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Week in Social: Facebook chiude gli account fake, su Twitter e LinkedIn arrivano le stories

In questi giorni il web sta esplodendo: tantissime sono le notizie che circolano sui più svariati argomenti, altrettanto abbondanti le fake news. Abbiamo noi la giusta alternativa: che ne dite della nuova Week in Social?

Facebook chiude gli account, i prossimi sarete voi?

Chi può dirlo, è solo questione di coscienza, ma sembra essere la volta buona: Facebook chiuderà tutti gli account fake. Si parla di miliardi di account che il social con il nuovo algoritmo intende chiudere. È quello che viene definito “Deep Entity Classification” (DEC), il metodo per scovare in profondità i falsi della piattaforma.

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L’algoritmo attuale si basa su pochi parametri, uno su tutti lo spam. Se lo fate, nel senso che inviate richieste di amicizia in automatico o se le spalmate ma comunque il vostro profilo non è quello di un “comune mortale”, allora sì, siete a rischio.

La rimozione degli account non ha fatto sconti nel 2019, ci auguriamo che questa linea limpida sia sempre di più perseguita da Menlo Park.

LinkedIn Stories

Poteva rimanere obsoleto un social comeLinkedIn? Assolutamente no, e Giulia Miglietta, la nostra ninja, lo ha raccontato sui nostri canali: anche LinkedIn è pronto a lanciare le sue Stories. Ad annunciarlo è Pete Davies, Senior Director Of Product Management LinkedIn in un blog post di Pulse.

Abbiamo imparato molto sulle incredibili possibilità offerte delle Stories in un contesto professionale. Per esempio, la sequenza del formato Stories è straordinariamente efficace nell’ottica di condividere momenti chiave degli eventi di lavoro, lo stile narrativo full-screen rende facile condividere consigli e trucchi per lavorare in maniera più proficua

Dopo una fase di test, già dai prossimi mesi, il social network professionale renderà disponibili le sue Stories in versione beta.

LinkedIn aveva sperimentato un format analogo nel 2018. Era “Student Voices”, una piattaforma creata per gli studenti universitari americani che dava ai ragazzi la possibilità di postare brevi video all’interno di una “campus playlist”, visibile in cima al feed dei contenuti solo per una settimana.

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Ehi, anche Twitter!

Ok, ma non chiamatele stories. Si chiamano fleets, i contenuti volatili che mette in campo Twitter.

24 ore e addio, una nuova promessa della piattaforma che per ora si traduce solo come un test in Brasile. La domanda è: ma i tweet che fine faranno? 

Twitter contro gli hate speech

Una nuova regola sempre da Twitter: basta al linguaggio d’odio. La piattaforma pone dei limiti a tutti quei commenti che vanno “oltre l’umano”. Stop dunque a tutti quelli che si prendono gioco degli altri, specie se derisi per età, malattie o disabilità. Non si escludono altre limitazioni su altre categorie.

Nuove funzioni su Instagram

TikTok, non fai paura, o forse sì? Instagram punta sempre di più ad ampliare le proprie funzionalità ed arriva così il controllo sui tag. Una notizia che ci tranquillizza: finalmente avremo la possibilità di scelta. Apparire o non apparire in quella foto in cui siamo venuti malissimo?

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O meglio: accettare l’ennesimo tag inopportuno dallo spammatore seriale di turno? Evviva.

Tempi duri per i detrattori dell’istruzione digitale, con le scuole chiuse e l’Italia ferma

All’improvviso anche l’Italia si è scoperta più tecnologica e avvezza alle tecnologie di quanto pensasse. Ha fatto di necessità virtù. Le scuole sono chiuse, molti uffici anche. E le aziende che non hanno chiuso promuovono, obtorto collo, lo smart working. Tutta l’Italia è ferma. Non si tratta più di un terremoto o di un’allerta maltempo cricoscritta. Siamo di fronte a un’emergenza nazionale

Ma le domande che ci si pone sono molte. Quanti genitori, potendo davvero scegliere, lascerebbero il proprio bambino ore e ore davanti ad un computer e a un microfono per svolgere le lezioni a distanza? Non è forse meglio accompagnarlo in classe dove può incontrare e interagire con altri coetanei e con gli insegnanti?

Il fattore umano è ancora decisivo. Soprattutto per la crescita cognitiva e relazionale dei nostri ragazzi.

In questi giorni, però, alcune zone d’Italia non hanno avuto alternative alla sospensione delle lezioni. E gli istituti scolastici si sono tutti più o meno organizzati con l’istruzione digitale, dando la possibilità di seguire le lezioni regolarmente attraverso le piattaforme digitali come Skype o WeSchool.

Il futuro, insomma, è già qui e la quarantena imposta dal Coronavirus ci ha obbligato a guardarlo in faccia cogliendo l’immensa opportunità che ci offre. Del resto la tecnologia ha già profondamente cambiato, per esempio, la formazione post-universitaria che ha attraversato numerose mutazioni, dall’e-learning degli anni 1990-2000, al continuous, dal digital learning fino al micro learning sul posto di lavoro.

La riflessone sulla formazione a distanza si è estesa alla scuola primaria e secondaria che non è, fortunatamente, immune al cambiamento.
Se per certi versi le nuove generazioni hanno una spiccata propensione ad integrare le esperienze fisiche all’utilizzo del digitale, per la formazione fin dalle più giovani età c’è ancora molta cautela nell’interferire con i tradizionali metodi educativi.

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Il modello ibrido? Il migliore per il futuro prossimo

E così, la verità sta un po’ nel mezzo. L’apprendimento online ed il digitale non solo possono garantire l’istruzione in casi di necessità, ma anche migliorare l’esperienza scolastica dei nostri ragazzi in un modello di “blended learning”. Uno studio del Dipartimento della Pubblica Istruzione degli Stati Uniti individua nelle classi di apprendimento misto (blended) risultati statisticamente migliori rispetto ai loro omologhi basati sulla sola istruzione face-to-face.

Un recente rapporto del New Media Consortium ha rilevato che i corsi ibridi sono ormai la norma ed un trend crescete nelle scuole, nelle università e nei college di molte nazioni. A confermarlo anche da uno studio “Next generation Learning” finanziato dalla Fondazione Bill Gates che giunge alla conclusione che il “blended learning” (modello ibrido) produce risultati accademici superiori rispetto esclusivamente ai corsi frontali o esclusivamente online.

Flessibilità e autonomia si mescolano a interazioni e scambio di esperienza con altri studenti e tutor creando, così un equilibrio perfetto.

Restiamo umani parola dei padri dell’artificiale

Del resto lo sostiene anche Sebastian Thrun, ex professore di intelligenza artificiale presso la Stanford University e un pioniere dell’apprendimento a distanza. La sua azienda Udacity offre corsi online per aiutare gli studenti ad acquisire competenze in ambito delle nuove tecnologie esponenziali quali l’intelligenza artificiale, coding e nanotecnologie. Ma nonostante il valore riconosciuto a di tali corsi, lo stesso Thrun sottolinea che solo il 34% di coloro che iniziano i corsi arrivano in fondo. Un rate piuttosto elevato.

“L’apprendimento individuale è difficile – sostiene Thrun – Molte persone si imbattono in una sfida anche tecnica insormontabile che non riescono a superare. Senza il tipo di attenzione personale che proviene da forme più tradizionali di training, si demoralizzano e si arrendono”.

