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Cosa significa avere un approccio mobile first e quali sono i vantaggi per le aziende italiane

Non è certo una novità che il mondo digitale stia ormai nel palmo della mano: i tempi in cui gli utenti utilizzavano internet come un sistema asincrono, preventivo, facendo ricerche e richieste per il futuro sono ormai lontani.

Oggi chi accede alla rete cerca informazioni puntuali, in tempo reale. Vuole sapere ciò che lo circonda, e dà per scontata la geolocalizzazione. Si aspetta notizie aggiornate al secondo, in un mondo in cui ormai spesso i social forniscono aggiornamenti su temi scottanti più in fretta dei media. Dà per scontato che i brand, quando interagiscono online, siano tanto veloci, tecnologici e smart quanto lo è lui stesso.

Anche quando parliamo di eCommerce, secondo l’ultimo Report Digital 2020 di We Are Social, “quasi 3 utenti internet su 4 (74%) hanno acquistato prodotti online nell’ultimo mese con device mobili, che superano desktop e laptop attestandosi al 52% di device share per pagamenti online: è la prima volta che registriamo questo sorpasso”.

È un mondo nuovo, diverso, a cui chi voglia sfruttare le potenzialità del digitale si deve adeguare e anche velocemente.

Se da un lato Google sta lavorando da diversi anni a soluzioni e strumenti per il mobile, anticipando il mercato e le esigenze di imprese, brand e consumatori, anche Accenture ha colto questa grande sfida con la recente creazione della sua Mobile Factory, con team dedicati che possano traghettare in maniera molto veloce le aziende da una sponda all’altra di questo cambiamento.

La collaborazione fa leva sulla capacità di adattare e rendere fruibile la tecnologia per andare veramente verso il mondo mobile, abbracciando un paradigma completamente nuovo nella sua interezza, con metodologie e programmi che possano essere adottati velocemente e accelerare la crescita delle performance mobile.

Le esigenze del nuovo mondo mobile first

Sull’onda di questo crescente trend, già dalla fine del 2015 Google aveva iniziato a dare centralità alle AMP, acronimo di Accelerated Mobile Pages, con un progetto Open Source pensato per rendere più accessibili i contenuti via mobile web e per migliorare le prestazioni dei siti su questi device. Un progetto che si è evoluto negli anni successivi all’interno di un ecosistema mobile nel quale oggi termini come speed e PWA (progressive web App) sono ormai entrati a far parte del linguaggio comune nel mondo digitale.

Lo ha confermato Davide Contrini, Managing Director Accenture Interactive, responsabile per il Digital Marketing: “L’utente ormai ha accesso all’informazione via mobile in maniera totale, continua. La fruizione di qualunque contenuto tramite questi device deve essere molto più veloce, tenendo anche conto delle esigenze di localizzazione e di sincronicità: gli utenti spesso cercano risposte da un brand, e vogliono da esso una risposta istantanea e precisa”.

Più veloce è il caricamento di una pagina, più velocemente questa potrà essere visualizzata dai visitatori. Dal punto di vista del consumatore, questo è uno degli elementi più importanti di un sito. Come dicevamo, le persone non vogliono aspettare. Un ritardo di un secondo può significare la differenza tra una conversione o un abbandono.

In effetti, lo dimostrano chiaramente i dati: i tassi di abbandono se non viene erogato un contenuto in meno di 3 secondi aumentano esponenzialmente. Sopra questo tempo, più di due terzi dei consumatori lascia il sito. Questo ovviamente ha un impatto enorme, specie nel mondo degli acquisti online.

La capacità di fornire il contenuto in maniera veloce e allineata all’immagine del brand, specie se il canale online è transazionale, è fondamentale.

Per molto tempo le aziende e gli enti italiani non hanno tenuto conto dell’evoluzione delle esigenze e del comportamento dei propri clienti, ma ormai nessuno può negare che i tempi siano cambiati. È già storia come l’uso di internet da mobile abbia superato quello da desktop anche nel nostro Paese.

Google ha registrato questo cambiamento dal punto di vista delle queries effettuate da questi dispositivi: l’incremento di ricerche del tipo “pizzeria più vicina aperta adesso” denotano un cambio totale di scenario. La necessità oggi è quella di rispondere a un bisogno in tempo reale, con informazioni minimali (e pochi passaggi intermedi per ottenerle) ma accurate. Non importa a nessuno sapere le pizzerie vicine se sono chiuse, o quelle aperte adesso che però non sono a portata (quindi, ricerche anche geolocalizzate). È richiesto un approccio totalmente diverso da quello del mondo desktop, e le aziende che non riescono a stare al passo moriranno presto.

Lo conferma Paola Marazzini, Director Agency and Strategic Partnerships di Google Italia: “In questo scenario è fondamentale per le aziende avere asset digitali che forniscano un’esperienza informativa, di consumo e di intrattenimento all’altezza delle aspettative, sempre più alte.

I consumatori sono sempre più curiosi, cercano di tutto, non solo informazioni ad alto valore aggiunto: sono loro stessi a stabilire il valore di ciò che c’è online”.

Spesso l’ottimizzazione per il mobile è stata considerata come l’ “ultimo miglio” delle strategie digitali, utilizzando plugin che facessero velocemente il lavoro di convertire pagine tradizionali in pagine veloci e mobile-friendly. Con il rischio però di non rendersi conto che, se non si cura adeguatamente questo aspetto, si rischia di vanificare tutto il resto del lavoro.

Uno scenario cambiato che unisce Accenture e Google nel sostenere che parlare di AMP ormai non è più sufficiente: è tutto l’ecosistema web che deve essere preso in considerazione in veste mobile.

Aziende e addetti ai lavori hanno estremo bisogno di soluzioni che permettano di fornire ai propri clienti la miglior modalità di accesso a quello che è il sistema più utilizzato per navigare in rete.

mobile first

Le skill per portare la tua azienda nel futuro

Per “fare mobile” internamente è necessario allocare risorse importanti: il supporto di un partner esterno e di fiducia può essere fondamentale per ottenere metodologie e skill che aiutino le aziende attraverso questa straordinariamente delicata trasformazione.

mobile

Nelle esperienze multicanale, il mobile è sia il punto d’ingresso che l’ultimo miglio dei consumatori. Tutti i settori industriali sono impattati, il B2C in maniera solo apparentemente più diretta che il B2B.

Skill e competenze tecniche sono indispensabili per acquisire la giusta tecnologia, ma anche i corretti metodi e una visione di indirizzo di un mercato in continua evoluzione.

Se ne parla da molto tempo, certo, ma ora ci stiamo davvero addentrando in questo nuovo mondo anche in termini di offerte create ad hoc per il mobile. La capacità di guidare l’evoluzione su questo tipo di tematiche sarà quindi fondamentale.

In un mondo sempre più connesso e sempre più mobile, i confini fisici decadono: l’esperienza utente e la capacità delle aziende di non sprecare il patrimonio di relazione costruito finora saranno sempre più importanti. L’obiettivo finale è quello di cavalcare davvero quest’onda con una visione integrata della navigazione mobile.

lavoro in quarantena

Non chiamatelo smart working: come affrontare il lavoro in quarantena

  • Il lavoro da casa dovuto alla quarantena non è smart working né telelavoro, e non andrebbe trattato come tale
  • Maria Vittoria Mazzarini, senior consultant di Methodos Spa, spiega le trappole e i rischi di questo tipo di implementazione forzata
  • Per fortuna è possibile fare buon viso a cattivo gioco con dei semplici accorgimenti da applicare nella nostra quotidianità del lavoro da casa

 

Ironico. Siamo stati per anni il fanalino di coda del mondo, per quanto riguarda la tendenza al lavoro da remoto.

In un mondo in cui molte aziende passano addirittura all’approccio remote-first, e fioriscono società totalmente dislocate nello spazio senza quasi uffici fisici, in Italia molto spesso la conquista maggiore sembra essere un giorno a settimana di smart working.

Ironico che adesso, da un giorno con l’altro, a causa dell’esplosione dei casi di Covid-19 in Italia e della quarantena forzata imposta su tutto il Paese, il lavoro da remoto sia diventato l’unico modo di lavorare per la maggior parte delle aziende in Italia.

Un risultato per cui, lo ammetto, qualcuno come me ha inizialmente ben sperato. Chi si è da anni auto-proclamato un advocate dei vantaggi del remote work, ha visto d’improvviso anche i più restii abbracciarlo con slancio e ha pensato che fosse un passo nella giusta direzione.

Ma è durato poco, perché ci è voluto un attimo per capire che questo NON è smart working. Che le aziende italiane non avrebbero avuto il tempo o la capacità di adattarsi così velocemente a un modo di lavorare che non è semplicemente “lo stesso dell’ufficio, ma da un’altra parte”. Che i dipendenti non avrebbero potuto godere delle gioie dello smart working, ma solo dei suoi dolori, reclusi e preoccupati a causa di una situazione di emergenza.

E che stavamo correndo il rischio di fare l’opposto: demonizzare lo smart working per qualcosa che non è, con strascichi negativi che rischiano di inficiare la nostra capacità di lavorare e restare al passo nel mondo sempre più digitalizzato e remoto del futuro.

 

Il paradosso dello smart working ai tempi del Covid-19

Persone e aziende che, invece, già da tempo hanno abbracciato questa nuova modalità di lavoro, in condizioni normali basata su maggiore libertà, fiducia, adattabilità, vedono chiaramente la situazione attuale per ciò che è: un ibrido, necessario ma non piacevole; ma anche un’opportunità di apprendimento, se vissuta nel modo corretto.

È quello che alcune aziende sanno bene. Sia perché lo smart working, quello vero, è una modalità abituale di lavoro per loro. Sia perché si occupano appunto di change management organizzativo e culturale, ovvero di supportare le aziende nelle trasformazioni più critiche dei nostri tempi come M&A, Digital Transformation, New Ways of Working, Integrated Thinking, etc.

