone of voice. Non possono prescindere dal comprendere quelle che sono le regole e i codici alla base di questa audience.
I brand si possono inserire molto bene in questo contesto purché lo facciano con una profonda comprensione di quello che è il linguaggio della generazione Z. Non devono infatti “avere paura” di entrare in questo contesto avendo il timore di non utilizzare il linguaggio giusto. Devono invece comprenderlo, utilizzare i giusti canali e le giuste modalità per entrare in questo ambiente».
Nella nostra chiacchierata, Nicoletta ha definito Twitch come un “mondo community-centrico“, ed è questo, secondo lei, il punto di vista che anche i brand devono comprendere.
Tutto ciò che è partecipazione attiva, interazione, collaborazione e condivisione delle passioni e dei valori di questa generazione è fondamentale.
La Gen Z (e la Generazione Twitch) si aspetta di ricevere stimoli che siano purposeful ed è questo il tipo di modalità che si deve avere ben chiara quando si vuole interagire con questo tipo di community.
Anche un’attività di branding tradizionale con un messaggio di advertising deve partire da questo punto di ingresso: cioè cosa è rilevante per questo tipo di pubblico.
L’importanza di recepire il cambiamento
«Uno dei claim che utilizziamo spesso in azienda è “Le persone vengono su Twitch per il contenuto ma poi ci rimangono per la community”. L’opportunità per il brand è proprio quella di inserirsi in questo rapporto così autentico, così vero e profondo con la community (che poi è anche il potenziale cliente di ogni servizio)».
Si passa quindi dalla viralità alla rilevanza: non serve più arrivare a molti, conta arrivare alle persone giuste. Ed è importante rendere comprensibile, “tradurre” alla community il messaggio del brand, grazie a chi parla la lingua giusta.
«Negli anni passati siamo stati abituati a ricercare il contenuto virale e il trend; una spasmodica ricerca che potesse arrivare a un grandissimo numero di persone. In realtà, l’esperienza che abbiamo su Twitch e che è nata dall’ambiente del gaming per estendersi al grande mondo che comprende tipi anche molto diversi di streaming, è proprio la voglia di appartenere a un gruppo con un rapporto molto vero con lo streamer.
Lo vediamo spessissimo quando lavoriamo con i brand sui progetti di branded content: i brand devono affidarsi a chi parla il linguaggio della community (lo streamer), il che non significa che il brand non dia suggerimenti e perimetri. Il brand rimane owner del messaggio e del posizionamento, ma è come se lo streamer diventasse un “traduttore simultaneo” con il linguaggio della community».
Gli ultimi anni ci hanno fatto capire la portata del fenomeno del live streaming sottolineando la democratizzazione della produzione dei contenuti e dell’aumento della partecipazione.
«Chiunque, con una webcam e una buona connessione a internet, può esprimere le proprie idee, condividere la propria passione, trasmettere una performance. Il live streaming, da questo punto di vista, ha accelerato moltissimo dei fenomeni e reso molto più partecipativa l’esperienza del pubblico», ha sottolineato Nicoletta.
In conclusione, emerge una domanda secca ma fondamentale: qual è il modo giusto per avvicinarsi alla capacità di spesa delle nuove generazioni?
«Siamo abituati a pensare alle nuove generazioni come ancora “fuori dal mercato”. Li consideriamo erroneamente come persone “non attive”, che non prendono decisioni. In realtà, quasi il 30% della ricchezza globale sarà in mano a questa generazione, ed è quindi importantissimo iniziare a capire già da adesso con che tipo di pubblico ci stiamo interfacciando.
Non sarà possibile entrare in risonanza da un momento all’altro: i brand hanno bisogno di fare un percorso e costruire questa relazione. Recepire questo cambiamento è fondamentale: the time is now e molti marchi lo hanno già compreso ma le opportunità da cogliere sono davvero ancora tante».
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/generazione-Twitch-1.jpg644961Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2022-12-01 09:30:082022-12-05 09:39:03Un potere d'acquisto di 33 trilioni di dollari: come i brand possono intercettare la generazione Twitch
“Rispondere al cambiamento è più importante di seguire un piano”. Uno dei motti dell’Agile Manifesto sembra essere ormai sempre più ricorrente in ogni strategia organizzativa e di business di questi ultimi anni.
Ormai avvezzi alla descrizione dei contesti VUCA (Volatili, Incerti, Complessi, Adattivi), abbiamo compreso che ogni funzione organizzativa ha bisogno di ripensare i propri schemi e il proprio mindset in funzione di risultati sempre così difficili anche da rappresentare e fissare nel tempo.
Proprio come il marketing e le vendite, anche i dipartimenti delle risorse umane devono fornire risultati.
Le metriche possono essere diverse, ma uno scopo comune riguarda i dipendenti che devono comunque essere coinvolti nel proprio lavoro e nella cultura aziendale. Ed esistono innumerevoli statistiche che dimostrano come i dipendenti coinvolti forniscano risultati migliori e profitti più elevati.
Oggi l’HR Management comprende sempre di più che le metriche utilizzate per identificare il coinvolgimento e il “benessere” stanno cambiando.
Un trend metodologico che si è diffuso nel panorama del marketing e che ha ridefinito molti approcci di business delle aziende si chiama growth hacking.
Sean Ellis è considerato l’ideatore di questo termine, che traduce l’idea di diventare degli “hacker della crescita” nell’ambito del business, ed è una strategia che si basa fortemente su creatività, strumenti social e dati.
Invece di adottare ciecamente un metodo anziché un altro, il growth hacking supporta ogni mossa strategica con dati e test attraverso la lettura delle interazioni di un ambiente social e non solo.
Al centro della strategia c’è l’importanza di apprendere continuamente da prove ed errori, dalla raccolta di dati, dal monitoraggio dei risultati e dagli approfondimenti connessi ad ogni criticità.
Per quanto negli anni si sia trasformato in un una keyword nel mondo del marketing digitale, pochi in realtà riescono a capire cosa significhi veramente e come funzioni. Sta di fatto che la trasformazione digitale del business e della concorrenza è avvenuta in tutti i campi, e tutte le imprese, ma soprattutto le startup hanno avuto necessità di dimostrare che le proprie idee fossero vantaggiose per ottenere dei finanziamenti utili a potersi sviluppare.
Qualcuno ha già provato a dire che il growth hacking è un mix di istinto, analisi e sviluppo estremamente nitido per ottenere i risultati ideali nel più breve tempo possibile.