A fronte di queste constatazioni Thrun ha integrato i propri corsi con incontri ed esercitazioni di team building, creando un senso di comunità tra gli studenti. Anche la fase di gratificazione ha mantenuto un carattere umano e quando uno studente passa un test, riceve le congratulazioni e un ringraziamento da un essere umano “reale” via Skype.

Udacity non è sola. Alcune scuole e gli istituti di istruzione superiore stanno già integrando i metodi di insegnamento con tecnologie di prossima generazione come la realtà aumentata, l’AI e la realtà virtuale.

Esistono oggi alcune società come la statunitense Nearpod che vanta oltre sei milioni di studenti che hanno già frequentato lezioni basate sulla realtà virtuale, che includono gite virtuali in siti storici famosi come il Colosseo romano.

La società con sede a Copenaghen Labster, focalizzata sull’educazione universitaria e post universitaria, sta attualmente sviluppando una serie di prodotti VR con Google che consentiranno agli studenti di scienze di eseguire esperimenti virtuali. Un progetto include un gioco VR in cui uno studente di scienze forensi può indagare su una scena del crimine virtuale e analizzare le prove che trovano.

“La realtà virtuale è uno strumento accattivante, ma all’interno di un piano di lezioni di 35 minuti, potrebbe durare solo due o tre minuti. L’apprendimento è un’esperienza sociale. Non si tratta solo di imparare i contenuti, ma di imparare a trattare con gli altri. Gli insegnanti giocano un ruolo davvero influente”, ha spiegato Kovalskys, Amministratore delegato e co-fondatore di Nearpod.

Un modello ibrido per evolvere e garantire la continuità con l’istruzione digitale

Ma se Ecole42, istituto di formazione senza docenti con oltre 20 sedi nel mondo dove allievi tra i 18 e i 60 anni seguono lezioni secondo un programma governato da un algoritmo, è un caso di successo, dobbiamo essere coscienti che non tutti oggi sono pronti a questo cambiamento.

E allora in un sistema ibrido, ed in situazioni di crisi come questo che impongono l’interdizione ai luoghi fisici, spostarsi verso un livello superiore di digitalizzazione dell’istruzione ci porrebbe al sicuro, anche come Paese, dall’interruzione del “servizio” obbligandoci a munirci di un’infrastruttura. Oltre a favorire un interscambio disciplinare tra corsi e istituti scolastici.

E allora sfruttiamo la crisi e la contingenza per andare a fondo alle potenzialità che la tecnologia ci può offrire, creando la giusta sintesi, al fine di stimolare sempre di più i nostri ragazzi e rendere la scuola un luogo capace di guardare al futuro senza subirlo o rincorrerlo.

E se si potrà integrare la propria formazione accedendo a librerie di knowledge di altri istituti, recuperare una lezione persa accedendo ad un modulo di recupero on-line o partecipare ad una gita attraverso la realtà virtuale, siamo pur certi che nulla può valere di più di una pacca sulla spalla dopo aver preso un bel voto.

mike bloomberg comunicazione politica

Bloomberg: una campagna da mezzo miliardo di dollari per vincere alle Isole Samoa

  • Il Super Tuesday per Mike Bloomberg si rivela una grande lezione di comunicazione e di business
  • “Mini Mike” concentra tutte le sue risorse spendendo mezzo miliardo di dollari in soli tre mesi

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Cosa faresti con mezzo miliardo di dollari di budget a disposizione? Il sogno proibito di ogni pubblicitario del mondo è probabilmente avere un cliente come Mike Bloomberg, il nono uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato di oltre 55 miliardi di dollari; molto più di Donald Trump, i cui risparmi non raggiungono i quattro miliardi.

La storia va così: l’ex sindaco di New York, eletto con il Partito Repubblicano e poi passato ai Dem, ha un unico grande obiettivo in mente per il 2020: vincere le primarie democratiche e poi battere Donald Trump a novembre. Ci mette un po’ per decidere di scendere in campo, salta la tornate elettorali in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina (primo grande errore!) e decide di concentrare tutte le sue risorse sul Super Tuesday, la giornata in cui vanno al voto il maggior numero di stati e in cui – di fatto – diventa chiaro chi sarà il frontrunner del Partito e il possibile sfidante del presidente in carica.

Per realizzare il suo progetto Bloomberg mette in campo una macchina elettorale mai vista finora, con una massiccia programmazione di ads TV e social in tutti gli stati coinvolti. Il conto è salatissimo: mezzo miliardo di dollari in soli tre mesi.

Tuttavia, durante questo bombardamento di spot e annunci sponsorizzati, il vento per il vecchio Joe Biden inizia a girare nel verso giusto, e lo si capisce già con la vittoria nel South Carolina, che scatena una reazione a catena che porta l’ex vicepresidente di Obama a raccogliere l’endorsement di tre candidati alle primarie dem, dopo il loro ritiro: Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Beto O’Rourke.

Arriva finalmente il tanto agognato Super Martedì e “Mini Mike”, come nel frattempo lo ha ribattezzato il presidente Trump, è certo che la sua strategia avrà successo: un diluvio di spot avrebbe persuaso gli elettori a dargli la preferenza. Qualcosa però va storto: i dati che iniziano ad arrivare sono sconfortanti.

A notte fonda l’amaro esito: 500 milioni per vincere unicamente nelle American Samoa, un piccolo arcipelago del Pacifico la cui capitale, scherzo del destino, si chiama Pago Pago.

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mike bloomberg comunicazione politica

Il cliente (non) ha sempre ragione

Torniamo all’inizio: fate finta di essere il famoso consulente (che ha nome e cognome e si chiama Tim O’Brien) a cui Bloomberg consegna 500 milioni di budget per il piano mezzi (una torta divisa fra tanti media, non ultimo Facebook); il magnate newyorchese ha in testa un’idea precisa di America e un’idea precisa di comunicazione da portare avanti.

Voi sapete che l’elettorato democratico ha altre preferenze, che le contingenze di queste elezioni sono molto particolari, che il vostro candidato non è così forte come pensa di essere, ma lo accontentate lo stesso.

Invece di usare il budget per messaggi che i democratici moderati avrebbero voluto sentire: annunci anti-Trump basati su dati fattuali, messaggi anti-Sanders e contro le derive estremiste o socialiste, il team della campagna elettorale di Bloomberg spende centinaia di milioni di dollari puntando su nicchie di voto inutili al fine del risultato finale.

Tutti gli errori, in due spot:

  • Errore 1: pensare che la propria visione del mondo e le proprie antipatie/simpatie personali possano trovare appeal nell’elettorato

Mike immagina un target elettorale liberal piuttosto naif, pronto a sposare la causa di un ex repubblicano diventato ultra-liberal che lotta per i temi sociali. Non solo immagina l’esistenza di questo target ma spende centinaia di milioni indirizzando ads verso un pubblico, di fatto, estremamente minoritario nel paese reale.

“Mini Mike” ha ignorato le ricerche di mercato o ha avuto consulenti che gli hanno mostrato soltanto quello che voleva vedere?
Lo spot andato in onda in occasione del Super Bowl ne è un esempio: la NFL ha un target medio di spettatori di circa 50 anni, per lo più conservatori. Le statistiche ci dicono invece che appena il 28% dei giovani va a votare, giovani che sarebbero invece più sensibili a certe tematiche liberal. Concentrare la visibilità su uno spot sul Gun Control risulta quindi piuttosto azzardato.

  • Errore 2: posizionarsi su una nicchia di mercato satura

Il magnate dei media che, grazie alle proprie risorse illimitate, lancia una vera e propria OPA sul Partito Democratico e diffonde messaggi sociali, non può essere credibile: la base democratica aveva già trovato in Bernie Sanders il paladino delle politiche socialiste e in Joe Biden l’uomo della continuità obamiana.