“In Methodos abbiamo colto fin da subito il rischio di ciò che stava succedendo: immediatamente  ci siamo messi all’opera per produrre materiale concreto e utile per indirizzare le persone in questa situazione straordinaria, sia i clienti che soprattutto quelli che non lo sono, dato che sapevamo fin dall’inizio che non sarebbe stato un semplice caso di introduzione dello smart working“, ricorda Maria Vittoria Mazzarini, Senior Consultant della società.

 

“Noi lavoriamo in smart working da tanti anni e sappiamo bene che ci sono due cose che lo caratterizzano: la preparazione da parte dell’azienda, che deve prendersi il tempo necessario per studiare e implementare un’esperienza soddisfacente; e la possibilità per le persone di scegliere quando, come, dove lavorare.

Queste due caratteristiche definiscono lo Smart Working, e quindi è chiaro che, per forza di cose, ciò che stanno vivendo gli italiani oggi non lo è“.

Ciò che non è, e come dovrebbe essere, il lavoro da remoto in tempo di crisi

Qualcuno lo chiama allora telelavoro, sbagliando ancora di più in realtà perché i presupposti sono totalmente diversi: “per telelavoro si intende quando l’organizzazione per cui lavori ti ricrea in casa la postazione; è stata pensata negli anni ’80 per i lavoratori disabili, non è possibile che sia fatto per lo smart working, perché appunto questo non prevede il lavoro esclusivamente da un luogo o da un altro”, continua Maria Vittoria.

Semplicemente ciò che stiamo vivendo è lavoro svolto obbligatoriamente da casa in situazione di quarantena.

Non c’è la libertà di scelta, né possibilità di applicazione delle strategie e tecniche da parte delle aziende che è alla base dello smart working.

“In una situazione ideale e programmata di introduzione dello smart working, si parte dall’ascolto. Bisogna chiedere al dipendente come lavora, come vorrebbe lavorare, analizzando come si comporta lungo tutta l’employee journey experience, da come arriva in ufficio a come mangia, etc. In base ai risultati, si definisce la soluzione migliore e più smart. Si avviano dei test con piccoli gruppi di rappresentanti trasversali, oppure per singole funzioni, con alcuni giorni da remoto. Si raccolgono i feedback e, solo dopo averli analizzati e aver tratto le dovute conclusioni, si implementa per tutti, creando una policy che sia il più comprensiva possibile dei bisogni di tutti”.

Un lavoro lunghissimo, che può durare anche anni e, ovviamente, nella situazione attuale non c’è stato il tempo di fare. Così tanto i responsabili in azienda quanto i dipendenti si muovono alla cieca, e si comportano in due modi altrettanto deleteri: navigano a vista, nell’attesa di tornare alla normalità il prima possibile, e nel frattempo lavorano da casa come farebbero in ufficio.

Questa modalità di operare però è pericolosa: la situazione potrebbe protrarsi più a lungo di quanto le nostre rosee aspettative ci fanno credere, vedendo anche il decorso negli altri Paesi. Il rischio è non solo di vedere la produttività ridotta enormemente, ma anche di avere conseguenze pesanti sulla salute delle persone, sia sul piano fisico che mentale.

 

I rischi di lavorare da remoto senza l’adeguata preparazione

Dopo i primi giorni di caos, adesso che da qualche tempo ormai si lavora obbligatoriamente da casa si è trovata, nella maggior parte dei casi, una sorta di routine e stabilità. Alcuni problemi però, che tipicamente nello smart working correttamente implementato si manifestano in modo leggero, in questa circostanza si acuiscono; altri ancora sono totalmente nuovi.

Nella prima categoria c’è la difficoltà di integrare vita privata e professionale: quando si lavora da casa un giorno alla settimana si ha tutto il tempo per gestire questa difficoltà, non c’è il resto della famiglia a condividere lo spazio vitale e la libertà di movimento è massima. Ora invece sono tutti a casa, manca uno spazio dedicato; in più ci sono i figli, che se non sono abituati ad avere a casa mamma e papà fanno fatica a distinguere il tempo del gioco da quello del lavoro.

Un altro problema che si acuisce è mettere una fine alla giornata lavorativa. In una normale condizione di smart working si lavora magari di più, ma si riesce comunque a portare a termine altro e a organizzare una serie di cose che solitamente in ufficio non si riescono a fare. In questo periodo purtroppo invece è così tutti i giorni, e chi non è abituato non riesce a mettere fine al lavoro, che tra l’altro si è moltiplicato per tante figure. 

Altri problemi invece sono nuovi e legati strettamente all’emergenza che stiamo vivendo: il senso di isolamento per chi è solo, che è psicologicamente molto pesante.  Inoltre c’è il tema della stanzialità, non ci si muove nemmeno quel poco che si faceva nello spostamento casa-ufficio ed è deleterio per la salute fisica di tutti noi.

“Tutte queste cose, unite al senso di affaticamento psicologico che molti stanno vivendo, rende purtroppo l’esperienza nel complesso piuttosto negativa, quando invece lo smart working dovrebbe poter fare esattamente il contrario”, spiega Maria Vittoria.

Le regole per un lavoro davvero smart in quarantena

Come fare, allora? Possiamo disperarci, lamentarci della situazione terribile che stiamo vivendo, fagocitare ore e ore di contenuti spazzatura sui social e uscire a cantare sui balconi tutto il giorno. Oppure possiamo rimboccarci le maniche, e provare a vedere questa situazione per quella che è: un’opportunità per imparare e migliorare. Qualcosa che devono fare per primi i dirigenti.

La sfida iniziale per le aziende è stata quella di abilitare tutti in fretta e furia al lavoro da remoto, ma ormai è passata. Ora è mantenere la produttività senza andare a scapito di altro: bisogna comprendere un attimo qual è la situazione, quali sono le figure più stressate in questa situazione, e quali quelle che invece si sono viste svuotate dal carico di lavoro perché in queste settimane non possono più essere attive. I responsabili in azienda devono comprendere qual è il bilanciamento e poi capire come supportare adeguatamente le persone. È una situazione che non finirà domani, probabilmente ce la porteremo dietro a ondate per parecchi mesi: non si può far finta che non sia così e nascondere la testa sotto la sabbia”, ammonisce Mazzarini.

E per chi improvvisamente si ritrova a dover lavorare da casa per un periodo di tempo indeterminato, quali sono i consigli?

La verità è che è il singolo che deve essere bravo a prendere in mano la situazione; le aziende più attente magari provano a inventarsi qualcosa, come le lezioni di yoga da remoto mattutine o i pranzi virtuali tutti in videochiamata, ma alla fine è il lavoratore che deve organizzarsi per il proprio caso specifico.

Fondamentali quindi:

  • Orari di inizio e fine chiari, oltre a definire chiaramente delle pause. “È difficile, me ne rendo conto anche io che ero già abituata al lavoro da remoto, ma solo così è possibile viverlo bene e dedicare del tempo a se stessi e a chi si ha intorno”, ammette Maria Vittoria.
  • Prendersi dei momenti da dedicare a se stessi,  migliorando anche il nuovo ambiente di lavoro, rendendolo più confortevole. La sedia è scomoda e fa venire mal di schiena? È essenziale acquistarne una ergonomica, ed è un investimento anche per il futuro, e non andare a lavorare dal divano.
  • Per chi ha famiglia, magari bambini piccoli, bisogna prendersi delle pause da dedicare a loro, ma definire anche chiaramente i confini della giornata e degli spazi lavorativi dei genitori. Lo stesso vale per le situazioni di tensione in coppia: è essenziale ritagliarsi del tempo di qualità. 
  • Fare attività fisica è fondamentale: una postazione non ergonomica si fa sentire a fine giornata, e fare stretching o yoga diventa essenziale.
  • Bisogna ascoltare se stessi, comprendere la situazione ma non farsi nemmeno bombardare dalle notizie e dalla negatività. Tempo di qualità è anche questo, significa cercare di filtrare le informazioni, non lasciarsi trascinare dai media e soprattutto dai social network, ma prendersi del tempo per metabolizzarle.
  • Provare a ricreare la routine mattutina: svegliarsi, vestirsi, fare colazione, truccarsi, etc. Non tutti i giorni magari, ma provare a mantenere quelle abitudini che avevamo può aiutare a far fronte all’incertezza che stiamo vivendo, in una situazione ad alto impatto emotivo come questa. La giornata lavorativa è già stressante in questo momento, con processi e priorità che cambiano di continuo; ci sono tante sollecitazioni diverse, e ritrovare quelle piccole certezze quotidiane può far la differenza.
  • Cercare di ridurre le chiamate in favore di altri strumenti di lavoro, come Trello o Slack.
  • Creare momenti di socializzazione, anche se mediati dalla tecnologia, con colleghi e amici, e non lasciare che la situazione ci “abbrutisca” o ci faccia isolare.

 

Se riusciremo a fare queste cose, non solo saremo produttivi nonostante la situazione difficile, non solo ci sentiremo meno stressati e insicuri, ma riusciremo anche a trasformare questo momento di crisi in un’opportunità per il futuro.

“Dobbiamo leggere la situazione attuale e intercettare tutte quelle best practice, quei cambiamenti che sono stati apportati dai team e che stanno dando buoni frutti; se sapremo standardizzarle, portarle a normalità per quando torneremo in ufficio, allora avremo fatto un passo da gigante verso il lavoro veramente smart.

Anche quando tutto sarà finito, ci troveremo a vivere una nuova normalità, non la stessa di prima; bisogna individuare le competenze soft che ci supportano in tempi come questi (capacità di adattamento, di generare innovazione, etc) e farne tesoro, anche più che di quelle hard – continua Maria Vittoria.

Si entra nel tema molto ampio dell’anti-fragilità, un “nuovo” termine di cui si sta parlando tanto, che supera quello di resilienza; mentre questa ci dice “accusa il colpo e rialzati”, anti-fragilità significa “accusa il colpo, osserva ciò che puoi imparare da esso, mettilo a sistema e crea qualcosa di migliore di prima grazie alle informazioni acquisite”.