L’adozione di questo approccio è stato abbastanza fisiologico per le ex-startup della Silicon Valley, poiché negli anni hanno dovuto stimolare l’engagement, massimizzare la brand awareness, vendere i propri prodotti/servizi e mostrare chiaramente i risultati ai propri venture capitalist.
Se è vero che la crescita organizzativa guida e sostiene i fatturati delle imprese, coinvolge gli azionisti, è vero anche che aiuta a coinvolgere i lavoratori per migliorare. Perché allora non portare l’hacking della crescita anche negli approcci e nelle metodologie HR?
L’Hacking della Crescita
Spesso capita che un trend come il growth hacking sia frainteso.
Fare “hacking della crescita” non significa solo aumentare le vendite o aumentare gli utenti su una piattaforma, ma significa accettare il fatto che le aziende siano organismi complessi, che maturano nel tempo, e che il punto di partenza per crescere sia l’essere consapevoli della fase in cui ci si trova.
Uno degli scopi del growth hacking è senz’altro raggiungere rapidamente dei risultati attesi con costi minimi, ma bisogna considerarlo come più simile a un mindset che a uno strumento pubblicitario o di e-commerce.
Come ricorda Luca Barboni in “Il manuale ninja del web marketing” la parola growth hacking è composta in primis da “growth” che significa crescita. E la crescita corrisponde alla misurazione di un andamento: in un confronto tra un prima e un dopo infatti, senza attenzione ai dati, non potremmo avere nessuna percezione di crescita. Proprio per questo le metriche sono così importanti nel growth hacking.
“Hacking” invece va inteso come l’insieme dei metodi, delle tecniche e delle operazioni volte a conoscere, accedere e modificare un sistema e quindi prima di tutto come l’applicazione del pensiero laterale per trovare soluzioni non convenzionali a dei problemi.
Un hacker, infatti, è qualcuno che fissato un obiettivo preciso, fa di tutto per raggiungerlo e il growth hacker è un tipo specifico di hacker che ha come obiettivo in genere la crescita aziendale.
Tra le caratteristiche che definiscono il growth hacking come metodologia e più nello specifico come mindset è sicuramente l’approccio “granulare” (cfr. Raffaele Gaito in Growth Hacking Mindset) alla risoluzione dei problemi, con la capacità di miscelare una costante visione d’insieme con un focus assoluto sul singolo, piccolo problema; in altre parole prendere un problema di grandi dimensioni e scomporlo in tanti problemi di dimensioni ridotte, che conseguentemente richiedono un investimento minore di risorse ma che porta a risultati migliori nel lungo periodo.
Il metodo che utilizza il growth hacking per la scomposizione dei problemi è il famigerato framework AARRR (Awareness, Acquisition, Activation, Retention, Revenue e Referral) o hacking funnel, destinato ad aiutare a identificare i punti sui quali un’azienda dovrebbe concentrare i propri sforzi per migliorare il raggiungimento dei propri obiettivi.
Queste cinque fasi hanno una cosa in comune: sono estremamente importanti per la crescita di un’azienda e per le organizzazioni in generale. Se un’azienda ne trascura il monitoraggio, non avrà un modo efficace per sapere “se sta andando bene o meno”.
Ognuna delle misurazioni del framework AARRR si rivolge a un campo di intervento: dalla cattura dell’attenzione degli utenti verso un’attività, all’aumento della redditività. I campi non si sovrappongono ma danno piuttosto forma a una sequenza ideale che, una volta posta in atto con successo, garantisce all’organizzazione la maggiore produttività possibile.
Assunzioni = Crescita? Il growth hacking per il recruiting
Proviamo allora a ripercorrere il “growth hacking funnel” in ottica HR, dove al posto dei clienti e del prodotto possiamo ritrovare le persone coinvolte nel ciclo di vita organizzativa, a partire ovviamente dai momenti di acquisizione e recruitment.
La fase di awareness può rappresentare l’inizio dell’imbuto, nella quale la persona viene a contatto con l’employer brand e diventa per l’appunto consapevole della sua esistenza. È qui che solitamente ritroviamo molte “vanity metrics” dell’employer branding, come ad esempio il numero di visitatori nella pagina “lavora con noi” o il numero di follower sulla pagina aziendale di Linkedin.
La fase di acquisition riguarda invece il momento in cui il job seeker lascia all’azienda i propri contatti o inizia a seguire attivamente l’employer brand sui social.
La fase di activation probabilmente può essere paragonata alla vera e propria job application per una posizione aperta; si tratta di un passaggio importante poiché potrebbe essere misurato come reale tasso di conversione di un utente da semplice visitatore a candidato effettivo.
Proseguendo il viaggio nel funnel, incontriamo il passo della retention, che nel marketing si identifica con gli utenti di una piattaforma che continuano ad utilizzarla con costanza, mentre nella nostra metafora HR potrebbero essere coloro che effettivamente partecipano al processo di selezione previsto e quindi il coinvolgimento nei test, nelle prove attitudinali, nei colloqui o ad altri strumenti di screening e selezione delle candidature.
La quinta fase del growth hacking funnel è la revenue, che nella similitudine HR avrà a che vedere con gli utenti/candidati che realmente sono stati assunti e sono concretamente diventati membri dell’organizzazione.
Ragionare anche qui con le metriche dei tassi di conversione di assunzione rispetto all’inizio del funnel può diventare molto interessante per capire quali siano davvero le performance che devono essere attivate per la ricerca di diversi profili nell’ambito della talent acquisition.
L’ultima fase, che potrebbe sembrare meno importante, è quella che nel mondo del marketing è chiamata “referral” e riguarda i follow-up nei confronti dei clienti acquisiti che hanno proceduto con l’acquisto di un prodotto.
Nel nostro caso potremmo invece fare riferimento a tutte le persone che hanno intrapreso il candidate journey e che, scartati, in un modo o nell’altro, parleranno del brand o dell’imprenditore che li ha coinvolti nel processo di selezione. Immaginare, ad esempio, per questo target l’inserimento in una community, in una newsletter o in qualsiasi altro strumento di fidelizzazione al brand può significare un concreto sviluppo di una talent pool e di un network di persone che possono veicolare anche per le future job opportunities un canale di riferimento.
Il growth hacking per attrarre i talenti
Nell’ambito della talent acquisition può diventare utile la similitudine anche rispetto alle strategie che possono essere messe in atto per promuovere il proprio “prodotto” HR (ovvero la posizione aperta) laddove sappiamo che ci sarà competizione nella ricerca di figure professionali specifiche con altri employer brand.