Commentiamo con Mirko Pallera, direttore di Ninja, i risultati del Super Martedì e la riflessione è proprio questa: «Fare sempre quello che dice il cliente non è un bene per lui ma nemmeno per il consulente. Il risultato che ne verrà fuori parlerà anche di chi ha dato la consulenza. Quindi meglio essere onesti intellettualmente e restare professionali. Il bene del cliente si fa a volte anche dicendogli di no».

La prossima volta che vi diranno che le elezioni le vincono i ricchi…

Rispondetegli che semplicemente non è vero. Alessandro Tapparini, opinionista ed esperto di politica americana ci confida: «In una campagna elettorale ovviamente i soldi contano eccome; ma anche in una campagna elettorale, come in molte altre cose, non conta solo quanti soldi si spendono. Conta moltissimo anche come li si spende. Un fiume di soldi speso male sfocia comunque nello scarico del water».

Questo Super Martedì passerà alla storia anche come una grande lezione di comunicazione e di business: sfatiamo il mito che in politica “bastano i soldi per vincere” e allo stesso tempo aggiorniamo i manuali di marketing politico con una case history che ha del surreale.

Insomma, tutti i professionisti della comunicazione dovrebbero imparare la lezione: «La prossima volta che vi verranno a dire che nella politica americana vince sempre quello che ha più soldi in tasca, ricordategli di quella volta che Mike Bloomberg spese mezzo miliardo per vincere alle Isole Samoa».

scuole chiuse coronavirus startup

Scuole chiuse in tutta Italia: le lezioni a distanza si fanno grazie a una startup

Con la chiusura totale di scuole e università fino alla metà del mese di marzo, molti istituti stanno cercando soluzioni alternative per permettere agli studenti di non perdere giorni di lezione oltre che di frequenza.

Una startup in particolare ha deciso di mettere a disposizione gratuitamente la piattaforma, anche partecipando alla call del Ministero dell’Istruzione per sostenere la didattica a distanza.

Già dalla scorsa settimana, Schoolr aveva aperto gratuitamente le lezioni “da uno a molti”- le Schoolr Classroom -, dove un tutor può svolgere lezioni con gruppi fino a 30 studenti, per permettere così alle scuole di non restare indietro con il normale svolgimento dell’attività didattica.

Come funzionano le lezioni online

Grazie alla piattaforma, lo studente può connettersi con il tutor, da qualsiasi dispositivo e senza scaricare nessun tipo di applicazione o programma, accedendo semplicemente via web, con un link: un elemento di fondamentale importanza perché permette l’accesso a tutti, senza discriminazione di prezzo o di dispositivo.

L’aula virtuale è dotata di un pacchetto di funzionalità di ultima generazione, che consente di ottenere un’eccezionale esperienza di insegnamento e apprendimento online. Lo studente e il tutor interagiscono attraverso webcam full HD/microfono possono condividere una lavagna virtuale per la scrittura a mano, una per la scrittura con tastiera (analogo a word) e una, fornita di un compilatore con tutti i linguaggi di programmazione, per le lezioni di informatica.

Sono disponibili anche strumenti come l’equation tool, che consente di scrivere tutte le equazioni con i simboli esatti e il photo tool, con cui scansionare in pochi secondi un foglio cartaceo per portarlo all’interno dell’aula virtuale. Lo studente può scaricare ogni lavagna per avere sempre a disposizione i propri appunti di lezione. Inoltre, tutte lezioni sono automaticamente registrate dal sistema, e ciò permette a ogni studente di rivedere la propria lezione su qualsiasi dispositivo, anche scaricandola per la fruizione offline.

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Le startup a disposizione dell’emergenza

Schoolr ha scelto di mettere a disposizione gratuitamente la propria piattaforma perché la nostra vision è proprio quella di rendere accessibile a tutti l’educazione e la formazione scolastica e universitaria: questa situazione di emergenza mette alla prova il nostro lavoro e i nostri valori.

spiega Cristiano Scarapucci, CEO di Schoolr.

Nostalgia, 10 campagne che ti ricorderanno perché è una tattica fondamentale

Nostalgia nel Marketing: 10 campagne che ti ricorderanno perché è una tattica fondamentale

  • La nostalgia è un sentimento potente, soprattutto in comunicazione
  • Da Nintendo a McDonald’s abbiamo selezionato alcuni tra i migliori commercial a tema

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Muovere sulla leva della nostalgia nel marketing e nella comunicazione è l’equivalente del comfort food: affidabile, comoda e dal risultato assicurato.

In quest’epoca frenetica, dove ad ogni passo si affacciano mille pensieri sul futuro, abbiamo bisogno della nostalgia, abbiamo bisogno di tornare – almeno con il pensiero – a momenti che nel nostro contemporaneo immaginario iperconnesso, siano rassicuranti.

Poco importa se “quegli anni” li abbiamo vissuti realmente o no.

Ernesto Calindri per Cynar 1966

Ernesto Calindri per Cynar, nel 1966, avrebbe detto: “Contro il logorio della vita moderna” ma oggi, a supporto di questa tesi, c’è anche uno studio pubblicato sul Journal of Consumer Research.

Ebbene, pare che la nostalgia ci predisponga anche a spendere di più.

Preparate i fazzoletti allora, a voi alcuni brand che non se lo sono fatti ripetere due volte.

1. Nintendo, Two Brothers


LEGGI ANCHE: Le più belle pubblicità del Super Bowl dal 1972 al 2018.

Gran parte dei commercial che stiamo per vedere si riferiscono a noi “Millennial”, ossia quell’immenso e indefinibile target che comprende le persone nate tra il 1981 e il 1996.

Ecco, a me questa clusterizzazione non è mai tornata molto, troppo ampia e generica. Se sei nato nell’81, quando Steve Jobs ha tirato fuori l’iPhone dalla tasca avevi 27 anni, se sei nato nel ’96 ne avevi 12; difficile negare che ci siano delle differenze.

Ma nell’intro abbiamo parlato anche di “ricordare anni che in realtà non abbiamo vissuto”e possiamo dire che è proprio il caso di Nintendo.

Torniamo a noi, rampante over 30, ti ricordi quanto fosse figo il compagno di classe che per Natale ricevette la console?

Ovviamente andava condivisa con amici, compagni e soprattutto fratelli. Di questo parla “Two Brothers”, dell’evoluzione – non sempre facile – del rapporto tra i due, accomunati dal ricordo più bello: i pomeriggi insieme a raccogliere funghi e salvare principesse con Super Mario.

Gli anni passano, i dissidi si inaspriscono, ma quel legame (il loro e quello con la Nintendo) non svanisce: per fortuna la tech company nipponica è cresciuta con te e oggi tu e tuo fratello potete continuare a giocare con Nintendo Switch, anche se non condividete più lo stesso soggiorno.

2. Spotify, Never Ending

Una fortunata longevità simile era più improbabile della pettinatura di Limahl.

Eppure (complice forse il successo della seconda stagione di Stranger Things“Never Ending Story”, continua ad essere riprodotta anche su Spotify, ogni giorno (Spotify è la solita Maestra di utilizzo creativo dei dati).

Per questo Wieden + Kennedy New York, nel 2016, è riuscita a rimettere Atreyu in sella a Falkor, il suo Fortunadrago.