Insomma, cerchiamo di vedere cosa di buono possiamo portarci a casa, mettiamolo a valore e cerchiamo di diventare persone e organizzazioni migliori di prima.

Se ci riusciremo, tutto questo forse non sarà stato in vano

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Social Media Intelligence: quali sono le applicazioni?

  • Grazie alla Social Media Intelligence si possono scoprire e conoscere i ‘territori’ nei quali conversano le persone che vogliamo raggiungere
  • Le informazioni strategiche raccolte nelle conversazioni online e gli opinion leader diventano dei veri e propri asset del decision making
  • Grazie al Social Listening si possono prevedere e gestire crisi di comunicazione e reputazione
  • Occorrono competenze nuove all’interno del processo decisionale, per far diventare le azioni sempre più data-driven

 

Quanto tempo passiamo online? Sembra che l’utente internet medio nel corso del 2020 spenderà online un tempo pari a oltre 100 giorni (6 ore e 43 minuti al giorno). Collettivamente, dunque, spenderemo online 1,25 miliardi di anni. Oltre un terzo di questo tempo, 2 ore e 24 minuti al giorno, sarà speso sui social.

Per le aziende si tratta di un’occasione incredibile: come già visto, grazie alla Social Media Intelligence si possono scoprire e imparare a conoscere i ‘territori’ nei quali conversano le persone che ci interessa raggiungere e dunque anche individuare quegli attori che riescono a stimolare gli opinion leader prima dell’azione.

Come? Ecco alcuni degli esempi principali per ottenere il massimo dall’analisi dei dati e dall’ascolto strategico.

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Competitive Intelligence

Una delle applicazioni più utili del Social Listening è la Competitive Intelligence, cioè la raccolta e l’analisi di informazioni su prodotti, concorrenti e qualsiasi altro aspetto dell’ambiente competitivo. Non si tratta solo di analizzare la concorrenza, ma di apprendere il più possibile sul settore di riferimento, sugli stakeholder coinvolti e sui loro discorsi – cogliendo in tempo reale le varie opportunità e tarando di conseguenza il piano d’azione.

Fare intelligence sui Social Media significa approcciarsi ai Big Data con un atteggiamento nuovo, o comunque diverso: non più dati lasciati fuori perché troppo particolari ma integrati, coesi, utili e, soprattutto, completi. In questo modo le informazioni strategiche (i dati raccolti nelle conversazioni in rete) e gli opinion leader (utenti autorevoli che parlano del brand, del prodotto o del tema di interesse e che possono influenzare l’acquisto o le scelte e le opinioni di migliaia di altri utenti) diventano dei veri e propri asset del decision making.

La Competitive Intelligence permette di fare delle analisi approfondite particolarmente efficaci, come ad esempio la comparazione dello share of voice analizzando i volumi di conversazioni oppure la comparazione della percezione relativa alle tematiche presidiate tramite la sentiment analysis. Un approccio che consente anche l’identificazione dei trend e criticità su cui impostare le campagne di comunicazione e le azioni di PR, come anche la comparazione del target e delle audience a cui l’organizzazione si rivolge.

Grazie a questa analisi, insomma, è più semplice impostare delle attività di posizionamento o di gestione della reputazione.

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Gestione della reputazione

La reputazione è un valore fondamentale per le organizzazioni, ormai è quasi scontato dirlo: è talmente importante che è stato coniata l’espressione “the Reputation Economy” per definire l’economia del 21° secolo. Già nel 2015 il World Economic Forum aveva annunciato che il 25% del market value di un’azienda è rappresentato dalla reputazione e uno studio più recente di Reputation Institute ritiene che nella scelta d’acquisto, il prodotto vale sempre meno (il 33%), perché ha perso definitivamente la capacità di essere il fattore distintivo.

La Rete è il primo veicolo per costruire la reputazione di un brand (così come di un prodotto o di un servizio) e i social media assumono un ruolo primario: si è sviluppata una forte disintermediazione tra produttore e fruitore di informazioni, con una centralità sempre maggiore dalle community online.

Grazie alla Social MediaIntelligence si possono analizzare gli andamenti dei discorsi intorno alle tematiche di interesse, conoscere meglio tali community in termini di demografia, interessi e bisogni.

Cosa possiamo fare con queste informazioni? Per esempio interagire con i nodi di riferimento all’interno del network, per proporre a nostra volta dei discorsi che potranno modificare la percezione iniziale.

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Crisis communication

Un’altra applicazione sempre più importante del Social Listening è quella della gestione della comunicazione di crisi.

Nella sfera sociale digitale la crisi è un frenetico accavallarsi e rincorrersi di conversazioni, in cui ogni interlocutore lascia la propria impronta valoriale, aggiungendola a quella di chi l’ha preceduto. Ogni utente poi, tende a portare il proprio contributo, innescando spin-off conversazionali che si aggiungono, in termini di impatto reputazionale, a quelli già in crescita, come ricorda Daniele Chieffi in Online Crisis Management: Strategie ai tempi dei social media.

La previsione della crisi è l’attività cardine del crisis management, possibile grazie ad un ascolto continuo dei social network e delle conversazioni relative ai temi che toccano da vicino l’azienda.

Grazie alla sentiment analysis, ad esempio, si può anche essere immediatamente aggiornati in caso di repentine evoluzioni negative nell’opinione della audience. E anche una volta che la crisi è scoppiata possiamo monitorare l’ambiente di riferimento, comprendere come intervenire e interagire con i nodi più importanti del network: si potrà ad esempio analizzare il sentiment della copertura media, il tenore della reputazione e la capacità di penetrazione e d’influenza della linea di comunicazione e dei messaggi decisi a livello strategico.

Social Media Intelligence e Data-driven strategy

È evidente che occorrono competenze nuove all’interno del processo decisionale, per far diventare le azioni sempre più data-driven. Per le aziende non è solo necessario acquisire nuove competenze professionali, ma anche imparare ad agire all’interno di un ecosistema sociale digitale, dove agiscono dinamiche di tipo psicologico, sociologico, antropologico.

La differenza? La farà chi sarà stato bravo a dotarsi di figure professionali che vadano al di là dell’analisi del dato, ma che sappiano interpretarlo, aggregarlo e comunicarlo.

coronavirus banca mediolanum

5 consigli per affrontare l’emergenza Coronavirus in business, finanza, psicologia e salute

Siamo tutti disorientati e a caccia di consigli, specie quelli di esperti che possono aiutarci a comprendere il periodo storico che stiamo vivendo.

Come l’emergenza per Covid -19 cambierà il mio business? I miei investimenti sono al sicuro? Qual è il modo migliore per affrontare l’isolamento senza che l’ansia prenda il sopravvento?

Sono queste alcune delle domande che hanno trovato risposta a Insieme Ce la Faremo, l’evento che Banca Mediolanum ha ideato in collaborazione con ClassCNBC, per offrire consigli su come affrontare l’emergenza Covid-19, con il parere di esperti dal campo della medicina, della psichiatria, dell’economia e della finanza.

Per fare chiarezza e avere un orizzonte entro il quale orientarsi, ecco alcune delle indicazioni condivise dagli esperti che abbiamo raccolto per te.

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1. Come gestire l’ansia recuperando le proprie passioni

I rischi per la nostra psiche in questo periodo di isolamento forzato sono uno degli argomenti affrontati da Raffaele Morelli nel suo intervento. Lo psichiatra ha sottolineato come la quarantena stia provocando l’aumento del senso di solitudine e di angoscia e il rischio di una fase di eccessiva autocritica: «Diventiamo fragili, iniziamo a chiederci quali sono gli errori della nostra vita, se abbiamo sbagliato lavoro o abbiamo un partner sbagliato. Questo non è il modo giusto per vivere il disagio».

I consigli di Morelli vanno tutti in un’altra direzione. Spiega che l’ansia che proviamo va ascoltata senza cercare una risposta, che bisogna imitare i bambini, sfruttare il potere della nostra immaginazione per distrarci, disegnare, scrivere, piantare semi, “svolgere attività con le mani”: «Approfittiamo di questo momento per spostare la nostra attenzione su immagini e azioni, e per rivedere il rapporto con noi stessi. Allontanarci dalla fretta che abbiamo tutti i giorni e ritrovare le nostre passioni soffocate da tempo. La distrazione ci aiuta a scacciare la paura, la stessa paura che indebolisce le nostre difese immunitarie e ci porta ad ammalarci più facilmente».

2. Gli imprenditori trasformino la paura in coraggio

Dove gli imprenditori possono trovare la forza di reagire? Questa è la domanda che Andrea Cabrini ha rivolto a Oscar Farinetti. Quest’ultimo ha invitato gli imprenditori a non andare in panico, ricordando un insegnamento di suo padre: “È dalla paura che nasce il coraggio”.

L’imprenditore ha poi offerto i suoi consigli per il rilancio del Paese, evidenziando come questa crisi abbia messo in risalto il meglio degli italiani: «Siamo un popolo di furbetti nell’ordinario, ma di comportamenti straordinari nelle emergenze. Per ripartire, occorre soprattutto avere rispetto degli altri popoli, non accusare gli altri o sentirsi superiori poiché nessuno compra da un Paese di antipatici. E poi preparare, una volta finita la crisi, una grande operazione di marketing con personalità come Andrea Bocelli, Valentino Rossi, Renzo Piano e altri, che vadano nel mondo a raccontare che abbiamo sconfitto il virus e che tutti possono tornare nel nostro Paese, che li accoglieremo. La speranza? Di riuscire a sconfiggere il virus per il 25 aprile: sarebbe un’altra Liberazione per il Paese».

Infine, ha sottolineato come in questa fase della nostra economia sia decisivo un sostegno alle aziende, poiché “il lavoro si crea dentro le imprese”: «Il nostro modello sociale si basa sui consumi, se li fermiamo sarà un crack. Bisogna fare interventi per aiutare le aziende a risalire, non fare operazioni esclusivamente sul welfare, di orientamento populista. Allo stesso tempo, rendere i nostri comportamenti più sostenibili e i consumi più consapevoli».