Per migliorare il proprio growth hacking funnel nell’employer branding è bene predisporre una posizione che sia davvero attraente per il target di riferimento.
I giovani job seeker (considerando in questo caso i cosiddetti “alti potenziali” introvabili per il mondo aziendale) possono essere oggi molto smaliziati nella scelta di quale brand considerare per fare application. Se il “prodotto”/la posizione è “difettoso”/”effimera” le persone lo verranno a sapere molto facilmente.
Ricevere feedback anche sulle job description o sulla candidate experience da parte delle persone che hanno fatto application o dai neo-assunti può diventare senz’altro un modo per affinare costantemente la modalità di presentazione delle opportunità rispetto a quel target specifico.
Laddove studenti in target entrano in contatto con il brand aziendale tramite progetti di sinergia scuola-lavoro o altre occasioni di interazione con il territorio, può diventare molto valido immaginare quelle esperienze come dei “test-drive” di ciò che propone l’employer brand.
Come fosse una versione gratuita del proprio “prodotto” da far testare ad un gruppo selezionato di persone per poterne individuare punti di forza da enfatizzare e punti di debolezza su cui intervenire.
Il target del nostro HR growth hacking non può certo essere “chiunque” e, come nel marketing, dobbiamo passare attraverso delle fasi di sperimentazione (soprattutto quando le professioni cambiano continuamente, sono “nuove” o non esistono ancora).
Segmentare il pubblico su cui approcciare le strategie di employer branding significa anche conoscere a chi portare valore aggiunto in termini di crescita personale e professionale per poi puntare lì i propri sforzi (ed efficientare i costi).
Come abbiamo visto l’idea è quella di diventare dei “growth hacking recruiter”, che sfruttano in modo curioso e sicuro i social media, la tecnologia e i dati per raggiungere obiettivi di assunzione con un investimento finanziario minimo; che utilizzano strumenti di marketing digitale per ottimizzare e convertire i candidati giusti (SEO, UX, content marketing, etc.) ma anche capacità tecniche per automatizzare alcuni processi (scraping, bot, AI, etc.).
Ma soprattutto adottare un atteggiamento, piuttosto che sposare una determinata metodologia di misurazione dei risultati. L’analisi delle metriche individuate nelle fasi AARRR dovranno essere seguite allora da momenti non solo di analisi, ma di azione, in ogni fase di crescita del funnel, e con la messa in opera di esperimenti continui.
Sposare la mentalità del Growth Hacking nei processi di People & Culture
Per sposare un nuovo mindset come quello del growth hacking è importante visualizzare le fasi che ne distinguono l’approccio sperimentale e di esecuzione, che molto assomiglia alle metodologie di sviluppo agile o lean startup.
Richiamando ancora il framework di Luca Barboni e provando a sintetizzare, è possibile riconoscere una fase di ideazione (o brainstorming dove si generano proposte), una di prioritizzazione (per assegnare punteggi alle idee e sistematizzare il processo creativo), una di esecuzione (basata sulla progettazione di test e nella loro implementazione) e una di analisi (dove si verifica il raggiungimento o meno dei risultati sperati.
Se l’esperimento è di successo diventa una best practice da sistematizzare altrimenti il processo ricomincia dalla fase di progettazione di nuovi test, fino ad avvicinarsi in maniera incrementale e iterativa al “good for enough”.
Se proviamo a vestire i panni di un HR “growth hacker” è possibile allora immaginare le fasi di sviluppo di un nuovo “prodotto”/“servizio” dedicato alla people & culture aziendale in tre passaggi fondamentali: il fitting tra i problemi delle persone e la soluzione HR, il fitting con il contesto aziendale, ed infine la crescita organizzativa e dell’individuo a livello professionale.
PEOPLE PROBLEM/SOLUTION FIT
Nel marketing chi può giudicare la perfezione di un’accoppiata tra il problema e la soluzione? Lo fa il cliente.
Il “problem/solution fit” corrisponde alla fase iniziale di validazione dell’idea. Come fare dunque a ricercare questa coppia perfetta tra problema e soluzione, questa corrispondenza anche nelle iniziative e nei servizi che l’HR attiva nei confronti della popolazione aziendale?
Seguendo il motto del movimento Lean startup: “get out of the building”, ovvero “esci fuori dall’ufficio e incontra di persona i tuoi utenti”.
Incontrare e intervistare i propri colleghi e colleghe è il modo più diretto e più efficace ed economico di avere dati provenienti da persone reali sul problema, e poi sulla situazione, che vorremmo affrontare all’interno o all’esterno dell’organizzazione: ad esempio, conoscere profondamente il target di nuove generazioni che vogliamo assumere o le differenze generazionali che si riscontrano nel nostro ambiente organizzativo.
Sarà importante rispettare alcune domande chiave quando conduciamo questo tipo di indagini: “ti capita mai di avere questo problema x? Quanto spesso ti capita? Mi racconteresti com’è andata l’ultima volta? Che cosa hai fatto per risolverlo? Se è rimasto soddisfatto da questa soluzione?”
In questi quesiti non vi è traccia della soluzione (che in questo approccio non può essere preconfezionata o imposta tout court alla popolazione aziendale).
Questo perché non si deve imporre la propria visione alle persone; è consigliabile fare un primo giro di interviste necessario individuare il segmento organizzativo ideale che effettivamente soffre del problema.
Una volta individuato, e conosciuto a fondo il problema, possiamo ripetere l’intervista aggiungendo come elemento finale una breve presentazione della nostra soluzione e raccogliere feedback.
SERVICE/PEOPLE FIT
Conosciuto il contesto di riferimento conosciamo un problema e una soluzione.
Per andare avanti però non ci bastano più delle interviste qualitative: abbiamo bisogno di dati numerici.
Per farlo, bisogna costruire un MVP (minimum valuable product) ovvero minimo prodotto fattibile, che consiste in un artefatto che permette: all’utente di avere un’esperienza del prodotto HR che abbiamo in mente (più o meno fedele alla versione finale); all’HR di raccogliere dati quantitativi sul comportamento delle persone (più o meno velocemente); all’HR di fare questa raccolta su un campione di persone in target (più o meno scalabile).
Per minimizzare il rischio di creare qualcosa che non abbia presa sul contesto organizzativo lanciamo piccoli test e sondiamo la reazione delle persone (banalmente, quante hanno cliccato alla newsletter interna? Quante hanno “convertito” con una partecipazione effettiva al programma di training?, etc.).