La coppia appare proprio come l’avevamo lasciata nel 1984, volando tra le nuvole con la sua iconica soundtrack in sottofondo.

Non posso credere che la gente ascolti ancora questa canzone

esclama Atreyu/Noah Hathaway, mentre Falkor/Alan Oppenheimer esplode in una delle sue tipiche risate…tutto mentre si allontanano e l’orizzonte si tinge di quella grana spessa che ci ha accompagnato per tutti gli anni ’80.

3. Target, Share the Force


Sarà che a me, quando parte la fanfara di Star Wars, una lacrimuccia scende comunque ma guardando questo commercial non puoi rimanere inerme davanti alla Forza.

E così, per spingere Star Wars: il risveglio della forza, la narrazione si snoda in un’epopea che ha segnato più generazioni. Facendo parlare loro, i piccoli-grandi Leia, Han, Chewbacca, in un montaggio che tra foto e filmati originali condivide una Forza che scorre potente dal 1977.

4. Adobe, The Joy of Sketching with Adobe Photoshop

Bob Ross – popolare guru della pittura – ha dominato con “The Joy of Painting” la Tv degli anni ’80.

Il suo stile pacato e cordiale di divulgazione è stato ripreso da Adobe e Lekker Media per la sua campagna multi soggetto “The Joy of Sketching”, dove con una serie di video tutorial hanno promosso Adobe Photoshop Sketch per iPad Pro.

L’autenticità, oltre alla nostalgia, è stato il forte concept della campagna.

5. Apple, Cookie Monster Siri Commercial

Apple non è nuova all’utilizzo di personaggi famosi e storici nei suoi commercial; qualche anno fa è stata la volta di far tornare alla ribalta Cookie Monster, il simpatico Muppet cookie-addicted che questa volta si fa aiutare da Siri a preparare i suoi biscotti preferiti.

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6. Microsoft, Child of the 90s

È facile ridere quando stai leggendo questo post da Google Chrome, questo perché probabilmente non ti ricordi di Internet Explorer. Il Browser di Microsoft è andato in pensionamento anticipato da qualche anno ma, grazie anche al supporto dell’agenzia creativa Colum Five Media, “Child of the 90s” si è aggiudicata il riconoscimento della viralità e un Webbie Award.

Potresti non ricordarti di noi,

ma ci siamo conosciuti negli anni ’90”

Inizia così il narratore, mentre lo spot ci mette davanti a pezzi storici come i marsupi, il Tamagotchi e i tagli di capelli a scodella.

Adesso guardalo e prova a non dire “ce l’avevo anche io”.

7. Adidas, Billie Jean King Your Shoes

LEGGI ANCHE: Perché amiamo i Brand del lusso. Sì, anche tu li ami.

Nel 1973, Billie Jean King ha giocato il match più importante di sempre: “The battle of the Sexes”, la prima partita di tennis che vedeva scontrarsi donna e uomo.

Quel giorno, battendo Bobby Riggs, B.J.King non ha solo vinto una partita di Tennis, ha vinto contro un uomo che aveva dichiarato che anche a 55 anni avrebbe potuto battere una donna, stravolgendo tutti gli stereotipi di genere dentro e fuori dal campo.

E ha fato tutto questo con un paio di Adidas blu.

Per celebrare il 45°anniversario della sua storica vittoria, Adidas non ha solo lanciato una classica linea celebrativa, non sarebbe stato nello stile di B.J.King: lei cambia le cose.

Quindi – in occasione degli U.S. Open, Adidas ha allestito uno stand che permetteva di dipingere di blu qualsiasi modello di scarpe (anche di altri brand) e i commercial a supporto dell’iniziativa mostrano la nostra eroina compiere questo atto sovversivo, munita di bomboletta e racchetta.

Parliamo anche di qualche numero: Adidas ha dichiarato che la campagna ha portato non solo ad un incremento delle vendite stimato intorno al +20%, ma che – a campagna ormai terminata – i modelli in edizione limitata sono rivenduti ad un massimo di 1000$ su Ebay.

8. Tesco, Christmass 2013


Se ti fermi un attimo a pensare, non c’è proprio nulla di più nostalgico di vecchi filmini amatoriali che ritraggono le feste natalizie trascorse in famiglia.

È questo l’insight seguito da Wieden + Kennedy, London per Tesco, che ci racconta il crescere (e l’invecchiare) di una normale famiglia, alle prese con i piccoli grandi drammi che si consumano abitualmente quando le famiglie si riuniscono. Un Natale che non è perfetto, perché è vero.

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9. McDonald’s, A Better McNuggets


LEGGI ANCHE: Il revisionismo ai tempi dello storytelling e le scelte dei Brand sugli errori del passato.

In questo caso McDonald’s doveva comunicare la rimozione di antibiotici e conservanti artificiali dai loro polli.

Per questo l’esigenza comunicativa non era “semplicemente” spingere un prodotto ma informare i consumatori, anche quelli meno attenti.

Leo Burnett USA ha quindi deciso di mettere in scena non tanto l’evoluzione del prodotto ma la sua valenza cross generazionale, che abbraccia genitori e figli, e tutte le emozioni che possono essere condivise, compresa quella di mangiare insieme dei McNuggets.

10. Australia Tourism Board, Dundee


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Tra i vari capolavori che vengono annualmente presentati al Super Bowl, menzione d’onore per l’edizione 2019 va all’ente del turismo australiana che – nell’anno in cui fare remake dei blockbuster anni ’80 pare fosse d’obbligo – ha scelto di allontanarsi dalla classica narrazione, dalle foto patinate e dalla messa in scena dei paesaggi da sogno del territorio.

La pubblicità si trasforma in trailer proprio per un remake, l’eroe che parla con i coccodrilli Mr. Croccodile Dundee l’ipotetico terzo capitolo della saga. Così gli spettatori si sono trovati davanti a Chris Hemsworth e Jason Sudeikis, che concordano sul fatto che la migliore vacanza che abbiano fatto sia proprio quella che li ha portati in Australia.

Come usare la Nostalgia?

Nessuna formula magica, solo una declinazione di quello che abitualmente fai per trovare un insight.

Cerca di indagare negli interessi del tuo pubblico, quello che li motiva, come sono cresciuti e quali siano i loro interessi più profondi. Fai le tue ricerche e sviluppa una buyer personas cresciuta in una generazione specifica, ed estrapola cos’ha caratterizzato la stessa.

Adesso scusate scappo, inizia Bim Bum Bam.

miti di digital marketing

3 miti di Digital Marketing che dovremmo sfatare nel 2020

Questo articolo è stato scritto da Joshua Spanier, VP of Media Lab at Google.

Alcuni luoghi comuni e miti del Digital Marketing vengono ripetuti così frequentemente e da così tante persone, che alla fine si tende a dare per scontato che siano veri. Come accade nella cultura popolare, è sempre stato così e sempre lo sarà.

C’è modo però, a volte, di fermarsi a riflettere più da vicino su questi miti e quello che emerge permette spesso di spostare l’asticella delle proprie strategie di marketing ad un livello successivo.

Ecco quindi tre miti di Digital Marketing che dovremmo sfatare quest’anno.

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Mito del Digital Marketing n. 1: il video è lento e costoso da produrre

Gli esperti di marketing comprendono che dovrebbero adattare e ottimizzare gli asset creativi alle caratteristiche specifiche della piattaforma in cui i video verranno usati.