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3. L’isolamento, l’unico vaccino per preservare la nostra salute

Massimo Galli ha offerto i suoi consigli a chi è preoccupato degli effetti del Covid-19 sulla sua salute. Il medico ha sottolineato che “l’unica via di uscita sono le misure di contenimento” e che l’isolamento è la strada più sicura per garantire l’incolumità propria e della propria famiglia: «La strada maestra che tutti devono seguire sono le misure di contenimento, supportando di più le persone in quarantena attraverso la telemedicina. Il vaccino arriverà, ma è utopico pensare che succederà in tempi brevi. Per uscirne dobbiamo stare separati fisicamente ma vicini nella volontà di aiutarci, medici, cittadini e istituzioni».

L’isolamento per evitare nuovi contagi, tanto più necessaria data la precarietà che vivono oggi i medici e il personale sanitario, “in ospedale, ci sentiamo come chi è in punta di piedi su uno scoglio nella speranza che non arrivi mai l’onda”.

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4. Il protocollo vincente per investire in tempi di crisi

Sono tre le regole di comportamento che Stefano Volpato, direttore commerciale di Banca Mediolanum, ha svelato. Un “protocollo vincente” per non rischiare di perdere soldi sui mercati in quest’emergenza:

  1. Diversificare gli investimenti nel mondo, agganciandosi all’economia globale.
  2. Rimanere investiti. “Come dice Warren Buffett, i mercati sono redistributiva di ricchezza, la danno a chi ha pazienza e la tolgono a chi ha fretta”.
  3. Mettere da parte l’emotività e ragionare. “L’emotività sta spingendo i prezzi in zona saldi o super saldi. Il sottostante è rappresentato, tuttavia, dalle più grandi aziende del mondo, che una volta superata questa crisi, torneranno a macinare utili”.

Volpato ha poi spiegato perché questa crisi è in realtà una grande opportunità, se sapremo adottare le regole di comportamento sopracitate: «I “virus” del mercato li conosciamo bene. Dalla crisi petrolifera, alla Bolla delle dot-com, fino all’ultima crisi di Lehman Brothers. Quello che fa innescare le crisi è sempre diverso, eppure gli eventi che succedono prima o dopo sono molto simili. Se ne esce adottando questo protocollo vincente».

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5. Come coltivare la speranza con “i fatti”

Il presidente di Banca Mediolanum, Ennio Doris, ha invitato tutti all’ottimismo, prendendo ad esempio la Cina, dove il numero dei contagi è in nettissimo calo, e dove si avverte già un rilancio importante dell’economia.

Ha poi evidenziato come la “medicina monetaria” stia per essere iniettata nei mercati, con i 750 miliardi di euro promessi dalla BCE per l’acquisto di titoli di Stato, “anche se con ritardo”. E poi ha passato in rassegna tutte le aziende che sono oggi impegnate nella ricerca di un vaccino, come Gilead, Moderna, Migal: «A differenza di altre crisi finanziarie, come l’ultima del 2008, che sono nate dall’interno del sistema e c’è voluto tempo per assorbirle, questa crisi avrà tempi più brevi, perché riguarda un evento esterno ai mercati che si risolverà non appena arriverà sul mercato il “cigno bianco”, il vaccino. Da lì partirà una rapida ripresa. Il clima che immagino è simile a quello che abbiamo sperimentato alla fine della Guerra: ci riverseremo in strada, ci sarà euforia. Allora faremo il viaggio che abbiamo sempre rimandato e acquisteremo l’auto dei nostri sogni…».

In prima linea per la lotta al Covid -19

Il presidente ha poi sottolineato l’impegno di Banca Mediolanum nella lotta al Covid-19: «Abbiamo donato 240mila euro per il Sacco di Milano e aperto una sottoscrizione di fondi per gli ospedali per 422 mila euro. Insieme ad altre donazioni che complessivamente raggiungono il milione di euro. Abbiamo realizzato poi uno spot per sollecitare donazioni per le strutture e i medici che sono in prima linea per la lotta al virus. Mentre come famiglia, a titolo personale, abbiamo donato cinque milioni di euro alla fondazione che si occupa di tutti gli ospedali veneti».

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Smart Working: 4 consigli per bilanciare vita lavorativa e vita privata (anche a casa)

In un momento in cui lo smart working è una condizione obbligatoria per la maggior parte dei lavoratori, con le tecnologie scopriamo che sappiamo lavorare bene anche a distanza, senza doverci confrontare ogni minuto, trovando spazio per la concentrazione e spazio per la condivisione a seconda del bisogno. Abbiamo visto che questo molto spesso è anche meglio, siamo più produttivi. Ma siamo anche capaci di scoprire questo “nuovo paesaggio del lavoro”, decisamente più domestico e cercare non solo occasioni per essere produttivi ma anche di crescere professionalmente e personalmente, tenendo presente che questo ambiente nel quale ci si muove verrà modificato dalle nostre azioni anche in maniera non prevista.

Del resto – e chi lo pratica da tempo lo sa – alla base della “filosofia” dello smart working c’è proprio l’idea di riuscire ad ottenere un miglior bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata. Come sottolineato nella ricerca Copernico. Il nuovo paesaggio del lavoro condotta dallo Studio Carlo Ratti Associati (in collaborazione con Copernico, BNL e Arper) il lavoratore moderno è “nomade” nello spazio ma anche nell’organizzazione del suo tempo, e come tale, tende a intrecciare momenti di lavoro a momenti privati, a volte sovrapponendoli. Ora la possibilità di muoversi nello spazio è decisamente limitata. Questo ci dà l’occasione di vivere le nostre giornate in modo più consapevole, trasformando il limite spaziale in opportunità di sviluppo.

smart working perché

Come trasformare l’home working in smart working

Chi è abituato a lavorare per obiettivi e in contesti flessibili, chi è parte di una community consolidata come quella dei coworking e degli uffici flessibili, è ormai allenato a distribuire bene il proprio tempo tra lavoro, sviluppo di relazioni e tempo per sé. Ma chi questo esercizio lo fa per la prima volta potrebbe scoprire che mantenere questo intreccio in maniera sana e consapevole non è sempre facile. Certo, i tanti flashmob e gli appuntamenti social promossi nell’ultima settimana ci hanno aiutato a staccare un po’ e a sentirci ancora parte di una comunità, ma per trovare il giusto bilanciamento ci vuole tanta esperienza e molta pratica. Ecco allora la ricetta di Copernico per uno smart working “bilanciato” anche da casa:

  • Rimanere produttivi e connessi con il proprio team
  • Continuare a pensare al futuro
  • Curare il proprio benessere fisico
  • Rinforzare il benessere mentale e la creatività

smart working consigli

1. Rimanere produttivi e connessi al proprio team

Come continuare ad essere produttivi anche in remoto? Come mantenere vive le relazioni tra le persone in questo momento? Gli step fondamentali sono tre:

  • Usufruire di app e sistemi per stabilire obiettivi condivisi o fissare appuntamenti in modo tale da aiutare tutti nella gestione e nel rispetto delle scadenze. Microsoft Planner, Trello, Asana sono le app più utilizzate;
  • Installare e utilizzare i sistemi di videoconferenza da usare tra colleghi, collaboratori, clienti e fornitori. Microsoft Teams, Google Hangouts Meet, Slack, Zoom e Skype sono solo alcune delle alternative possibili;
  • Non dimenticare la socialità tra colleghi: in questo periodo in cui alcuni di loro potrebbero essere completamente isolati (perché single, lontani dalla famiglia, etc.) si può comunque fare leva sulla tecnologia anche per mantenere vivi quegli importanti momenti di socialità che vanno dalla pausa caffè al festeggiamento delle ricorrenze, come il compleanno di un collega o un anniversario di lavoro.

smart working lavoro famiglia

2. Continuare a pensare al futuro

Prima o poi questa crisi finirà. È bene quindi usare il proprio tempo libero in casa non tanto per pensare alle occasioni che stiamo perdendo in queste settimane, bensì a quelle che potremo cogliere quando si tornerà alla normalità. Come fare?

  • Organizzare call di networking in mezzo alla giornata lavorativa con quella persona incontrata durante un convegno e che tante volte abbiamo pensato di contattare (è l’occasione giusta!);
  • Seguire webinar e gruppi di Facebook per aggiornarsi e per imparare cose nuove. Qui qualche consiglio sugli appuntamenti di Copernico;
  • Rifare i siti web, sistemare gli archivi online, pensare a tutte le cose che si possono portare avanti senza la presenza fisica;
  • Cercare nuovi potenziali clienti.

3. Curare il proprio benessere fisico

Lavorare da casa rischia di farci diventare tutti un po’ più pigri, perché non dobbiamo fare spostamenti e tutto è a portata di mano. Ma le idee per rimanere in forma e per prendersi cura della persona sono tantissime. E si possono fare insieme (anche con i figli, se sono a casa con noi!), come occasione di team building, perché insieme, c’è più motivazione.