Sean Ellis, l’inventore della parola “growth hacking” propone un metodo specifico per misurarlo: lanciare un sondaggio alla base utenti, chiedere loro come si sentirebbero se il servizio che viene offerto, dall’oggi al domani, fosse ritirato (con opzioni di risposta chiusa molto deluso/piuttosto deluso/per niente deluso/adesso non sto usando il servizio); se il 40% di loro risponde che “molto delusi” o “arrabbiati”, significa che siamo molto vicini al “service/people fit”.
Il metodo si basa in un certo senso su una semplice domanda: se il tuo servizio HR fallisse qualcuno se ne accorgerebbe?
PROGRESSO E CRESCITA
Aver raggiunto il “service/people fit” significa contemporaneamente avere colleghi attivi, fedeli, che passano parola perché soddisfatti dell’employer brand. Queste condizioni gettano le fondamenta per una crescita.
Si dice spesso che la peggior decisione di marketing che si possa fare è tentare di vendere un prodotto che non vuole nessuno. E lo stesso può valere per la gestione delle persone in azienda: “vendere” una soluzione o un benefit che nessuno desidera può essere davvero un boomerang sotto molti punti di vista.
Nelle fasi precedenti ci siamo concentrati prima di tutto sull’attrarre il nostro target di persone che più di tutti manifesta il problema che proviamo a risolvere e che perciò vede il maggior valore nella nostra soluzione. Ma se inizialmente acquisire utenti era una scusa per generare dati e imparare come migliorare nell’ultima fase di sviluppo e crescita dobbiamo iniziare a estendere e coinvolgere una fetta più ampia di popolazione.
Una volta validato il primo “mattone” possiamo dare fondo alle innumerevoli tecniche di engagement da mutuare dal marketing (content marketing, social media, ads, SEM&SEA, SEO, eventi offline, newsletter, affiliate marketing, unconventional PR, etc.), a patto che il nostro mindset sia sempre sperimentale e attento a correggere continuamente il tiro con continui “fine tuning” della nostra strategia di engagement.
Perché le risorse umane dovrebbero diventare hacker della crescita
Le tecniche del growth hacking declinate per l’HR, come abbiamo visto, possono essere rivolte alla crescita delle persone e dell’organizzazione in tutte le fasi del ciclo di vita organizzativo, non solo nella similitudine con la talent acquisition e dei funnel di selezione.
“Hackerare” la crescita significa incidere significativamente su tanti aspetti della vita aziendale in cui le persone entrano in contatto con l’employer brand.
Ad esempio, nelle fasi di onboarding, l’hacking della crescita può avere l’obiettivo di massimizzare il coinvolgimento di ogni nuovo assunto, costruendo e misurando lo scambio sociale che i newbie avranno con i nuovi colleghi e colleghe e identificando i touchpoint sociali misurabili.
Oppure nella comunicazione interna, quanto può essere proficuo avere una mentalità da growth hacker? Come sappiamo non sempre “one size fits all” e la personalizzazione delle informazioni (da area ad area, da divisione a divisione) può essere adattata a partire dall’adattamento dei contenuti a partire dalla segmentazione e dall’analisi dei dati raccolti nelle fasi di test compiuti nelle comunicazioni.
Per aumentare il c0involgimento, dobbiamo segmentare il nostro “pubblico”.
Parte integrante del growth hacking, inoltre, è testare, osservare, modificare e ripetere, ma soprattutto imparare da tutto il processo. Per crescere dobbiamo testare nuovi modelli di apprendimento e imparare da essi, e creare una cultura della sperimentazione che si possa basare sull’ “E se facessimo così?” invece che “Abbiamo sempre fatto così!”; è il principio primo su cui si devono basare oggi tutte le strategie di learning & development in azienda.
Un aspetto fondamentale del growth hacking è infine l’analisi dei dati. Sentiamo parlare molto di big data soprattutto nel marketing, ma non dobbiamo considerare le metriche solo come una mera funzione di reporting, ma soprattutto come ispirazione per il miglioramento dei processi, la segmentazione basata sui dati e un migliore processo decisionale. Combinare le survey interne già largamente utilizzate dal mondo HR con attività misurabili e dashboard di informazioni ulteriori può diventare una scelta vincente in chiave strategica e di conoscenza concreta della cultura aziendale.
Last 2cents: senza la viralità, l’hacking della crescita non riesce a prosperare. Avere contenuti che dipendenti e collaboratori vogliono condividere in maniera organica è davvero l’optimum a cui tutti vorrebbero tendere.
E allora “Growth Hack It!”: iniziamo a portare qualcosa di nuovo nelle prossime riunioni di people strategy in azienda.
Sfruttiamo l’analisi dei contenuti pertinenti ai diversi team di lavoro, discutiamo dell’impatto che può avere una campagna per i propri dipendenti testandolo in modo virtuoso prima di implementarlo a tutta la popolazione. Iniziamo a far vivere a colleghe e colleghi la mentalità della crescita organizzativo, dello sviluppo personale e dell’apprendimento, poiché è forse davvero la cosa più importante che serve in questo frammentato mercato del lavoro.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/growth-hacking-per-hr.jpg636969Giulio Beroniahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGiulio Beronia2022-11-30 10:20:422022-12-05 15:26:02Tecniche di Growth Hacking nelle strategie di People & Culture
Sono nati tra il 1996 e il 2010 e sono determinati a combattere gli stereotipi e a lottare per un mondo più green e più pacifico. Sono loro la Generazione Z, una generazione che è molto meno interessata all’alcol, che punta a relazioni più stabili e che desidera esplorare il mondo senza preconcetti preferendo la diversità e l’inclusione.
La Gen Z ama contenuti sempre più personali e predilige una cultura pop digitale incentrata su di sé.
Questo è quanto emerge dal Culture e Trends Report 2022 redatto da YouTube che offre una panoramica approfondita delle tendenze inerenti a questa audience con sempre maggiore potere d’acquisto e a cui devono necessariamente rivolgersi brand, media, pubblicità e content creator.
Ma chi è realmente la Generazione Z? A darne una panoramica precisa è il report mondiale rilasciato da GWI, la società inglese di ricerche di mercato globali che ha intervistato circa 205 mila persone di 47 paesi diversi, confrontato anche con un campione statunitense.
“È questa la generazione del cambiamento senza precedenti che ritiene obsolete molte abitudini dei loro genitori, incluso lo shopping e anche brand e stilisti devono tenerne conto” spiegano gli autori del report condotto da GWI.