Il mito del settore è che produrre video in questo modo è costoso e richiede molto tempo. Bisogna assumere un regista e un grande team che devono girare in qualche posto glamour, portando con sé le loro costose attrezzature. Prima di passare alla post-produzione, ci vorranno molti mesi e molti soldi. L’opera finale, per quanto bella possa essere, dovrà essere trasmessa ovunque – con un formato adatto a tutti i canali – senza tempo o risorse per eventuali adattamenti o personalizzazioni.

In realtà, produrre un video non deve essere così. È possibile invece produrre video digitali in modo più veloce, economico ed efficace.

Ad esempio, per il lancio di Google Home Hub, abbiamo preso un video di base e lo abbiamo lanciato attraverso uno strumento chiamato Directors Mix che consente di creare video personalizzati su vasta scala. Abbiamo realizzato alla fine 80 versioni dell’annuncio, ognuna su misura per un contesto diverso.

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Mito del Digital Marketing n. 2: più dati hai, meglio è

Nel marketing digitale, raccogliamo tutti i tipi di dati per capire se le nostre strategie creative e multimediali funzioneranno. Possiamo vedere quanto tempo qualcuno ha trascorso a guardare un video, fino a che punto qualcuno ha fatto scorrere la pagina verso il basso o quanti visitatori lasciano il nostro sito web. E l’elenco potrebbe continuare ancora.

Ma davvero solo perché puoi misurare qualcosa, significa che dovresti farlo? Ci siamo resi conto che, anche quando si tratta di dati, “less is more”.

Quando abbiamo verificato le analisi condivise con la nostra leadership dai team di Google Marketing, abbiamo scoperto che, insieme, stavamo segnalando 70 diverse metriche a livello globale. Come ci aspettavamo che i nostri CMO e VP prendessero decisioni coerenti, confrontando una campagna o strategia con un’altra, quando i nostri team non parlavano la stessa lingua?

Abbiamo ridotto tutti quei dati a sole sei metriche rilevanti. Perché questo numero? Perché eseguiamo due tipi di campagne: brand e performance. In tutte queste campagne, ci preoccupiamo di tre cose: se catturiamo l’attenzione delle persone, come si comportano in risposta e quale sia il risultato.

Quindi ora, piuttosto che annegare nelle metriche, ne abbiamo solo una per ciascuno dei risultati che siamo interessati a misurare.

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Mito del Digital Marketing n. 3: gli umani vengono sostituiti dalle macchine

“Come inserzionisti nell’era del machine learning e dell’AI, è facile pensare a noi stessi in un confronto epico con le macchine”, ha scritto Ben Jones in un articolo di Think with Google dell’anno scorso.

Questa paura che le macchine ci sostituiscano è normale e non si limita certamente al settore del marketing. Ma la paura è infondata. Invece, come abbiamo scoperto attraverso i nostri esperimenti lo scorso anno, si tratta di capire quali compiti le macchine svolgono meglio di noi e di lasciarle operare, lasciando così gli esseri umani liberi di fare ciò che davvero sanno fare in modo unico: intuire, ispirare e essere creativi.

Ecco un esempio. Questa è l’equazione per il calcolo del customer lifetime value (CLV) – un modo per identificare chi sono i clienti più preziosi, qualcosa che tutti gli esperti di marketing devono conoscere.

Per chi non è un matematico, ci vorrebbe letteralmente una vita per capire cosa significhi. Ma anche le persone più analitiche impiegherebbero un po’ di tempo a risolvere questo problema manualmente, motivo per cui in genere si calcola il CLV solo ogni sei mesi.

Per svolgere questa operazione in modo decisamente più rapido ci siamo rivolti al machine learning e abbiamo utilizzato uno strumento chiamato TensorFlow. Siamo passati dall’avere accesso a un CLV ogni sei mesi, ad avere 2.000 predicted customer value (pLV) al giorno. Questo ci ha permesso di ottimizzare e aggiornare regolarmente la nostra strategia di offerta di annunci.

Le macchine possono anche permetterci di risparmiare tempo nell’area della creatività pubblicitaria. Ad esempio, siamo stati in grado di utilizzare una smart creative technology per ottimizzare la visualizzazione e la ricerca degli annunci in tempo reale in base al modo in cui le persone rispondono a questi.

Il formato ha notevolmente sovra-performato rispetto ai legacy static display e ai search ads che utilizzavamo da più di un decennio.

I computer sono ben progettati per queste decisioni altamente manuali. Quindi lasciamo che facciano questo lavoro, lasciandoci la possibilità di concentrarci sulle cose che le macchine non possono fare.

Quelle di Tokyo 2020 potrebbero essere le prime vere Olimpiadi digitali (se ci saranno)

Mancano poco più di cinque mesi all’accensione della fiamma olimpica e all’inizio di Tokyo 2020, ma già i brand sponsor si stanno preparando per quella che sarà la prima vera l’olimpiade digital dell’era moderna.

Prima di parlare di Tokyo 2020 è necessario menzionare anche di Rio 2016, dove si parlò per la prima volta di Olimpiadi digitali: basti pensare che 102 milioni di browser in tutto il mondo effettuò l’accesso alla piattaforma online di BBC per seguire i giochi olimpici, circa il 75% degli spettatori, contro il 42% di persone che seguirono le Olimpiadi di Londra da device mobile.

Il dato è interessante e ha permesso ai brand di poter analizzare il fenomeno ed essere pronti e reattivi quattro anni più tardi, in uno dei paesi più digital del mondo, attraverso digital advertising sempre più personalizzate, experience online sempre più one-to-one.

Pericolo Coronavirus

Nonostante il Covid-19, i preparativi per le Olimpiadi di Tokyo 2020 continuano come previsto. Le contromisure contro le malattie infettive costituiscono una parte importante dei piani di Tokyo 2020 per ospitare dei Giochi Olimpici sicuri e protetti – è detto nella nota del Cio – Tokyo 2020 continuerà a collaborare con tutte le organizzazioni pertinenti che monitorano attentamente l’incidenza di malattie infettive e rivedrà le contromisure che potrebbero essere necessarie con tutte le organizzazioni pertinenti.

Queste le dichiarazioni del Comitato Olimpico Internazionale sui Giochi in Giappone, anche se non escludono la cancellazione delle Olimpiadi di Tokyo.

Entro la fine di maggio valuteranno, se la situazione peggiorerà o meno, il da farsi a riguardo. La dimostrazione di come il Coronavirus stia danneggiando non solo l’economia ma anche il mondo dello sport, coinvolgendo i paesi globalmente.

La ministra per le Olimpiadi, Seiko Hashimoto, ha confermato che il contratto prevede che i Giochi si svolgano entro il 2020 e quindi una delle interpretazioni è che potrebbe essere consentito uno slittamento della data di inizio. Giochi sono in programma dal 24 luglio al 9 agosto, ma le autorità nipponiche fanno sapere che faranno di tutto per rispettare i programmi.

La macchina organizzativa, insomma, per il momento va avanti e con questa anche le innovazioni in termini pubblicitari che i brand pensano di applicare all’evento sportivo più atteso dell’anno.

Tecnologie avanzate vs. sponsorship tradizionali

La possibilità per tutti i brand di accedere a contenuti, sistemi e partner sempre più avanzati permetterà una riduzione dei costi dovuti a meccanismi ormai superati.

La targetizzazione sarà uno dei fattori di successo più importanti da non sottovalutare; tutti gli spettatori dei giochi olimpici sono anche potenziali consumatori e il portare loro contenuti personalizzati, garantirà il successo della propria campagna.