  • Yoga, stretching, attività cardio: a metà o fine giornata, per distendere i muscoli, allentare la tensione. Molte palestre e personal coach stanno lanciando sessioni gratuite di attività motorie in streaming. Ecco allora che si possono organizzare lezioni di gruppo, anche con i colleghi;
  • Cercare di non lasciarsi andare: lavorare da casa in pigiama è bello e da una certa soddisfazione per i primi giorni, ma dopo un po’ rischia di diventare motivo di inerzia e perdita di concentrazione. Mantenere la distinzione tra abito da casa e da lavoro (anche se molto più casual del solito) resta un ottimo modo per non dimenticarci della cura della nostra persona. E ci permetterà di essere pronti per le videochiamate!

smart working benessere fisico

4. Sostenere il benessere mentale e la creatività

Come abbiamo anticipato all’inizio, lavorare in smart working dalla propria abitazione può portare ad un overburn. Ma è possibile evitare questo rischio attraverso alcuni piccoli accorgimenti e soprattutto ricordandoci che anche da casa possiamo mantenere una vita sociale attiva e sana! Ecco qualche piccolo consiglio:

  • Stabilire degli orari. È possibile rivedere quelli normali: si può attaccare prima visto che potenzialmente tutti possono iniziare a lavorare mezz’ora dopo il suono della sveglia. O magari anche dopo perché si preferisce dormire un po’ di più e rimanere al PC fino a più tardi tanto… non c’è traffico a tornare! L’importante è che ci sia una routine. Fissate l’ora del caffè, quella del meeting quotidiano per aggiornarvi e quella delle risposte ai clienti. Interrompersi continuamente è controproducente: a ogni ora, la sua attività;
  • Vi manca il venerdì sera al cinema insieme? Basta decidere quale film e stabilire un orario. Durante la visione sarà divertente scambiarsi commenti e impressioni nella chat di lavoro o in una creata per l’occasione;
  • Oppure manca il classico aperitivo settimanale tra colleghi? Anche questo è facilmente organizzabile da casa attraverso gli strumenti di videocall;
  • Volete darvi alla lettura collettiva? Ci si può dare appuntamento, per finire la giornata, con Fiesta immobile, l’idea lanciata da Alessandro Baricco e dalla scuola Holden di Torino. Alle 18.30 su Radio Casa Bertallot uno scrittore o una scrittrice leggono per mezz’ora le pagine che più amano. Si andrà avanti fino alla fine dell’emergenza, finché ce ne sarà bisogno. Come per l’appuntamento “in sala” anche in questo caso ci si può dare appuntamento per un ascolto di gruppo, a distanza;
  • Preferite una visita virtuale a un museo? Sono davvero tanti i musei che in questi giorni stanno offrendo visite gratuite alle loro mostre o alle loro collezioni. C’è chi fa dirette su FB o IG e chi carica dei video, chi ancora pubblica foto. Perché non scegliere di visitare un museo alla settimana?
  • Volete trovare una bella idea per coinvolgere le persone? Si può creare una playlist condivisa su Spotify: a turno ogni persona dell’azienda o dell’ufficio suggerisce un brano che viene inserito nell’elenco;
  • Infine, non dimentichiamoci che non siamo soli. Non dobbiamo aver paura di chiedere aiuto. Ci sono molte persone che in questo periodo non intravedono una via d’uscita o che si sentono in trappola. In questi giorni ci sono molti professionisti che forniscono consulenze individuali e coaching psicologico a distanza per manager e professionisti in crisi. E in questo periodo potremmo essere in molti ad averne bisogno.

Tutte le crisi insegnano qualcosa. E se nelle prime settimane di smart working obbligatorio abbiamo imparato ad apprezzare e a gestire il lavoro da remoto, ora, dopo più di 15 giorni di quarantena obbligata, abbiamo capito che il bilanciamento tra vita e lavoro è fondamentale, per i singoli lavoratori così come per le aziende nel loro insieme. Per poter ripartire con uno spirito diverso, e forse anche con un asso in più nella manica.

insight driven marketing

Insight-driven Marketing: che cos’è e perché è la chiave per il successo

  • Il 41% delle aziende analizzate nel report “The 2019 State of Digital Marketing” pubblicato da Altimeter afferma che la skill più richiesta in ambito di assunzione è l’analisi dei dati
  • Più del 60% conferma di studiare in profondità il Customer Journey per implementare strategie basate sulla personalizzazione del messaggio e customizzazione dei prodotti
  • Il 32% dei consumatori intervistati da PwC ammette che per abbandonare un brand – anche se molto apprezzato – può bastare anche una sola brutta esperienza

 

Tra Generazione Y, Millennial, Gen Z e i nuovi Centennial, i marketer si trovano ad affrontare quotidianamente una evoluzione continua e rapida del proprio target di riferimento. Questo significa che, insieme all’età dei consumatori, cambiano anche loro i gusti e le loro richieste.

Per questo studiare il comportamento degli stessi è fondamentale per riuscire ad elaborare una strategia di Marketing basata su degli Insight reali ma soprattutto puntuali. Proprio da qui nasce il concetto di Insight-driven Marketing, che in realtà è basato su un’altra specifica strategia ovvero il Data-driven Marketing.

Consiste nell’utilizzare i dati sulle abitudini di consumo e le informazioni sugli utenti – raccolti in precedenza tramite attività di Social Listening, ad esempio –  per ottimizzare le strategie di comunicazione sul digital o, in casi più complessi, guidare decisioni importanti come può essere il lancio di un nuovo prodotto.

Secondo il report “The 2019 State of Digital Marketing” pubblicato da Altimeter, il 41% delle aziende analizzate afferma che la skills più richiesta in ambito di assunzione è appunto l’analisi dei dati.

Inoltre, più del 60% conferma di studiare in profondità il Customer Journey per implementare strategie basate sulla personalizzazione del messaggio e customizzazione dei prodotti.

LEGGI ANCHE: Addio agli stereotipi: cari brand forse è ora di cambiare (partendo dai dati) 

I vantaggi nell’utilizzare tecniche di Insight-driven Marketing si riscontrano soprattutto in un aumento della soddisfazione da parte dei consumatori, che di conseguenza sono maggiormente propensi ad essere più fedeli al Brand.

Senza una buona base di dati non si va da nessuna parte 

Come accennato all’inizio dell’articolo, per poter lavorare con questo impianto strategico è fondamentale partire dal dato: per avere degli Insight utili per elaborare creatività funzionali, i marketer devono prima analizzare e comprendere i dati che hanno a disposizione.

Non parliamo ovviamente di dati di puro contatto, ma dati demografici, istruzione, interessi, stile di vita, esperienza professionale: tutto può essere utile per estrapolare una strategia in grado di colpire nel segno. 

La quantità di informazioni che si possono reperire sul consumatore è davvero immensa, per questo saperla organizzare e ordinare è altrettanto importante. Esistono DMP (ovvero Data Management Platforms) – come ad esempio Lotame, Clearbit e la più famosa Oracle Data Cloud – pensate proprio per facilitare i marketer in questo compito.

Dalla parte dell’utente per migliorare la sua Customer Experience

Una ricerca condotta da PwC dal titolo Experience is Everything riporta che in tutto il mondo il livello di qualità dell’esperienza di consumo è fondamentale per guidare gli utenti nella loro Customer Journey.

Il 32% dei consumatori, infatti, ammette che per abbandonare un brand – anche se molto apprezzato – può bastare anche una sola brutta esperienza. Inoltre, il 63% degli intervistati dichiara di essere più propenso a condividere informazioni personali con Brand che offrono una esperienza customizzata in base alle loro esigenze.

Un dato molto importante che emerge da questa ricerca è che, ovviamente, il target che maggiormente apprezza questo tipo di personalizzazione della Customer Experience è la Generazione Z.

Una ricerca condotta da Walker nel “lontano” 2013, infatti, prevedeva già che nel 2020 proprio il livello di qualità della Customer Experience sarebbe stato l’elemento chiave della differenziazione del brand rispetto ai competitor, superando addirittura il prezzo del prodotto o servizio stesso.

Oggi più che mai, i consumatori si aspettano che i Brand comprendano nel profondo le loro esigenze, anche a livello individuale. Per compiere queste aspettative, per i marketer è imprescindibile basarsi sull’Insight-driven Marketing. 

McKinsey & Company riporta che il Marketing personalizzato può aumentare le vendite totali di un prodotto del 15-20% – dato che aumenta per le vendite online – migliorando significativamente il ROI sulla spesa di Marketing.

LEGGI ANCHE: Come il Social Listening può aiutare i tuoi dipendenti a capire meglio i clienti

Dalla parte del Brand per uno sviluppo di prodotto più avanzato

L’Insight-driven Marketing non solo è fondamentale per migliorare la Customer Experience, ma può aiutare i Brand nello sviluppo di un nuovo prodotto o nella definizione di un nuovo servizio.

Quando un prodotto non si adatta alle esigenze dei consumatori, infatti, le probabilità che il lancio sul mercato sia fallimentare sono molto alte: riuscire a raccogliere in una prima fase di sviluppo informazioni e insight reali sul target di riferimento permette di ridurre significativamente queste possibilità di fallimento.

Ma proviamo ora a pensare al Digital Sales Funnel e a come il giusto contenuto, nella giusta fase, riesca a guidare più facilmente i potenziali consumatore verso il processo finale di conversione.

Non sono proprio gli Insight ad aiutare i marketer a produrre il contenuto perfetto? Esattamente. Grazie all’analisi dei dati è possibile identificare quali specifici contenuti stanno performando meglio e quali ottengono feedback non in linea con il desiderata, riuscendo così ad ottimizzare le campagne di comunicazione.

Dalla parte dei marketer per la comunicazione online

Sono molti i Brand che basano sull’Insight-driven Marketing le loro strategie di comunicazione, come ad esempio Apple, Nike o Spotify.

Tra le più recenti, possiamo trovare la campagna natalizia di Hotels.com “Xmas Excape” che ha avuto un grande successo in Inghilterra.

Il brand ha condotto una ricerca basata su oltre 7000 Millennial in tutto il mondo, in 20 Paesi, approfondendo in particolare le conversazioni che avvengono all’interno delle famiglie durante il periodo delle vacanze di Natale. Dalla ricerca emerse che i Millennial single erano vittime di fastidiosi interrogatori sulla loro vita sentimentale e lavorativa da parte dei loro parenti durante il pranzo natalizio.

Il risultato di questo studio ha ispirato la campagna “Xmas Excape” nella quale Hotels.com ha concesso ai Millennial una “via di fuga”offrendo il 50% di sconto sugli hotel a partire dal 26 Dicembre, per godersi un po’ di tempo da soli e riprendersi dal traumatico pranzo di Natale con i parenti.