È anche la generazione dei video: l’85% di loro, secondo i dati dell’analisi di YouTube, ha pubblicato contenuti video online e il 65% ritiene che i contenuti personali sono più importanti di quelli di cui parlano tutti.
Per questo motivo non si possono ignorare le tendenze lanciate proprio da questo target che desidera una creatività più condivisa.
Infatti il 61% ammette di essere un grande fan o un super fan di qualcosa o di qualcuno. Non è un caso che le community siano diventate sempre più fondamentali per l’esperienza di intrattenimento ed è per questo che sono nate community di YouTube per tutto.
Un caso esemplare è quello di Big Jet TV che è diventata un fenomeno internazionale quando quasi 250 mila utenti si sono sintonizzati per guardare gli aerei che tentavano di atterrare durante la tempesta Eunice. Un contenuto della durata di quasi 8 ore che ha raggiunto la bellezza di 7.5 milioni di visualizzazioni.
Questa generazione non rinuncia certo ad una creatività multiformato, tanto che il 57% di afferma di apprezzare i brand che producono meme.
Ryanair ha fatto di questa tipologia di contenuti un asset di comunicazione sui social e su YouTube con short video che ironizzano sulle abitudini e le paure dei propri utenti.
Contenuti su misura per la Generazione Z
I video per questa generazione devono poter creare una cultura pop che rispecchia le varie esigenze.
Viaggiare rimanendo comodamente seduti davanti al proprio pc, vivendo l’esperienza attraverso lo schermo: il 90% della Gen Z afferma di aver guardato un video che li ha aiutati a sentirsi trasportati in un luogo diverso.
Video rilassanti su destinazioni lontane e sulla natura, ma anche live streaming di animali e filmati immersivi della durata di 10 ore con una musica rilassante in sottofondo.
Ecco cosa apprezzano questi giovani e come amano essere catapultati in realtà lontane senza spostarsi dal divano.
Ma tra i loro contenuti preferiti non c’è solo questo. Apprezzano molto anche i video ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) che hanno il potere di essere calmanti e rilassanti e che, in genere, includono immagini e suoni pacati. La crescita dell’interesse di ricerca a livello mondiale della parola ASMR su YouTube è davvero notevole.
Solo nel 2021 questo trend ha raggiunto oltre 65 miliardi di visualizzazioni di video, tanto che anche le grandi istituzioni di tutto il mondo hanno iniziato a produrre contenuti in risposta a questa richiesta del mercato. Una su tutte è stata il Victoria and Albert Museum con la sua playlist “ASMR at the museum”.
YouTube è un vero e proprio aggregatore di creatività, tanto che il 69% degli intervistati della generazione Z afferma che si trova spesso a tornare a guardare i creator o i contenuti in cui trova sollievo.
Guardare e riguardare i creator preferiti persino quando fanno cose ordinarie per un lungo periodo di tempo, magari sintonizzandosi su vlog di lunga durata, è un’usanza frequente per la Generazione Z. In generale spicca un forte senso di community in cui la creazione di relazioni significative con le persone avviene attraverso fandom.
Tra pandemia e crisi climatica, la Gen Z conosce bene le sensazioni di ansia e di instabilità, non è un caso che tra i contenuti più apprezzati ci siano quelli capaci di far vivere stati d’animo rilassanti, l’idea di essere in posti lontani e con persone che senti di conoscere senza averlo mai fatto davvero.
Questa è una generazione che combatte lo stress, che cerca il benessere psicologico e sociale e che ama sentirsi al sicuro. Costruire i messaggi per la Gen Z significa creare contenuti in grado di aggiungere valore alle loro vite, nel pieno rispetto della loro personalità.
E questa è la missione più ambiziosa per brand e marketers che vogliono parlare con questa nuova realtà che ha le idee chiare e la forza per realizzarle.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/generation-z.jpg533800Silvia Tassonehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngSilvia Tassone2022-11-30 09:30:582022-11-30 10:18:46I trend video della Generazione Z, cosa guardano i più giovani e perché
Il Metaverso non è un Eden. Le truffe possono trovarsi dietro l’angolo, così come altri reati: riciclaggio di denaro, sfruttamento dei minori, disinformazione, attacchi informatici.
Il Darkverse, lato oscuro del Metaverso, è il luogo di florida e pericolosa proliferazione di illegalità. Non è certo il preludio della fine ma l’allarme è reale e richiede attenzione in un sistema che, apparentemente, sembra inespugnabile e insidioso.
Un’analisi proposta da Trend Micro lancia l’allarme e mette a sistema i rischi del Darkverse.
L’inaccessibilità è la caratteristica principale di creazione di rifugi inaccessibili al controllo esterno. Senza i token necessari e corretti i livelli di blindatura saranno elevatissimi.
Gastone Nencini, Country Manager di Trend Micro Italia ha affermato che “Il Metaverso è una visione hi-tech multimiliardaria che definirà la prossima era di Internet. Sebbene non sappiamo esattamente come si svilupperà, dobbiamo iniziare a pensare ora a come verrà sfruttato dai cybercriminali”.
Le proiezioni basate sui costi elevati e sul vuoto giurisdizionale confermano che “le Forze dell’Ordine faranno in generale fatica a sorvegliare il Metaverso nei primi anni. Dobbiamo intervenire ora, altrimenti si rischia che un nuovo selvaggio West si sviluppi nel nostro mondo digitale“.
I reati potenziali del Darkverse
Gli antri oscuri del Metaverso potrebbero rappresentare valide coperture per reati finanziari innanzitutto oltre a sabotaggi o estorsioni di sistemi industriali. Potranno anche pianificare e testare crimini che verranno poi replicati nel mondo reale.
Il rischio di phishing e ransomware coinvolgeranno in particolare gli NFT, unici strumenti utilizzati per definire la proprietà all’interno del Metaverso.
L’utente frodato potrebbe rimanere proprietario di un bene senza potervi accedere a meno che non venga pagato il ‘riscatto’.
Molti altri sono i rischi connessi alla dimensione oscura della realtà virtuale tra cui la falsificazione di opere artistiche.
Un esempio? Moxie Marlinspike, fondatore di Signal ed esperto di cyber security, che è riuscito a modificare un NFT in base a chi lo stava osservando.
Ulteriori rischi sono quelli connessi alla tutela della privacy: il furto di dati e l’esposizione online rappresentano già una potenziale minaccia nelle applicazioni internet che tutti siamo abituati a utilizzare e il pericolo si fa più concreto in mondi nuovi che conosciamo poco.