Connessione h24

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Pensiamo ad un evento come le Olimpiadi in cui spettatori di tutto il mondo hanno il bisogno di essere collegati da ogni angolo del pianeta, in un’era in cui tutti noi abbiamo diversi device. L’opportunità è enorme sia per broadcaster sia per advertiser ma bisogna fare attenzione a diversi aspetti.

Il primo è la diversificazioni di contenuti: non tutti sono interessati a seguire tutte le gare tutte le ore del giorno, ma, nell’era dell’immediatezza è necessario adattare ciò che si propone.

Saranno utili video emozionali su mobile, facilmente condivisibili e con una connessione last minute per le finali, contenuti di maggiore durata e con una digital experience più attenta a diversificare l’esperienza per device come desktop e tablet.

Di conseguenza anche i brand dovranno adattare le loro inserzioni con nuovi formati, innovativi e non invasivi, con l’obiettivo di portare il proprio messaggio e promuoversi, senza interrompere l’esperienza olimpica.

Gli strumenti per Tokyo 2020

Per Tokyo 2020 i provider hanno pensato a diverse soluzioni custom per brand e utenti. Partiamo dalla più semplice: lo streaming. Le competizioni andranno avanti ogni giorno ad ogni orario, considerando i relativi fusi.

Ciò darà la possibilità ai marketer di adattare le proprie inserzioni non solo per demografica (età e provenienza geografica) ma anche di essere più specifici lato contenuti.

Il secondo strumento più utilizzato saranno le digital Out of Home: grazie alle nuove tecniche di digital advertising verranno tracciate, oltre ai passaggi in quella determinata area, anche orari, news e località. Una medaglia inaspettata sarà dunque condivisa immediatamente per non far perdere nemmeno un aggiornamento ai propri utenti.

tool per influencer

Tool per Influencer: Etciuu è il CRM per organizzare le fanbase

Con un mercato che varrà oltre 10 miliardi di dollari nel 2023, ma oggi è ancora tecnologicamente poco supportato, la piattaforma mobile italiana Etciuu ha pensato di colmare un vuoto: quello dei tool per influencer, strumenti espressamente dedicati a queste figure.

Un sistema CRM per gestire le fanbase di oltre 46 milioni di influencer nel mondo e fornire servizi-pay personalizzati ai loro follower.

Sviluppata su tecnologia proprietaria, per completare lo sviluppo ha da poco lanciato un piano di equity crowdfunding.

Come funziona il Customer Relation Management legato al mercato dell’Influencer Marketing

Etciuu fornisce all’Influencer la possibilità di gestire ed organizzare la propria fanbase non solo sulla base dei comportamenti di acquisto verso l’offerta di servizi-pay personalizzati, ma anche sul grado di engagement dei fan stessi.

Solo in Italia, sono oltre 20.000 gli influencer che utilizzano i canali social per vendere contenuti e servizi ad oltre 25 milioni di follower per un business che si stima supererà nel mondo i 10 miliardi di dollari nel 2023.

Etciuu unisce in un’unica app un sistema CRM, un marketplace per la vendita di servizi online, un servizio di messagistica sia one-to-one che one-to-many, ed una semplice ma potente dashboard di analisi e reporting.

Il modello di business si basa sulle commissioni di vendita dei servizi acquistati dai fan, e soprattutto sull’offerta di servizi di targetizzazione pubblicitaria native.

«Un anno e mezzo fa, quando abbiamo fondato Etciuu – spiega Marco Di Gioacchino, CEO di Ectiuu con una lunga esperienza internazionale nel settore dei contenuti digital – siamo partiti da una premessa: la quota dei ricavi pubblicitari per gli influencer si stava drasticamente riducendo. Infatti, fino a pochi anni fa, chi aveva un milione di follower riusciva a raggiungere quasi tutti; oggi perfino i primi della classe non ne raggiungono più del 10% gratuitamente. E l’accesso ai dati costa perché le fanbase appartengono ai social network».

Cosa serve oggi agli influencer per crescere

«Oggi gli influencer non sono i proprietari dei loro follower, cioè non sanno chi siano e non riescono a raggiungerli tutti in maniera organica, per via degli algoritmi dei social network. In questo senso Etciuu fornisce loro un sistema per organizzare questa fanbase.

A questo aggiunge un marketplace, cioè un sistema in cui è possibile vendere tutta una serie di servizi come videochat, audiomessaggi, videomessaggi personalizzati, accesso a contenuti premium, l’organizzazione di eventi. Il tutto è coordinato da un sistema di messaggistica interna che consente all’influencer di inviare direttamente a tutti i fan dei messaggi personalizzati.

Da una parte gli influencer sono gratificati dal fatto di avere a disposizione una dashboard in cui gestire i fan, mandare messaggi personalizzati, anche geolocalizzati. A sua volta il fan grazie all’app può finalmente richiedere dei servizi all’influencer che finora non poteva chiedere e ricevere delle comunicazioni personalizzate.

Rispetto all’influencer marketing pubblicitario, Etciuu va a valorizzare la relazione emozionale con i follower. Secondo le stime, i fan veri degli influencer sono circa un 12% e a questi si rivolge questo strumento.

Abbiamo valutato che oggi ci sono, solo in Italia, circa 20 mila canali social che hanno una qualche forma di remunerazione. In questo numero circo l’80% sono micro-influencer, con un numero di follower tra 10-15 mila. Questa fascia è quella che più di altre ha bisogno di crescere e trovare nuovi canali di remunerazione, ed è anche quella dove nasceranno i futuri talenti, le future celebrities.

Naturalmente stiamo parlando anche con alcuni VIP influencer, non perché abbiano bisogno di una crescita in termini di fanbase, ma per un discorso di charity. Abbiamo infatti previsto anche la possibilità che un influencer possa anche mettere in premio come donazione un servizio».

tool per influencer

Come crescerà il progetto del tool per influencer

Etciuu, naming onomatopeico di universale riconoscibilità, è un progetto con ambizioni di crescita internazionali e l’obiettivo di connettere attivamente 3,5 milioni di utenti in 5 anni. Si inserisce nella filiera inesplorata dei servizi B2B agli Influencer, focalizzandosi sullo sviluppo dei ricavi di quei servizi digitali – dalle videochat ai contenuti premium fino al booking di eventi – ad alto valore percepito dal fan, come accade su Twitch, piattaforma streaming per l’eGaming acquisita da Amazon, che incassa centinaia di milioni di dollari dalle offerte spontanee dei fan durante le gare di oltre 27.000 eGamers professionisti.

Dopo 18 mesi di analisi e sviluppo tecnologico, Etciuu, che ha già ottenuto 280.000€ di finanziamento dal Fondo Tecnonidi come startup innovativa, ha lanciato una raccolta di capitali in crowdfunding sul portale Backtowork24.com per velocizzare la crescita, attiva fino al 30 marzo e che ha già superato gli obiettivi minimi di raccolta.

10 competenze social media manager

10 competenze che un Social Media Manager dovrebbe assolutamente avere

  • Quella del Social Media Manager è una professione ancora in crescita, conosciuta da tutti ma spesso sottovalutata.
  • Per diventare un professionista del settore sono necessarie alcune skill fondamentali, che vanno dalla capacità organizzativa alla pazienza


Forse da bambino, scrutando il mare all’orizzonte, avrai anche tu pronunciato tra te e te la frase: “Da grande sarò un pirata”. Complici i film e i libri d’avventura, tutti abbiamo sognato un futuro galattico, a sfrecciare tra i pianeti dell’Universo, o a piroettare negli abissi degli oceani. Crescendo abbiamo dovuto cambiare i nostri desideri di bambini e diventare più concreti, adattarci ai tempi, e a volte creare una nuova immagine fantastica di noi stessi.