Emma Tagg, Senior Global Brand Communications Manager di Hotels.com, ha commentato così l’idea della campagna:

“La ricerca ci ha permesso di identificare il momento esatto in cui i Millennials desideravano fuggire dal Natale in famiglia, e i motivi principali per cui la gente viveva il periodo festivo come un dramma familiare”.

Concludendo, i marketer oggi hanno accesso più che mai a dati e informazioni sui loro consumatori: riuscire a sfruttarli per l’implementazione di strategie di Insight-driven Marketing può rivelarsi un vero vantaggio competitivo per riuscire a differenziare il proprio brand dalla concorrenza.

marketing crosscanale

Il Marketing Crosscanale nell’era del Retail 5.0 generata dall’emergenza Coronavirus

  • L’emergenza Coronavirus ha portato alla chiusura della maggior parte dei negozi fisici tradizionali in Italia
  • L’eCommerce ha conosciuto un’impennata in termini di ricerche e di vendite nelle ultime settimane
  • Un approccio di marketing crosscanale può aiutare le aziende a dare una risposta efficace alla crisi del retail dovuta all’epidemia

 

La crisi dovuta al Coronavirus è, molto prima di qualunque altra cosa, una tragedia umana globale che coinvolge centinaia di migliaia di persone. Talvolta, purtroppo, in maniera fatale.

Ma ci sono anche delle conseguenze per il marketing e per la sua capacità di servire la causa degli individui in quanto consumatori; per migliorare le loro vite, anche e soprattutto in un momento di sfide e cambiamenti. E così in questi giorni anche la professione del marketer assume i contorni di una missione.

Cosa sta succedendo in Italia per l’emergenza Coronavirus

Il 10 marzo in Italia è infatti successo l’impensabile: tutti i negozi fisici tradizionali hanno dovuto chiudere. Una cosa inaudita che, per metterla in prospettiva, nemmeno durante le due guerre mondiali era accaduta. Chiusi tutti i punti vendita tranne quelli di pubblica utilità, s’intende. In primis gli alimentari. Eppure, proprio il grocery in questi giorni sta trainando la crescita dell’eCommerce. Perché? Perché il mutamento che stiamo vivendo in diretta ha due caratteristiche importanti che stanno prendendo forma di ora in ora:

  • non è un mutamento di breve-medio periodo
  • non è (o meglio, non soltanto) un mutamento nel mix dei canali distributivi

Da questo possiamo trarre la conclusione che quello che stiamo vivendo non è né un cambiamento che riguarda le marche né un cambiamento che riguarda le insegne.

Oggi in Italia stiamo vivendo un mutamento epocale che riguarda i consumatori.

Per questo l’impatto sarà molto più strategico di quello che oggi si può anche soltanto immaginare. Sarà strutturale, rivoluzionario, di lungo periodo – ma anche innovativo e per il meglio. Stiamo entrando nell’era del Retail 5.0.

Un esempio: nella seconda e nella terza settimana di marzo la crescita a valore dell’eCommerce rispetto al pari periodo del 2019 è stata rispettivamente del +81% e del +82% [Dati: Nielsen]. Con un incremento del 30% rispetto alla settimana precedente. È poco. E dire che è poco non è una provocazione. Lo dimostra tra gli altri indicatori il grafico dei volumi di ricerca Google indicizzati per la query “spesa online”: qui la crescita ha picchi del +1250%.

LEGGI ANCHE: Come cambia il ruolo del Social Media Manager in situazioni di emergenza (e cosa puoi fare adesso)

Marketing Cross Channel dati spesa online

Cosa significa lo spostamento dei consumi sul digitale?

Significa che lo spostamento dei consumi verso i nuovi canali digitali (dagli eCommerce proprietari ai marketplace, come Amazon e AliExpress) è appena cominciato. Infatti, su Amazon, la query “spesa online” è cresciuta di un inequivocabile +2814% negli ultimi 30 giorni, dandoci il senso di un processo ampio che un’analisi comparata restituisce in tutta la sua potenza.

marketing crosscanale coronavirus volumi ricerca

Che poi l’eCommerce fosse un canale in ascesa non è certo una novità per nessuno. Negli ultimi dieci anni anche in un’Italia per certi versi digitalmente-arcaica è cresciuto anno dopo anno di una cifra variabile tra il 17 e il 22% [Dati: Politecnico di Milano]. Con picchi al +40% per le categorie in ascesa, tra le quali proprio il grocery.

Quindi, ricapitolando, in queste settimane stiamo viaggiando a 4 o 5 volte tanto la velocità degli ultimi dieci anni. Un mutamento strutturale che, appunto, è solo al suo inizio. Perché una nuova predisposizione all’acquisto digitale si va sedimentando.

In definitiva, quindi, anche se siamo tutti bloccati in casa, quello che dicono di noi le query di Google è che il fenomeno dell’infocommerce è sempre più la guida, la pancia dello shopping behaviour.

Il fenomeno dell’infocommerce che a sua volta è il primo, per importanza, tra i fenomeni crosscanale (nel senso che di solito ci si informa online per acquistare sia online che offline). Per questo forse è proprio l’impostazione strategica dei nostri piani di marketing in un’ottica crosscanale che può rappresentare la vera uscita da questo tunnel del COVID-19.

LEGGI ANCHE: Introduzione al Marketing Crosscanale: cos’è, come funziona e perché fa vendere di più

Cosa significa crosscanale e cos’è questo approccio al marketing?

Crosscanale è una strategia che usa un mix di canali per produrre risultati incrementali misurabili, tipicamente in vendite.

marketing crosscanale significato

Le strategie crosscanale permettono cioè a consumatori sempre più connessi di iniziare, condurre e completare un’esperienza di acquisto su qualsiasi mezzo che sia per loro più comodo, nel momento in cui gli è più comodo: motore di ricerca, social media, email, mobile app, eShop e, infine, il negozio fisico, che manterrà sempre e comunque un ruolo chiave nella fase di transazione, con buona pace del Coronavirus.

Avere una strategia crosscanale non significa però riprodurre un contenuto identico su più canali: questo è l’approccio omnicanale al marketing.

L’obiettivo di una campagna crosscanale efficace è invece raccontare la stessa storia in modo diverso a seconda del media utilizzato. Ogni canale è utilizzato dai consumatori in modo differente e unico; allo stesso modo la comunicazione di un brand deve seguire lo shopping path, utilizzando i media più adatti e ROI-effective passo dopo passo.

marketing crosscanale coronavirus funnel

Queste ibridazioni mediatiche sono un’opportunità unica per cogliere il massimo dallo status quo fortemente multicanale di oggi e tremendamente volatile di questi giorni. Un’opportunità da cui si può ottenere il massimo costruendo piani media crosscanale vincenti ma flessibili (a CPC) con obiettivi quantitativi, in vendite.

Il Marketing Crosscanale ci permetterà di uscire indenni da questa crisi?

Mi piacerebbe tanto, ma in queste prime settimane stiamo solo vivendo l’inizio di un lungo periodo di incertezza. Che un approccio crosscanale al marketing e alla comunicazione possa essere più utile di altri lo dimostra un’analisi di buon senso di quello che sta accadendo in questi giorni a tante aziende con cui parliamo tutti:

  • chi non aveva un eCommerce (o Amazon) sta correndo ai ripari
  • chi aveva una strategia media/retail monolitica la sta abbandonando

Chi già aveva pianificato in senso crosscanale, invece, mi sembra che ne esca meglio degli altri. Chi assieme alla TV ha guardato a YouTube continua a fare media, come prima, cambiando il mix verso il secondo mezzo e spendendo a CPV, quindi a consumo: mantiene un problema sui volumi, certo, ma non sulle performance %. Lo stesso esempio si può fare per Google.

Chi a un piano di store-visibility ha affiancato un piano media sui social può contare più che mai sul real-time-marketing e sullo user-generated-content. TikTok, che è il social del momento anche in Italia, è un approdo perfetto per entrambe queste esigenze. Ma siamo tutti sempre più instagramer, oltre che tiktoker, in questi giorni: la produzione dei contenuti è un’ancora di salvezza – e può certo esserlo anche per aziende che hanno il coraggio di guardare a queste soluzioni create delle loro stesse audience target in chiave di branding.

Questi comportamenti “misti” o meglio “cross” costituiscono il background a partire dal quale il marketing crosscanale, che in questi anni ha acquisito una centralità crescente, si configura come (a) soluzione flessibile dal punto di vista dello spending ma anche (b) strategica nel suo andare incontro di corsa a quello che sta cambiando, oggi, nei sentimenti e nelle azioni dei consumatori italiani – di oggi e di domani.

marketing crosscanale kpi

D’altronde l’impatto delle soluzioni crosscanale adottate dai brand era già visibile su più livelli prima della crisi. Il primo è quello del costo per contatto rispetto alle soluzioni di marketing che mettono al centro un piano univoco che coinvolga solo media tradizionali: il costo è mediamente 1/10 in un piano crosscanale. Il secondo è quello dell’impatto sulle vendite in termini di uplift: fino a due volte meglio di un piano tradizionale [Dati: XChannel].

week in social

Week in Social: dai messaggi che spariscono su Instagram alla nuova interfaccia di Facebook

Il mondo oggi è diviso su due binari paralleli: chi resta a casa e chi corre più veloce che mai. In questo periodo così fluido, le piattaforme social provano a rimanere al passo con i tempi e ad aggiornarsi o a proporre piccoli, importanti cambiamenti. È tempo di Week in Social.

Facebook e la nuova interfaccia

Solo solo trascorsi dieci anni ed ecco che la prima novità arriva fresca fresca da Facebook.

Dopo tanti aggiornamenti e annunci, arriva la nuova interfaccia di Facebook: più pulita, più immediata e anche nella modalità dark, sempre per quella famosa e annosa questione del risparmio energetico.  Chi l’ha già testata racconta di qualche bug, ma i caratteri più grandi, a quanto pare, rendono tutti più felici.