Hate Speech e molestie nel Darkverse
Un altro pericolo riguarda il rischio di molestie, hate speech e altri comportamenti violenti, che già oggi si diffondono a velocità impressionanti in molti ambienti in realtà virtuale.
Calum Hood è la responsabile per la ricerca del Center for countering digital hate (Ccdh) che ha recentemente investigato le interazioni che avvengono su VRChat, una sorta di social network in realtà virtuale disponibile per Oculus Quest. All’interno di VRChat, gli avatar degli utenti possono partecipare a feste e giochi o riunirsi nella piazza per chiacchierare.
Nel corso di undici ore, Callum Hood ha registrato più di 100 incidenti, che in molti casi hanno coinvolto anche ragazzini nemmeno adolescenti: minacce, atteggiamenti aggressivi, molestie sessuali e altro ancora. Nel complesso, il Center for countering digital hate ha stimato che un incidente di questo tipo si verifica ogni sette minuti.
Darkverse: lato oscuro del Metaverso. Strumenti di difesa
È il caso di dirlo: fatto il Metaverso, trovato l’inganno.
Lo stesso responsabile di Meta per la creazione del metaverso, Andrew Bosworth, ha spiegato come sia “praticamente impossibile” moderare in maniera significativa il modo in cui le persone si comportano e parlano nei mondi virtuali.
Meta sta puntando soprattutto su tre strumenti:
l’intelligenza artificiale, che – nonostante i successi finora non travolgenti – potrebbe riconoscere comportamenti sospetti (per esempio l’avatar di un uomo che approccia in continuazione dei bambini);
la registrazione di tutto ciò che ci avviene (salvato solo sul nostro dispositivo personale) per inviare ai moderatori la testimonianza diretta delle esperienze negative;
la “zona di sicurezza personale” in cui sarà possibile rifugiarsi immediatamente e in qualunque momento, isolandosi da tutti gli altri utenti.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/10/unnamed-28-1.jpg341512Luca Arlottohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngLuca Arlotto2022-11-29 10:53:332022-11-29 11:55:56Hate Speech, phishing e ransomware: quali sono (e come evitare) i pericoli del Metaverso
Le donne vittime di violenza sono spesso costrette a cercare rifugio dal luogo che dovrebbe essere il primo posto dove sentirsi al sicuro, la propria casa. È adottando questo punto di vista che prende vita la campagna integrata di sensibilizzazione ideata e sviluppata da DDB Group Italy per IKEA Italia in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne.
La campagna si muove all’interno del territorio d’elezione del brand – la casa – partendo da un dato di cronaca significativo: le mura domestiche sono il luogo in cui più si consumano casi di violenza contro le donne (ben il 93% secondo i dati Istat del 2020).
Da qui, lo spunto creativo: un prodotto ideato per risolvere il problema della violenza domestica.
Nasce così SÄKERHET, la prima serratura per guardaroba con chiusura dall’interno, compatibile con tutti i modelli IKEA, studiata per resistere ai tentativi di apertura dall’esterno.
Ideale per trasformare ogni armadio in un rifugio sicuro.
Un prodotto che non esiste contro la violenza domestica
Ovviamente SÄKERHET nella realtà non esiste, perché un prodotto non può risolvere il problema della violenza domestica. Ma una soluzione concreta e reale è possibile ed è proprio su questa che il brand vuole accendere i riflettori.
La campagna, infatti, vuole sensibilizzare sull’esistenza del numero Anti Violenza e Stalking 1522 promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità e gestito da Differenza Donna APS ONG, che si occupa di accogliere e sostenere tutte le donne e chiunque subisca o sia a conoscenza di una situazione di violenza di genere o stalking.
“Per noi di IKEA la casa è il posto più importante del mondo, un luogo in cui sentirsi protetti, sicuri e amati. Purtroppo però, per troppe donne le mura domestiche racchiudono ansia, preoccupazione e violenza. Per questo da tanti anni ci impegniamo con campagne di sensibilizzazione nei nostri negozi per diffondere maggiore consapevolezza sul tema della violenza di genere. Negli ultimi 10 anni abbiamo inoltre contribuito alla realizzazione di oltre 50 progetti dedicati al supporto e all’accoglienza di donne in cerca di un luogo dove riconquistare la propria sicurezza e libertà.” dichiara Cristina Broch, Direttore Comunicazione e Relazioni Istituzionali IKEA Italia.
“Mettere la creatività a disposizione di tematiche come queste è sempre motivo di responsabilità e forte coinvolgimento, perché significa contribuire a un messaggio forte che può agire realmente nella vita delle persone” ha detto Luca Cortesini, Chief Creative Officer DDB Italia. “Farlo con un brand come IKEA, con cui abbiamo stretto una partnership di lungo periodo, è sempre di grande soddisfazione, significa sfidarsi per avere idee sempre forti capaci di essere al contempo unexpected e di impatto”.
La campagna integrata è andata on-air il 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, sui canali social del brand e con un’installazione ad hoc nei negozi IKEA Italia.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/IKEA-SAKERHET-contro-la-violenza-domestica.jpg7801285Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2022-11-28 11:30:532022-11-30 09:53:40IKEA lancia SÄKERHET, una serratura per trovare rifugio dalla violenza domestica
La seconda parte del 2022 non è stata certo clemente con le grandi compagnie tecnologiche, impegnate ad affrontare turbolenze su diversi fronti. Tra le notizie della settimana, Zoom perde colpi, registrando un meno 90% sulle azioni dopo che l’azienda ha tagliato le previsioni di vendita annuali (in questo articolo trovi più informazioni). L’azienda aveva grandemente prosperato durante la pandemia e ora accusa il colpo di un ritorno, se non alla normalità, a un nuovo cambiamento.
Anche in Amazon e Twitter proseguono, per ragioni diverse, le riduzioni del personale e gli ex dipendenti non fanno mistero della propria frustrazione (lo abbiamo letto in questa notizia).
Il minimo comune denominatore di questi cambiamenti è la difficoltà ad adeguarsi al cambiamento tecnologico che ci sta investendo, con i primi timidi tentativi di Metaverso, decentralizzazione e cryptoeconomia. Neppure Facebook, cambiando il nome in Meta, è riuscita ad avvicinarsi al Web3.
Puoi ascoltare queste e le altre notizie selezionate per i nostri abbonati tra oltre 30 fonti internazionali anche in formato podcast.