Le aspettative mutano, i bisogni cambiano, lo scenario di quando eravamo dei ragazzi è stato stravolto dagli avvenimenti, sia personali che sociali. La tecnologia ha rivoluzionato ogni cosa e ha portato con sé la nascita di nuovi lavori, professioni che nemmeno la nostra mente di piccoli sognatori avrebbe potuto concepire. Uno di questi è il Social Media Manager.

Tutti ormai sanno chi sia, molti vorrebbero diventarlo, ma pochi conoscono davvero le competenze che questo lavoro richiede.

Social Media Manager crescita profgessionale

Chi è il Social Media Manager

Una figura mitologica del mondo dei social media, nata dall’esigenza dei brand, sia grandi che piccoli, di potersi raccontare sulle varie piattaforme, per tenere sott’occhio i dati generati e le risposte degli utenti. Una persona che ha diverse competenze, emblema della parola multitasking.

Un lavoro che non è possibile improvvisare sottovalutandone l’impegno o limitando tutto alla crescita dei like (magari a pagamento).

No, il Social Media Manager – quello vero e capace – deve avere diverse skill, deve conoscere lo strumento con cui ha a che fare e deve aggiornarsi, sempre. Quello che a prima vista può sembrare un lavoro facile, come ogni professione richiede impegno e costanza.

Social Media Manager strumenti da utilizzare

Le 10 skill del Social Media Manager ideale

Abbiamo già detto che il Social Media Manager è una persona multitasking. Lui / lei sa che la sua giornata sarà probabilmente lunga e tortuosa. Deve creare un piano editoriale per ogni cliente, deve raccontare la natura di un’azienda, la sua mission. Oltre a confrontarsi con il cliente, deve dialogare con il pubblico attraverso post mirati, utilizzando sia le parole che le immagini (o i video). Opera con diversi social a seconda delle esigenze dell’azienda. Non solo genera contenuti, ma li analizza, studia gli utenti, i loro feedback, cerca di capire chi sono, cosa vogliono e come si sentono rispetto al marchio in questione.

Dietro i like, dietro le reaction, ci sono delle persone, e dietro i post creati c’è una donna o un uomo che ogni giorno deve mediare tra azienda e utenti, tutto questo tramite un social media.

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1. Deve essere super organizzato

Un Social Media Manager viaggia leggero, ha tutto sul suo smartphone e sul laptop. Ha un’agendina con tutti i  contatti, è sempre munito di carta e penna e lo si riconosce da lontano perché ha la mente che frulla idee in continuazione.

Organizzato nei minimi dettagli, crea contenuti sui social, risponde ai commenti, pianifica riunioni con il proprio team e con i clienti, analizza i dati dei follower.

Il tempo è fondamentale, progetta in anticipo le campagne, i post, e studia nuovi approcci basandosi sulle risposte ai contenuti che ha generato. Sembra aver sempre la testa fra le nuvole, ma in realtà si sta ricaricando per una nuova sfida.

Social Media Manager organizzazione

2. Deve essere creativo

Non solo numeri, ma soprattutto immagini e parole. La creatività è la linfa vitale della conoscenza, ed essere creativi  significa essere aperti alle novità, abbattere mattone dopo mattone, il muro dell’apatia, per non arrendersi mai. E infatti il Social Media Manager non si lascia sconfiggere dalle reazioni negative, ma cerca di dare il massimo in ogni situazione, creando la soluzione perfetta a ogni esigenza.

Come aumentare la propria creatività? Esercitandola ogni giorno, leggendo libri, guardando film, serie tv, documentari, disegnando, ascoltando le persone, abbandonandosi al mondo, tendendo l’orecchio a tutti i punti di vista, senza essere rigidi sui propri pensieri e sul modo di vedere se stessi e gli altri.

Questo serve anche a essere aggiornati su trend e meme, conoscere in anticipo cosa potrebbe creare hype, entrare in connessione con il pubblico.

Ecco perché è utile abbracciare il cambiamento senza averne paura, staccare la spina appena è possibile, facendo le cose che più ci fanno stare bene, che sia una partita a Playstation o una gita in montagna.

3. Deve essere curioso e aggiornarsi (sempre)

In questo lavoro bisogna avere una spiccata propensione alla curiosità, ma soprattutto aver voglia di non accontentarsi di ciò che si conosce, ma voler imparare sempre più cose, giorno dopo giorno.

Il mondo del web cambia in continuazione: nuovi algoritmi, nuove procedure, nuovi clienti e nuove esigenze. Noi non siamo gli stessi di qualche anno fa, e nemmeno chi ci ascolta.

Bisogna stare attenti ai desideri degli utenti, alla società che si evolve, ai consumatori che cambiano. Abbiamo visto che il focus, con annesse aspettative, si sta spostando sempre più verso la Generazione Z, e questo implica un dover necessariamente rinnovarsi, sia per i brand che per i Social Media Manager che sono dietro ai canali social.

Ecco perché corsi e formazione continua sono linfa vitale per il buon Social Media Manager, un’occasione non solo per approfondire il proprio lavoro, ma anche per confrontarsi su casi specifici con colleghi e docenti.

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Social Media Manager aggiornamento professionale

4. Deve saper scrivere bene

In un mondo di immagini, le parole sono ancora importanti? Ovviamente sì. Il bravo Social Media Manager sa che per comunicare col pubblico deve esprimersi in modo chiaro, conciso e semplice, perché l’equivoco è sempre dietro l’angolo.

Partendo dal presupposto che la soglia dell’attenzione di noi lettori si è notevolmente abbassata, arrivare alle persone, in un mondo di rumori, è sempre più difficile.

Scrivere sui social, comunicare in pochi caratteri ciò che è il cuore di un’azienda, è una sfida. Bisogna andare dritto al sodo, senza essere troppo invasivi. Il tono è importante, come il messaggio. Possiamo raccontare la storia più romantica che ci sia, ma se sbagliamo i modi, si trasformerà in un incubo.

Gli strumenti per chi vuole fare della scrittura la propria attitudine, sono tanti. Ci sono diversi manuale di copywriting, sia in italiano che in inglese, libri sulla scrittura creativa e professionale, ma non dimentichiamo mai i classici, i romanzi e tutta la letteratura che più ci ispira, che sia un fumetto o l’ultimo volume di Palahniuk.

Social Media manager copywriting

5. Deve saper usare i programmi di grafica (o almeno provarci)

Il Social Media Manager non è un grafico, ma può utilizzare dei programmi e dei tool per creare grafiche apposite per accompagnare le didascalie dei post. Ci sono numerosi strumenti per chi vuole specializzarsi, tutto dipende dalla strada che si vuole percorrere e dalle competenze richieste.

Ogni social ha un proprio linguaggio e, con il brand, si sceglie il modo di comunicare, che sia incentrato più sulle parole o intento a catturare l’attenzione del cliente attraverso immagini, grafiche, foto.

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6. Deve avere buon occhio per l’estetica

Collegato con la precedente skill c’è questa competenza. Conoscere le basi della fotografia, i filtri da utilizzare, il foto ritocco, aiuta tantissimo in questo tipo di lavoro, specialmente se si lavora molto con le immagini.

Avere una buona macchina fotografica e tutti gli strumenti per preparare la location, una sorta di piccola scenografia per i prodotti da presentare, è sicuramente un’arma vincente nelle mani del Social Media Manager.