Facebook dà 100 milioni alle PMI

Non è sicuramente un aggiornamento della piattaforma ma riguarda uno dei social più discussi e famosi di sempre, quindi abbiamo il diritto di riportare qui la notizia.

Mark Zuckerberg ha deciso di mettere a disposizione 100 milioni di dollari destinati alle piccole imprese in tutti e 30 i paesi in cui la compagnia opera.

facebook 100 milioni pmi coronavirusFacebook offre 100 milioni di dollari in sovvenzioni in contanti e crediti pubblicitariper un massimo di 30.000 piccole imprese ammissibili, mai dettagli ancora non sono notizie saranno diffusi sulla landing dedicata non appena disponibili.

LEGGI ANCHE: Emergenza Coronavirus: Facebook mette a disposizione 100 milioni per le PMI

+ 1.00o dollari ad ogni dipendente

Lo ha deciso Mark: mille dollari ad ogni dipendente. Un “piccolo” aiuto per far fronte a questa spiacevole situazione che, chiaramente, interessa tutti. Nessun settore è immune e quindi questo bonus arriva così.

Solo i dipendenti avranno il plus, per tutte quelle spese non previste: babysitter, dogsitter e chi più ne ha più ne metta.

Twitter e il COVID-19

Anche Twitter risente della pandemia ed è per questo che a  livello mondiale ci sono stati milioni di tweet e retweet sul tema COVID-19. Nello specifico, ogni 45 millisecondi c’è un tweet sul coronavirus e ad oggi #Coronavirus è il secondo hashtag più utilizzato del 2020. 

Trovandoci davanti ad una situazione di emergenza, siamo consapevoli che Twitter è una piattaforma che svolge un ruolo importante a livello di comunicazione e che può essere uno strumento significativo per entrare a contatto con un ecosistema sempre più ampio.

Sarà vero o no che arriverà la nuova emoji con le manine che si lavano? Attendiamo!

In breve

Lo avevamo già anticipato, ma continua l’impegno in tal senso e dunque lo riportiamo: Facebook mette su (virtualmente) un vero e proprio centro per sostenere una corretta informazione sulla tematica del COVID-19. Basta fake, siamo tutti molto d’accordo.

Una nuova news da Instagram: il social sta testando una nuova modalità di messaggi diretti che scompaiono. Sì, come le storie e sì, proprio come Snapchat. Ancora non si sa quando tutto questo sarà realtà.

10 errori social media advertising

10 errori di Social Media Advertising da non commettere in una campagna

  • Sui social non è sufficiente applicare le strategie nel modo corretto e saper utilizzare gli strumenti, bisogna anche sapere quali sono gli errori di Social Media Marketing da non commettere
  • Dal targeting corretto all’uso del pixel di Facebook, fino agli A/B test, ecco cosa non dovresti sbagliare nelle tue campagne

 

I consigli sul Social Media Marketing ormai si sprecano. Troviamo facilmente esperti e professionisti pronti a darci dritte e spiegazioni su cosa fare per migliorare la presenza social di un brand o di un’azienda, su come organizzare una campagna di influencer marketing e sulle metriche da monitorare. Quello che manca, invece, è una guida al contrario.

Quali sono gli errori più comuni commessi nel Social Media Advertising?

Abbiamo realizzato una lista con i 10 errori di social media marketing più comuni che uccidono le prestazioni delle tue campagne sui social media, vediamoli insieme.

errori da non commettere nel social media advertising

1. Non comprendere gli obiettivi degli annunci

La prima domanda a cui si dovrebbe rispondere quando si realizza una campagna per i social è: “Perché vuoi pubblicare questa campagna / set di annunci?”.

Hai bisogno di aumentare l’awareness? Speri di aumentare le vendite su un prodotto specifico? Stai costruendo una mailing list? Vuoi contatti qualificati? Comprendere a fondo il motivo per cui desideri pubblicare un annuncio e le opzioni disponibili sulle piattaforme di gestione degli annunci è fondamentale.

2. Il rischio spam

Molti inserzionisti tendono a creare un targeting davvero troppo ampio: età compresa tra i 18 e i 65 anni, in tutto il mondo, con interessi diversissimi. Ecco uno degli errori di social media advertising più comuni.

Anche questo può essere controproducente: la potenza dei social e degli strumenti offerti dalle piattaforme, sta anche nella capacità con cui siamo in grado di utilizzarli per una comunicazione rilevante per gli utenti.

Il targeting degli annunci in base a interessi, area geografica e, in alcuni casi, titolo professionale è fondamentale per campagne che performino. Inoltre utilizzare il pixel di Facebook permetterà di eseguire il remarketing per i visitatori di un prodotto specifico o per l’abbandono del carrello.

errori campagna social media advertising

3. Mettere il brand prima dell’utente

Le persone non sono sui social per guardare la pubblicità, dunque creare un annuncio con l’illusione che sarà automaticamente guardato dagli utenti è quanto di più sbagliato si possa pensare. La pubblicità sui social media riguarda un processo di scoperta. Considera la capacità del tuo annuncio di incuriosire o di offrire un suggerimento, un consiglio o un’informazione utile.

Il tuo advertising dovrebbe innanzitutto stimolare l’interazione con il pubblico. In questo senso un copy che inviti a partecipare è un’ottima tattica per aumentare l’engagement: “Commenta se…”; “Se ti piace…”; “Qual è il tuo preferito…?”. Sono tutte formule con cui catturare l’attenzione e invitare al dialogo.

4. Non utilizzare correttamente (o non usare affatto) il remarketing

Se hai installato il pixel di Facebook sul tuo sito web, dovresti anche avere una strategia per usare le informazioni che questo ti fornisce: stai offrendo annunci di Facebook generici a ogni singolo visitatore del tuo sito web, sperando che tornino e trovino un modo per acquistare da soli? Ecco un consiglio utile: crea due set di annunci, il primo orientato a coinvolgere le persone su un determinato prodotto o linea di prodotti. Assicurati di utilizzare il pixel di Facebook nel monitoraggio per ampliare un pubblico in linea con la tua attività. Il secondo per creare il vero e proprio remarketing rivolto solo alle persone che hanno fatto clic sul primo set di annunci e non hanno acquistato.

Sai già che non hanno acquistato, se il tuo pixel è installato correttamente, quindi puoi interrompere la pubblicazione del primo set per chiunque non abbia visitato la pagina di ringraziamento dopo l’acquisto. A loro puoi proporre, ad esempio, la spedizione gratuita, sconti o altri premi per tornare indietro e acquistare subito.

Tieni traccia delle conversioni su questi set e confrontale con le tue vendite.

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5. Sottostimare gli annunci

Facebook ci dà già un’indicazione del pubblico potenziale che è possibile raggiungere con un determinato budget. Ma è bene settare il giusto investimento anche in base al target. Le persone hanno infatti di vedere più volte lo stesso annuncio prima di interessarsene e la ripetizione è essenziale.

Ogni giorno vediamo fino a 5.000-20.000 messaggi pubblicitari e il tempo trascorso su Facebook è di più di due ore al giorno, con una sessione media di 20 minuti. Ci sono 300 milioni di foto caricate ogni giorno su Facebook e queste arrivano proprio al tuo pubblico di destinazione. Pianifica quindi di mostrare il tuo annuncio dalle 8 alle 12 volte prima di ingaggiare un utente. Tieni duro e continua a bussare alla porta del tuo pubblico fino a quando non avrai un appuntamento.

6. Non avere una strategia

C’è una vera e propria scienza dietro l’ottimizzazione di ogni singola opzione pubblicitaria su Facebook e Instagram. Il segreto come in ogni disciplina matematica è sperimentare: modifica il target se necessario, prima di lanciare la tua campagna crea A/B test su pubblici più piccoli e solo dopo aver individuato l’annuncio che performa meglio, dai un boost alla spesa pubblicitaria.

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7. Usare gli user generated content senza autorizzazione

È così allettante la possibilità di utilizzare i contenuti dei fan nella tua pubblicità. I tuo follower infatti stanno scattando foto, creando contenuti e promuovendo il tuo brand in modo del tutto spontaneo con la loro rete di amici. Gli UGC sono considerati uno dei messaggi di vendita più affidabili dagli utenti, ma per usarli nella tua strategia devi innanzitutto ottenere l’autorizzazione a farlo. Cerca modi originali per integrare questi contenuti nella tua strategia paid, in modo da avere un ulteriore ritorno di visibilità da parte degli utenti stessi.

8. Non sfruttare al massimo la creatività

Non puoi essere pigro quando si tratta di social media e creatività: anche se richiede più lavoro, creare caroselli o annunci multi-foto può portare a performance decisamente migliori. Questi formati infatti ti consentono di non lanciare solo un messaggio, ma di raccontare una vera e propria storia e coinvolgere più facilmente il pubblico.

Se non ne sei proprio capace, allora punta sulla CTA: scegli un copy allettante e super breve, per acchiappare subito i clic del tuo pubblico. Ad esempio potresti puntare su una promo o uno sconto particolare per un breve periodo di tempo.

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9. Non puntare sulla brand awareness

Spesso si leggono testimonianze su quanto sia semplice vendere grazie a Facebook. Ma è un errore pensare che basti fare pubblicità sui social media faccia automaticamente vendere di più. La pubblicità sui social andrebbe considerata in termini più olistici. E in questo senso anche la brand awareness dovrebbe rientrare tra gli obiettivi primari.

Se tutti i tuoi annunci punteranno su “compra”, “acquista” e “clicca” senza proporre alcun contenuto rischierai di perdere terreno in termini di reputazione e di conseguenza ti giocherai le possibilità di conversione anche delle campagne successive.

10. Puntare tutto sui “Mi piace”

Certo è bello veder crescere i like sulla propria pagina, contare il numero sempre maggiore di reaction e di condivisioni, ma anche in questo caso, non si può puntare tutto sul “Mi piace”. Tra gli errori di social media marketing più comuni è quello di dimenticare che l’obiettivo finale resta sempre quello di vendere.