Il reset delle Big del Tech
Si tratta di un reset culturale, secondo quanto commentato da Vox. Una delle ragioni è che sono ormai mature e non possono più fornire agli investitori lo stesso tipo di crescita massiccia che hanno avuto negli ultimi due decenni.
Questo cambiamento avrà grosse ripercussioni sul settore.
Non si fermano i licenziamenti di Amazon
Lo ha scritto l’amministratore delegato Andy Jassy in una nota inviata ai lavoratori giovedì scorso. “Questa è senza dubbio la decisione più difficile che abbiamo preso in questo periodo“, ha scritto il CEO. L’azienda ha iniziato a informare i lavoratori del loro licenziamento la scorsa settimana.
Zuckerberg non lascerà Facebook
La notizia era circolata martedì su alcuni magazine di settore, ma è stata smentita ieri da un tweet del portavoce della società, Andy Stone. Nel frattempo, le azioni di Meta sono salite dell’1%, come riporta il New York Post.
Notizie della settimana: chiude la sede europea di Twitter a Bruxelles
I sei dipendenti del team hanno lasciato i loro incarichi a seguito dell’ultimatum inviato via mail da parte del nuovo CEO.
Negli ultimi mesi Zoom sta cercando di focalizzarsi principalmente sulle attività aziendali, ma la concorrenza di servizi come Teams e Slack è impegnativa e a pesare sono anche i conti.
Metaverso, non solo uno spazio per i giovani
La nuova realtà tecnologica attrae maggiormente gli over 36.
I ragazzi sotto i 25 anni, contrariamente alle aspettative, si dimostrano più indecisi e hanno paura che si perda il contatto con la vita fisica.
Matomo rappresenta una possibile alternativa, da un lato perché è cookieless, dall’altro per la semplicità di data visualization e di presentazione del dato.
Oltre 200 HR Director e 50 aziende Partner hanno permesso la realizzazione di ben 65 sessioni di lavoro fra Phygital Speech, Phygital Talk Show e Tavoli tematici. Abbiamo tirato le somme di questa edizione insieme a Federico Morganti, Content & Relations Design Officer di Comunicazione Italiana. Puoi ascoltarlo nel podcast.
Tesla è il brand percepito come più sostenibili tra gli italiani
L’attenzione alla sostenibilità risulta essere un driver di scelta il cui peso non supera il 5%, quindi un fattore con una rilevanza ancora inferiore alla qualità e al prezzo. Emerge tuttavia una forte attenzione a questo valore da parte dei consumatori.
Notizie da Ninja: Ceres celebra i baristi con una collezione di figurine
Da sempre, il marchio di birra danese li considera una categoria indispensabile per i luoghi di aggregazione e vere e proprie icone.
Una collezione esclusiva alla quale si aggiunge una limited edition di Ceres Strong Ale che comprende 21 bottiglie, ciascuna dedicata ad un “capocannoniere” del bancone.
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https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/notizie-ninja-della-settimana.jpg6001200Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2022-11-28 09:14:352022-11-29 09:53:06Il reset delle Big del Tech, i licenziamenti di Amazon e le altre news Ninja della settimana
Patagonia lancia il documentario The Art of Activism girato in Italia e realizzato in collaborazione con Pop-Up Magazine.
Prosegue la serie di racconti radicati in luoghi selvaggi e dedicati all’attivismo ambientale. Storie che prendono vita in tutto il mondo con l’obiettivo di far conoscere diverse prospettive e battaglie.
Il documentario racconta di un pescatore implacabile e della sua comunità in Toscana.
Narrata da Safy Hallan-Farah, la storia esplora i danni causati dalla pesca a strascico nelle aree marine, mostrando come anche l’azione individuale possa contribuire a proteggere i mari.
La struttura esclusiva di Patagonia è basata su un unico azionista: il pianeta.
L’azienda è certificata B Corp ed è coinvolta nell’attivismo ambientale fin dalla sua nascita. Si tratta di uno dei marchi più affidabili nel campo dell’abbigliamento ecologico a livello mondiale. I profitti non reinvestiti nel business aziendale sono ridistribuiti, sotto forma di dividendi, per proteggerlo.
In questa puntata, il pescatore Paolo Fanciulli ci mostra il suo intervento per impedire ai pescherecci di danneggiare il suo amato ecosistema mediterraneo.
L’impegno di Paolo vuole mettere un freno alla pesca a strascico, un metodo di pesca che distrugge essenzialmente il fondale marino naturale. Questa distruzione contribuisce a sconvolgere la stabilità degli ecosistemi oceanici e a causare gravi effetti sul clima a livello globale. Ha portato avanti proteste, atti di sabotaggio e ha persino vestito i panni di un poliziotto, ma non è stato sufficiente.
“La pesca a strascico non è un modo sostenibile di pescare. Queste reti vengono trascinate sul fondo del mare… È come se un cacciatore bruciasse un’intera foresta per uccidere un cinghiale“, dice Paolo. “Giorno dopo giorno, i prati sottomarini di posidonia e i coralli vengono distrutti: interi ettari di mare“.
Per trovare una soluzione, Paolo ha coinvolto il governo locale nel calare in mare dei blocchi di cemento, ma non ce n’erano abbastanza, e la criminalità organizzata ha fatto pressioni sulle autorità affinché si ritirassero dal progetto.
Tra il 2015 e il 2020, ha convinto diversi artisti a creare sculture non solo con lo scopo di erigere una barriera per le reti della pesca a strascico, ma anche per dare vita a un museo sottomarino nel Mar Mediterraneo.
Tra i mari della Toscana e del Lazio, al largo di Talamone, sono state posizionate in profondità 39 statue in marmo di Carrara.
Le nuove sculture contro la pesca a strascico rappresentano una risorsa importante e diventano un sostegno per la biodiversità. Le figure in piedi fungono così da barriera fisica per impedire un’ulteriore distruzione delle risorse naturali e del patrimonio dei nostri oceani per le generazioni future.
Paolo aggiunge: “Ogni giorno ospito turisti sulla mia barca, racconto loro questa storia e cerco di coinvolgerli. La vita dei mari inizia dai fondali“.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/patagonia-documentario-the-art-of-activism-3.jpg7501000Giuseppe Tempestinihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGiuseppe Tempestini2022-11-25 09:00:092022-11-28 09:15:10Patagonia lancia l'emozionante documentario girato in Italia "The Art of Activism"
Le azioni di Zoom Video Communications Inc sono crollate di circa il 90% rispetto al picco pandemico dell’ottobre 2020 e l’ex beniamino degli investitori lotta per adattarsi a un mondo post-COVID.