Il gusto estetico, più in generale, sarà fondamentale per proporre un’immagine coordinata del brand sui diversi social, per progettare layout per specifici account o semplicemente per creare belle stories.

7. Deve saper analizzare i dati

Il professionista non è solo un creativo, ma anche un analista. I contenuti generano delle reazioni, traffico sulle pagine, e tutto ciò che passa su una pagina social resta e lo si evince dagli insight. Che sia un profilo Facebook o Instagram, ogni cosa è registrata e pronta a essere spulciata fino al midollo.

La capacità di utilizzare l’analisi per dimostrare il ROI e creare report significativi sui social media è un’abilità chiave per un Social Media Manager. Con la crescente importanza del Social Listening, è importante sviluppare la capacità di analisi dei dati sia quantitativi che qualitativi, al fine di comprendere il quadro completo e le prestazioni dei social.

Comunicare le opinioni agli stakeholder, fare report sulle prestazioni social è il primo passo, ma analizzare significa guardare i dati ed essere in grado di identificare le tendenze, sviluppare raccomandazioni e comunicare un piano d’azione.

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Social Media Manager analisi dati

8. Deve essere flessibile

Essere flessibili non solo nella gestione del lavoro, ma anche nell’organizzarlo. Le strategie social devono essere dinamiche e flessibili come le piattaforme su cui si basano.

È importante sperimentare diverse tattiche o persino rivoluzionare completamente la strategia, adattarsi alle nuove tendenze, incorporare i cambiamenti del business o riprendersi dai risultati scadenti. Imparare dai dati, ascoltare feedback, sia dei propri clienti che degli utenti, e tenere sotto controllo le tendenze social rende un Social Media Manager agile e flessibile.

Con dati e analisi, possiamo conoscere quale tipo di post sui social è utile e quale invece può essere eliminato poiché non produce risultati. La psicologia comportamentale spiega perché le persone sono attratte da determinati post o perché ne condividono altri. Conoscere ciò consente d’individuare le tendenze e provare nuove strategie più produttive.

LEGGI ANCHE: Come migliorare la produttività con le app se sei un Social Media Manager

9. Deve essere disponibile

La giornata di un Social Media Manager sembra essere interminabile. Non dura 24 ore, ma di più. Preparare il calendario editoriale, modificare i contenuti, anche all’ultimo minuto quando ci sono particolari esigenze, cancellare qualcosa, aggiungere altro. Rispondere in chat, rispondere ai commenti, condividere le stories dei follower, destreggiarsi con le reaction, ma soprattutto ascoltare, chiarire dubbi, aiutare.

Agli utenti può sfuggire un link, una descrizione, e il Social Media Manager corre in soccorso per indirizzarli verso la retta via.

Social Media Manager Skill

10. Deve essere (tanto) paziente

Sì, lo sappiamo, come la disponibilità, anche la pazienza è più un dono che una competenza, ma si tratta comunque di una qualità da non sottovalutare in un Social Media Manager, una inclinazione personale che può essere allenata.

A volte gli utenti dimenticano che dietro a un sistema oliato e organizzato esistono delle persone, che come tutti noi, hanno una vita, con gioie e dolori.

Cerchiamo tanto il lato umano nelle cose che spesso lasciamo a casa il nostro. Siamo delusi da un brand perché si è affidato all’influencer di turno per promuovere il proprio prodotto, e non ci risparmiamo a mostrare il nostro dissenso sulla pagina social. A pagarne le conseguenze è il povero Social Media Manager che deve placare una guerra cibernetica a colpi di clic.

Il regalo perfetto per lui o lei? Un corso di yoga (o un lanciafiamme).

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Chatbot Marco Mantovan

Cosa ha di speciale Meena, il più avanzato Chatbot al mondo progettato da Google

Hai mai scambiato quattro chiacchiere con un Chatbot?

Se la tua risposta è no, sappi che l’85% delle persone non riconosce la differenza tra un messaggio scritto da un umano e un messaggio scritto da un robot.

Non preoccuparti, il motivo è semplicissimo. I Chatbot di oggi sono così avanzati da riuscire a simulare alla perfezione una conversazione umana.

In questo articolo analizzeremo Meena, il nuovissimo Chatbot di Google, un “agente conversazionale che può parlare di … qualsiasi cosa”.

i tipi di chabot

Cos’è un Chatbot?

Partiamo dal presupposto che un Chatbot non è assolutamente un’AI (intelligenza artificiale).

Un Chatbot è un software in grado di ricevere degli input dagli utenti, ed inviare loro una risposta pre-impostata.

Ad oggi possiamo trovare svariati tipi di Chatbot, se ne contano quasi 800.000 solo su Facebook e vengono impiegati soprattutto per la customer care delle aziende private o come supporto agli uffici turistici nella pubblica amministrazione.

LEGGI ANCHE: Chatbot: l’incrocio tra tech e comunicazione che sta rivoluzionando la Customer Experience.

Un’AI invece è in grado di imparare da tutti gli input che riceve, migliorando la propria “conoscenza” e garantendo un miglioramento continuo delle risposte.

Google Meena Marco Mantovan

Arriviamo a Meena, il nuovo progetto di Google

Meena si basa su un modello conversazionale neurale end-to-end, in grado di considerare più di 2,6 miliardi di parametri.

Google ha dichiarato di aver “allenato” Meena per 30 giorni con un set di 40 miliardi di parole. Non solo parole a caso!

L’addestramento è stato improntato anche su più di 340 Gigabyte di chiacchiere pubbliche sui social. Ed è in grado di parlare di qualsiasi cosa e persino di ricorrere al black humor.

Per misurarne le capacità, Google ha sviluppato un sistema di misurazione chiamato SSA (Sensibleness and Specificity Average), in grado di valutare le risposte in una conversazione, assicurandosi che esse siano pertinenti e comprensibili.

L’SSA dà un punteggio ad una conversazione umana dell’86%, altri Chatbot sul mercato hanno ricevuto un punteggio che varia tra il 30% e 60%, invece Meena ha ricevuto un punteggio pari al 79%.

Che impatto avrà sul mercato?

Ad oggi seppur alto, il livello della conversazione di Meena resta sul conosciutissimo “parlare del più e del meno”.

Non è in grado di insegnare qualcosa o di migliorare la customer experience, fornendo informazioni sull’acquisto di un biglietto, il tracciamento di un pacco o offrendo supporto emotivo. I software di conversazione dovrebbero infatti avere lo scopo di portare un utente alla soluzione di un problema.

Diversi studi dimostrano che in certe situazioni, le risposte “robot” sono preferibili a quelle umane, soprattutto quando in ballo ci sono informazioni personali sensibili.

Meena Ninja Marketing Marco Mantovan

Quando conosceremo Meena?

Google non rilascerà una demo fino a quando non avrà verificato il livello di sicurezza di Meena, per non incorrere in problemi come capitato con un suo predecessore, rilasciato da Microsoft su Twitter nel 2016.

LEGGI ANCHE: Intelligenza Artificiale, tra fantascienza e scelte etiche

Dopo alcune ore Tay, questo era il nome del Chatbot, ha iniziato a pubblicare tweet sessisti e xenofobi, obbligando la casa madre a zittirlo immediatamente.

Quando Meena entrerà in gioco sarà un ulteriore passo avanti nel mondo dei Chatbot.

Ricordiamo però che un robot dovrebbe fare esclusivamente qualcosa di utile per l’uomo e non parlare a vanvera, senza peli sulla lingua. Si può dire di un robot?!?