Le statistiche mostrano che potrebbero essere necessari da 8 a 10 mesi per passare da un like a una vendita, dunque intrattenere il pubblico offrendo contenuti apprezzabili e rilevanti è giusto, ma è solo un passaggio che ti consentirà di ottenere più dati sul tuo pubblico per creare i tuoi successivi annunci di conversione.

singolarità

La singolarità è arrivata senza avvisare (e non è come la immaginavamo)

“Non torneremo alla normalità. Questa è la nuova normalità”. Mi cade l’occhio sull’oggetto dell’ultima newsletter del MIT Technology Review. È vero, in queste settimane abbiamo cambiato radicalmente come lavoriamo, come ci alleniamo, come compriamo, socializziamo ed educhiamo i nostri figli. Alcune cose torneranno come prima, ma altre forse no.

YouTube ha annunciato una serie di cambiamenti alla luce della pandemia, tra cui il fatto che da ora e fino a tempo indeterminato saranno principalmente dei sistemi automatizzati e non più degli esseri umani ad autorizzare o a rimuovere contenuti dalla piattaforma.

“Con l’evolversi di COVID-19, stiamo facendo del nostro meglio per supportare chi guarda, crea e monetizza contenuti su YouTube. Molte delle nostre risorse umane sono impossibilitate a lavorare come al solito, quindi ridurremo lo staff in alcuni uffici. Visto che ora sono disponibili meno persone per valutare e filtrare i contenuti, è il momento per i nostri sistemi automatizzati di fare il loro dovere e garantire la sicurezza di YouTube”.

Via la componente umana, in quarantena. Al suo posto, algoritmi ed intelligenze artificiali.

Chi lavora nel digitale si è posto almeno una volta nella vita la domanda “Quando arriverà la singolarità tecnologica?”. Quale sarà la killer application, l’intelligenza artificiale rivoluzionaria che cambierà la civiltà umana così rapidamente al punto da dare il via a scenari incomprensibili ed ineffabili per le generazioni precedenti? Quand’è che i robot pervaderanno gli ambiti di consumo, di esperienza, di vita e di lavoro?

No, era un’altra la domanda che dovevamo farci. E cioè: “Quale sarà il seme della singolarità? Cosa dovrà avvenire affinché la singolarità tecnologica possa ottenere il giusto terreno fertile per la sua inevitabilità?”.

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Come sarà la singolarità

La singolarità è sempre stata vista come un punto di non ritorno nella storia dell’uomo, una cesura, un punto di partenza da collocare in un futuro più o meno lontano. Ma quello che sta succedendo in queste settimane prelude ad uno scenario diverso: la singolarità non sarà un dispiegamento nuovo, una rivelazione o un’epifania. La singolarità sarà la conseguenza inevitabile di un seme originale ed unico, di una tempesta tanto “perfetta” quanto rara. Più che un punto di partenza, la singolarità sarà un punto di arrivo ineluttabile – a condizione che se ne verifichino le giuste condizioni.

E ci siamo arrivati, ci voleva un virus che creasse una pandemia senza precedenti. Un virus in grado di piegare il mondo sulle ginocchia in una ola verso il basso, un’onda non di esultanza ma di distanza sociale. Un virus-cigno nero che ci fa evocare scenari distopici in cui veniamo privati di libertà personali e relazionali. Per riprendere il titolo di questo articolo: no, non è la singolarità ad essere arrivata ma il suo seme. Credo questa sia la precondizione necessaria alla singolarità, ad una nuova era in cui le AI obbligheranno il genere umano a seguirle in una strada incognita ed inesorabile.

Per far arrivare la singolarità è forse necessario passare da questa tappa obbligata in cui ci troviamo oggi, in cui l’espressione delle nostre libertà pubbliche, la soddisfazione dei nostri bisogni primari e la gratificazioni di tutti i desideri privati sono possibili in maniera crescente solo grazie alla tecnologia. Una tecnologia via via sempre più scevra e autonoma dalle componenti umane, in grado di dematerializzare quante più dinamiche possibile.

Come dice il futurologo Kevin Kelly, la tecnologia è un gioco infinito: un gioco il cui unico obiettivo è quello di continuare a giocare. E in questi mesi a venire la tecnologia si andrà sempre più ad inserire nei vuoti creati dal distanziamento sociale, da questo allentamento – seppur solo fisico e tangibile – della maglia relazionale del mondo. Un distanziamento di cui oggi nessun paese può prevedere con esattezza la fine. In questi mesi, la tecnologia si comporterà come un liquido che si insinua tra le fughe dei mattoni, ricostruendo le connessioni fisiche mancanti con la sua linfa digitale.

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Un darwinismo tecnologico

Mi chiedo quante persone in questi giorni si siano convertite per la prima volta agli acquisti online, impauriti da file piene e scaffali vuoti ma disposti ad incontrare una sola persona, un corriere umano con guanti e mascherina. E poi mi chiedo quanto questo scenario velocizzerà il lancio a vasta scala dei robot di delivery urbana.

Mi chiedo quanti allestitori di eventi fisici finiranno inevitabilmente a progettare mondi immersivi per la realtà virtuale e quanti invece finiranno sul lastrico.

Mi chiedo quanti negozianti restii ai POS invocano ora pagamenti cashless e dematerializzati – spaventati dal possibile contagio tramite banconote.

Quanti cinema siano stati chiusi e quante case di produzione stanno decidendo di trasmettere le premiére dei film direttamente in streaming a casa delle persone.

Quanti autisti di Uber stiano soffrendo il contraccolpo della pandemia sulla gig economy e quanti invocano le auto a guida autonoma come soluzione fondamentale per il sistema di trasporti.

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Mi chiedo quanti stiano capendo che la sharing economy non ruota affatto intorno alla condivisione, ma intorno alla dialettica hegeliana servito – servitore. Nelle parole di Lauren Smiley di Wired, “Nel nuovo mondo in cui tutti è on demand, o fai parte di un’elite servita, riverita e isolata – o sei uno schiavo del 21esimo secolo”. L’effetto della pandemia sulla gig economy è solo questo: mostrarne le profonde disuguaglianze alla base per capire come e se correggerle: Airbnb ha deciso di rimborsare tutti i clienti che disdicono una prenotazione nelle prossime settimane; gli host non subiranno penali di cancellazione, ma dovranno rinunciare a quello che fino a ieri era un loro flusso di ricavi costante.

Tutto questo per ribadire che la precondizione per l’arrivo della singolarità è proprio quello che sta avvenendo adesso: il mondo, i suoi legami, i suoi consumi e le sue esperienze vanno prima digitalizzati il più possibile, affinché le AI e le tecnologie autonome possano iniziare a presidiare quanti più meandri della nostra vita. È questa la vera rivoluzione digitale, la più efficace spinta mai vista prima all’alfabetizzazione digitale mondiale. Serviva un darwiniano “di necessità virtù”.

Il nuovo coronavirus dimostra anche come le grandi aziende del tech, anche se disgiunte, abbiano davvero in mano gli snodi critici ma pratici della nostra vita. Pensate alla capillarità distributiva di un kit di testing distribuito da Amazon Prime, al real time del Safety Check di Facebook, alla potenza investigativa dei grafi sociali di LinkedIn ed Instagram per ricostruire le catene dei contagi, alla geolocalizzazione dei nostri spostamenti tramite Google o la rete cellulare. Questa è anche l’opportunità per le aziende del tech di dimostrarci che coi dati possono anche fare del reale, etico e civico bene comune – non solo costruire Custom Audience.

Cosa può allentare la nostra percezione della privacy? Forse proprio la volontà di sopravvivenza personale e dei nostri cari può farci cambiare idea sui dati che siamo disposti a cedere ad aziende e governi. Immaginiamo un mondo in cui per imbarcarci su un aereo dovremo essere registrati ad un servizio che traccia i nostri spostamenti tramite telefono. La compagnia aerea non spierà i nostri percorsi, ma potrebbe essere allertata se sei stato vicino a persone infettate o luoghi ad alto contagio. Potrebbero esserci requisiti simili all’ingresso di grandi eventi, uffici pubblici o stazioni.

Scanner di temperatura ovunque, datori di lavoro che richiedono il monitoraggio della temperatura corporea ed altre metriche vitali. Un mondo in cui per entrare nei locali non ti sarà chiesto un documento di identità ma un documento di immunità – magari validato da blockchain. Ci adatteremo ed accetteremo di buon grado misure del genere, proprio come ci siamo adattati a regole di sicurezza più stringenti negli aeroporti dopo gli attacchi terroristici.

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Non dovevamo aspettare la singolarità, ma…

Oggi, come allora, ci sentiamo come dentro un film. Poco dopo l’11 settembre Baricco scriveva “La ripetiamo [questa frase] perché lì dentro stiamo cercando di pronunciare una paura ben precisa, una paura inedita, mai avuta prima: non è il semplice stupore di vedere la finzione diventare realtà: è il terrore di vedere la realtà più seria che ci sia accadere nei modi della finzione. In virtù di questo terrore un’eventuale sorveglianza tecnologica fino a ieri intrusiva sarà considerata un piccolo prezzo da pagare in cambio della basilare libertà di poter stare con altre persone.

Nel libro The New Digital Age: Reshaping the Future of People, Nations and Business, Erich Schmidt insieme all’executive manager di Google Jared Cohen scrivevano: “Quello che Lockheed Martin è stato per il ventesimo secolo, aziende tecnologiche e di cybersecurity come Google lo saranno per il ventunesimo”. Che lo scenario della Vita 3.0 ipotizzata da Max Tegmark sia positivo grazie alle Friendly AI – o negativo e apocalittico, la profonda alterazione delle strutture sociali così come sta avvenendo oggi apre la strada ad inedite integrazioni uomo-macchina.

Invece che aspettare noi la singolarità, dovevamo realizzare che era la singolarità ad aspettare il suo evento scatenante.