Il titolo è sceso di quasi il 10% solo nella giornata di martedì, dopo che l’azienda ha tagliato le previsioni di vendita annuali e ha registrato la crescita trimestrale più lenta, spingendo almeno sei broker a tagliare i loro obiettivi di prezzo.
L’azienda, che è diventata famosa durante il lockdowno grazie alla popolarità dei suoi strumenti di videoconferenza, sta cercando di reinventarsi concentrandosi sulle aziende, con prodotti come il servizio di chiamate in cloud Zoom Phone e l’offerta di hosting di conferenze Zoom Rooms.
Sul crollo di Zoom pesa la concorrenza
Gli analisti ritengono che un’eventuale inversione di tendenza sia ancora lontana nel tempo, poiché la crescita della sua unità online principale rallenta e la concorrenza di Teams di Microsoft e Slack di Salesforce si fa intensa.
Fonte: Reuters Graphics
“Zoom ha un problema fondamentale: ha dovuto spendere molto per mantenere la quota di mercato. Spendere per aggrapparsi alla quota di mercato, anziché farla crescere, non è mai un buon punto di partenza ed è stato un segnale di difficoltà“, ha dichiarato Sophie Lund-Yates, analista di Hargreaves Lansdown.
Le spese operative dell’azienda sono aumentate del 56% nel terzo trimestre per lo sviluppo dei prodotti e il marketing. Il margine operativo rettificato è sceso al 34,6% dal 39,1% dell’anno precedente.
Alcuni broker ritengono che le acquisizioni potrebbero contribuire a rilanciare la crescita di Zoom, ma l’amministratore delegato Eric Yuan, in una telefonata successiva ai risultati, ha dichiarato di continuare a vedere un’intensificazione del controllo delle transazioni per le nuove attività.
“La partita non è finita, ma senza acquisizioni si tratta di un percorso pluriennale per tornare a una crescita più elevata“, ha dichiarato Ryan Koontz, analista di Needham & Co.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/zoom-copertina.jpg641973Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2022-11-24 11:35:572022-11-24 10:09:12Zoom crolla in borsa del 90% dal picco raggiunto durante la pandemia
Uno dei momenti più attesi dell’anno in cui tutti sono pronti a darsi a spese folli. No non è ancora il momento del Natale, ma quello del Black Friday.
Carte alla mano, click veloci e compulsivi per acquisti a volte futili ma che ci danno l’illusione di aver fatto un affare e appagando l’animo prodigo.
Ad allettarci sono anche i brand che con le loro campagne pubblicitarie, per una buona causa o semplicemente per interesse, ci coinvolgono con storie che lusingano i nostri portafogli.
Ecco dunque una raccolta di 5 divertenti pubblicità dedicate al Black Friday.
Google celebra il suo terzo #BlackOwnedFriday supportando oltre 70 aziende di imprenditori afroamericani che hanno risentito delle difficoltà causate dalla pandemia.
Il motore di ricerca intende incentivare la scoperta online dei negozi black, indirizzando le preferenze di acquisto in base ai valori socio-culturali di inclusività.
Ma non solo: Google ha creato una piattaforma dedicata a negozi black per posizionarsi e farsi riconoscere all’interno delle sue ricerche.
Per questa coinvolgente campagna pubblicitaria girata ad Atlanta, i rapper Ludacris e Flo Milli hanno una grande parte attiva, raccontando in pieno sound hip hop old school il perché scegliere “Buy All Black” tutto l’anno sia veramente cool.
Jumia | Beat SAPA
Jumia, è la piattaforma eCommerce più grande dell’Africa. Fondato a Lagos, in Nigeria, nel 2012, il gruppo si è rapidamente affermato in vari settori, tra i quali il commercio online, dove punta a diventare l’Amazon africana, servendo Ghana, Camerun, Senegal, Algeria, Tunisia, Tanzania e Uganda, Nigeria, Kenya, Egitto, Costa d’Avorio e Marocco.
Jumia grazie alle offerte e ai grandi sconti proposti incoraggia gli acquisti degli utenti e promuove le PMI nigeriane.
Nello spot, infatti, il Black Friday è un’occasione per fare acquisti consapevoli e per abbattere la situazione di “Sapa”, che nello slang nigeriano assume il significato di “rimanere al verde dopo acquisti sfrenati”.
Amazon | The Amazon Black Friday Week is Here
Amazon ci presenta uno Yeti spettinato e simpatico. Nelle due campagne pubblicitarie lo Yeti, nonostante sia isolato tra le montagne, riesce a divertirsi grazie agli acquisti durante il Black Friday.
Ma non solo, si prepara facendosi bello, liscio e profumato per fare la sua entrata scenica sulle note di Okay Okay dell’iconico Pino D’Angiò e fare colpo tra i banali festaioli.
KFC | Black Fry Day (2021)
La catena di fast food dedicata al pollo protesta contro il Black Friday e contro la corsa compulsiva verso prezzi ribassati e offerte scatenate.
Così KFC Parigi sposta momentaneamente la sua friggitoria in un paesino della Normandia, chiamato guarda caso Fry. Celebra questo evento offrendo pollo fritto a chiunque passi di lì e ribattezzando la giornata come quella dedicata al Black FRY Day.
Walmart | Black Friday Deals For Days | Case of the Mondays
Il più grande brand della GDO per la sua campagna pubblicitaria dedicata al Black Friday riunisce il cast della serie Office Space direttamente dal 1999.
In uno spot nostalgico ritroviamo, tra gli altri, Gary Cole, nei panni del famigerato manager aziendale Bill Lumbergh e Ajay Naiduche in quelli del tecnico ribelle Samir Nagheenanajar.
Troviamo anche il vero Michael Bolton che nella serie era il soprannome del personaggio interpretato da David Herman.
Sono tutti concentrati sulle offerte del lunedì di Walmart che quest’anno ha deciso di dilazionare le promo durante tutto il mese, invogliando i consumatori ad acquistare con maggior frequenza.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2022/11/Amazon-Black-Friday-2022-ads-Yeti-1536x773-1.jpg7731536Urania Frattarolihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngUrania Frattaroli2022-11-24 10:06:112022-11-25 13:22:35Amazon, Google e KFC: 5 campagne pubblicitarie sul Black Friday da non perdere
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